5. The public rock of cut heads

Claudio Povolo
The public rock of cut heads.

Violence and banditry in the Mediterranean: Republic of Venice in the 16th century.

Guidati da quel giovane che li aveva attesi all’osteria del Progno, il piccolo gruppo di soldati attraversò silenziosamente la palude e la brughiera che contrassegnavano il paesaggio di quella landa posta a pochi chilometri dalla città. A causa della pioggia caduta la notte precedente il terreno era fradicio e scivoloso. Quando giunsero a quella casa isolata ed abbandonata, posta ai piedi di un’altura, l’alba non era ancora spuntata. Avevano lasciato più indietro i loro cavalli, insieme al più consistente numero di uomini che attendevano il via libera per avanzare. Probabilmente i banditi dormivano nel fienile della stalla attigua alla casa. In attesa della luce del giorno circondarono prudentemente l’abitato. Il podestà di Verona aveva raccomandato la massima prudenza, tant’è che, per non dare nell’occhio, erano usciti a notte fonda, dopo che le porte della città, come di consueto, erano state chiuse. Il piccolo esercito di circa ottanta armati era costituito dai soldati forniti dal provveditore generale in Terraferma Benedetto Moro, dagli sbirri del podestà e da due compagnie di soldati corsi e cappelletti. Era stato loro detto che un giovane dalla camicia rossa li avrebbe attesi in quell’osteria e condotti nel luogo dove si erano rifugiati i banditi. Costui, insieme ad un compagno, faceva parte del gruppo rifugiatosi la notte precedente in quella casa. Già da alcuni mesi i due delatori si erano segretamente messi in contatto con i Capi del Consiglio dei dieci, offrendo, in cambio dell’impunità e delle taglie promesse, la loro collaborazione per far cadere nelle mani della giustizia i loro compagni. Si trattava della cosiddetta banda dei fratelli della Grimana, cui, per l’occasione, si erano uniti altri banditi per compiere una rapina al vetturino diretto a Venezia con una somma consistente di denaro pubblico. Quegli uomini erano considerati estremamente pericolosi, anche perché venivano loro attribuiti diverse rapine ed omicidi. Erano stati preavvertiti che erano al numero di diciassette, armati di tutto punto con archibugi, pistole e munizioni in abbondanza e che tra di loro c’erano pure un patrizio veneziano e un nobile veronese. Quasi tutti ormai conosciuti come banditi famosi, una qualifica che sottintendeva trattarsi di individui avvezzi ad ogni fatica ed impresa, ma che soprattutto non avevano nulla da perdere, anche perché sapevano quale sorte li avrebbe attesi se fossero stati catturati vivi. Le loro stesse fattezze fisiche esprimevano significativamente la sfida continua che da alcuni anni andavano conducendo spostandosi lungo i confini, per attraversare a sorpresa quel territorio delimitato dai fiume Po e Adige, ma talvolta spingendosi pure sino al delimitare della laguna veneta. Prudentemente avevano messo sull’avviso anche gli uomini delle comunità vicine, che al loro ordine avrebbero dato il via al suono delle campane a martello. Sul far del giorno il piccolo esercito mosse all’attacco e la brughiera venne attraversata dal rumore assordante dei colpi delle armi da fuoco che si incrociavano senza sosta. Infine venne appiccato fuoco al fienile e il gruppo di banditi uscì impetuosamente, riuscendo a crearsi un varco tra gli assedianti. Quattro di loro furono uccisi, ma i rimanenti, inseguiti dai soldati e dagli uomini dei villaggi circonvicini, si addentrarono nella palude riuscendo a raggiungere il villaggio di Marcelise, dove trovarono rifugio in una casa. L’assedio proseguì tutto il giorno, nonostante fosse stato posto fuoco all’abitazione. Verso sera l’attacco si concluse con un’incursione dei soldati nella casa ormai in fiamme. Solo uno dei banditi, rimasto ferito, venne catturato. Tutti gli altri preferirono morire piuttosto che arrendersi. Le teste di coloro il cui corpo non era stato consumato dalle fiamme, furono mozzate e portate in città per essere poste sulla cosiddetta pietra del bando per il loro riconoscimento.

Violenza e banditismo
La dettagliata ricostruzione di questa storia è stata resa possibile ricorrendo alla descrizione che ne diedero i protagonisti che organizzarono o parteciparono al sanguinoso attacco, avvenuto poco lontano dalla città di Verona all’alba del primo ottobre 1607. La personale versione dei banditi avrebbe probabilmente fornito altri particolari e, di certo, una diversa valutazione dei fatti. Simili vicende erano comunque assai frequenti in questo torno di anni e pongono all’osservatore che le esamini una serie di questioni assai importanti, soprattutto in merito alle straordinarie manifestazioni di violenza che contrassegnano tra Cinque e Seicento la lotta al banditismo in tutta l’area del Mediterraneo. La storiografia degli scorsi decenni sul tema del banditismo si è soffermata in particolare sulla tesi formulata da Eric Hobsbawm in merito alla figura del bandito sociale. Una tesi che è stata sostanzialmente contestata da diversi punti di vista, anche se essa ha continuato ad esercitare un’indubbia attrazione nell’ambito degli studi che si sono rivolti ad esaminare il banditismo nelle sue implicazioni sociali e culturali. Le successive correzioni di tiro dell’illustre storico britannico non hanno comunque dileguato le perplessità di coloro che soprattutto sottolineavano l’importanza della ricostruzione del contesto politico e sociale in cui il bandito si muoveva. E del resto erano assenti nel testo di Hobsbawm, così come nei lavori che più o meno criticamente si rifacevano ad esso, le strette connessioni tra banditismo e pena del bando che caratterizzano l’età medievale e moderna. Le interrelazioni tra faida e banditismo hanno avvicinato la figura del bandito ai conflitti locali e alla loro interazione con i sistemi politici dominanti, ma non si è sufficientemente indagato sulle dimensioni costituzionali che le racchiudevano e che, molto probabilmente, sono utili a spiegare non solo la specificità dei conflitti, ma pure gli approcci storiografici tramite cui ci si è avvicinati alla dimensione della violenza. Può essere interessante ricordare le osservazioni del viaggiatore inglese Fynes Moryson, che nei primi anni ’90 del Cinquecento attraversò buona parte della penisola italiana:
The Italyans in generall are most strict in the courses of Justice, without which care they could not possiblie keepe in due order and awe the exorbitant dispositions of that nation, and the discontented myndes of theire subiects. Yet because only the Sergiants and such ministers of Justice are bound to
apprehend Malefactours, or at least will doe that office (which they repute a shame and reproch), and because the absolute Principalities are very many and of little circuite, the malefactors may easily flye out of the confines, where in respect of mutuall ielosies betweene the Princes, and of theire booty in parte giuen to those who should prosecute them, they finde safe retrayt. In the meane tyme where the Fact was donne, they are prescribed and by publike Proclamations made knowne to be banished men vulgarly called Banditi. And where the ruine is haynous besydes the bannishment rewardes are sett vpon theire heades to him that shall kill them or bring them in to the tryall of Justice, yea to theire fellow banished men not only those rewardes but releases of theire owne banishments are promised by the word of the State vpon that condition, which proclamation vpon the head is vulgarly called Bando della Testa.

Moryson coglieva l’immagine del banditismo nella sua originaria derivazione giudiziaria e, soprattutto, accostandola all’estrema frammentazione giurisdizionale della penisola italiana e ai provvedimenti straordinari adottati in quegli anni per fronteggiare un fenomeno strettamente correlato ai conflitti tra gruppi e parentele locali. Nella percezione di Moryson il fuorilegge era essenzialmente colui che era stato colpito dalla pena del bando e che, in quanto tale, poteva essere impunemente ucciso anche da coloro che si trovavano nella sua medesima condizione. Uomini che, sorprendentemente, non erano per lo più disponibili ad abbandonare definitivamente i territori da cui erano stati banditi, anche se spesso consapevoli del possibile tragico destino che li attendeva. Il viaggiatore inglese osservava inoltre come nelle zone di confine banditismo e violenza inevitabilmente si addensassero, alimentando l’immagine di fuorilegge il cui destino sembrava inesorabilmente tracciato:

These Outlawes fynde more safe being in those parts, by the wickednes of the people commonly incident to all borderers, and more spetially proper to the Inhabitants thereof. But these rewards, and impunityes promised to outlawes for bringing in the heads or persons of other outlawes hath broken their fraternity. So as hauing found that their owne Consorts haue sometymes betrayed others to capitall Judgment or themselues killed them, they are so ielous one of an other, and so
affrighted with the horror of their owne Consciences, as they both eat and sleep armed, and vppon the least noyse or shaking of a leafe, haue their hands vppon their Armes, ready to defend themselues from assault.

In realtà il clima descritto da Fynes Moryson rifletteva lo stato di emergenza che nei decenni a cavallo tra Cinque e Seicento si era diffuso non solo nell’area del Mediterraneo, ma anche in gran parte d’Europa. Le sue specificità incontravano certamente origine nelle diverse strutture politiche e costituzionali entro cui si venne ad affermare un nuovo concetto di ordine sociale, ma anche l’emergenza straordinaria di una violenza che si coniugava con la faida e il banditismo.
Le numerose monografie e lavori collettivi che in questi ultimi anni si sono soffermati sulle origini e modalità della violenza in età medievale e moderna hanno sottolineato la debolezza interpretativa di tesi come quelle di Elias e di Weber, che presuppongono il graduale emergere della forza dello stato in grado di legittimare o monopolizzare l’uso della violenza. Ed alcuni anni orsono Charles Tilly ha posto in rilievo come le diverse realtà statuali si imposero gradualmente e contraddittoriamente utilizzando le molteplici forze sociali esistenti sul territorio e comunque imponendosi come garanti dell’ordine costituito esistente. Un’ipotesi alquanto suggestiva se solo si presta attenzione alle modalità tramite cui la violenza delle istituzioni interagì con quella delle forze che ad essa si opponevano. In realtà lo straordinario rigurgito di violenza che si registra a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento incontrava un evidente supporto nella legislazione bannitoria che venne emanata dai poteri centrali in quel torno di anni. Una legislazione che risultò particolarmente efficace e che può essere compresa nella sua effettiva portata se solo la si accosta all’introduzione dei processi inquisitori che si registra in tutta Europa nel corso del Cinquecento. La politica criminale in tema di banditismo e di nuovi riti processuali poté evidentemente essere efficacemente condotta previo il consenso e la spinta di vasti settori della società dell’epoca. Anche perché essa implicò un effettivo e sostanziale superamento degli assetti costituzionali esistenti, che comunque, a partire dal basso medioevo, costituivano la legittimità politica delle diverse realtà territoriali e che non sarebbero definitivamente venuti meno se non sul finire del Settecento. Banditismo e sistema della vendetta erano intensamente intrecciati tra di loro e così i loro esiti, che riflessero, in primo luogo, l’indebolimento degli assetti costituzionali che avevano contraddistinto per secoli le diverse strutture politiche che caratterizzavano il bacino del Mediterraneo. Le interconnessioni tra faida e banditismo rilevate per alcune zone della Spagna o della penisola italiana sembrano implicitamente rinviare alle loro specificità istituzionali, caratterizzate da un articolato sistema della vendetta nel territorio. Fazioni, bandos e strutture parentali provviste di una sorta di legittimità giuridica sembrano esplicitare in modo meno visibile la loro presenza nei diversi contesti sociali laddove, come ad esempio nell’Italia Settentrionale, le città avevano esteso la loro giurisdizione su un ampio territorio. In tal caso la pena del bando, pur riflettendo la dialettica conflittuale tra i gruppi parentali in conflitto, era comunque espressione di tribunali che avevano l’obiettivo primario di assicurare la pace e la tranquillità sociale.
La pena del bando

Ampiamente utilizzata in ogni epoca e in diverse strutture politiche, la pena del bando assunse un’importanza di rilievo a partire dal basso medioevo, sia come arma di lotta politica (il cosiddetto bando politico) che come strumento di controllo sociale che poteva essere utilizzato a difesa dei valori e dell’ordine comunitario, ma anche per agevolare la risoluzione dei conflitti tra le famiglie che competevano per l’onore e la gestione delle risorse economiche. Una pena, dunque, che esprimeva la complessità delle istituzioni giudiziarie, caratterizzate da una cultura scritta e da professionisti del diritto, ma anche da un sistema conflittuale regolato dalle consuetudini e contraddistinto dall’onore e dalla vendetta. Si trattava dunque di una pena che interagiva con i riti giudiziari processuali e che rifletteva quel sistema costituzionale medievale eteronomo contraddistinto quasi ovunque da una fitta rete di giurisdizioni, ciascuna delle quali era dotata di una propria autonomia, anche se i valori morali, religiosi e politici erano sostanzialmente condivisi. In every medieval community restorative and retributive justice were interlinked and if the vendetta system was overall informal and regulated by customs, the judicial courts recognized some its violent aspects and had the main objective of reducing its potential danger to the security and peace of the town. Non a caso la persona colpita dalla pena del bando poteva per lo più essere uccisa impunemente se avesse oltrepassato i confini da cui era stata interdetta. Un sistema che implicava dunque una stretta correlazione tra violenza e banditismo, ma anche una distinzione non netta tra le due concezioni di restorative e retributive justice. Una concezione di restorative justice implicava una considerazione di rilievo nei confronti della vittima e l’obbligo per l’offensore di compensare adeguatamente il danno inferto. In the Medieval period and in certain parts of Europe also in the subsequent centuries this kind of justice was strictly tied to revenge, which typically involved anger, hatred and resentment, but also peace and amor. La pena del bando, che escludeva la persona accusata di un crimine dalla comunità, poteva dunque essere concepita come uno strumento per stabilire la tregua necessaria, in attesa che i gruppi antagonisti giungessero alla conclusione di una pace. I vari riti processuali dovevano condurre teoricamente a tale risultato e rivelavano con le loro caratteristiche e con i loro esiti l’implicito linguaggio della vendetta che animava la giustizia formale. Taluni riti processuali come le cosiddette difese per patrem, che prevedevano che il padre dell’omicida fuggitivo potesse presentarsi in suo luogo, spiegano inoltre come la pena del bando si accompagnasse di frequente in queste forme di giustizia con la pena pecuniaria e i frequenti atti di pace che molto spesso ponevano fine all’iter giudiziario. Ma anche nella società medievale esistevano ovviamente forme di giustizia dall’aspetto retributivo e nelle quali determinati comportamenti erano considerati un crimine contro la comunità, i suoi valori e i suoi assetti sociali. Una giustizia severa, ma che era spesso congiunta alla dimensione restorativa, in quanto aveva l’obbiettivo primario di ridurre l’impatto suscitato dai conflitti animati dal sistema della vendetta.

restorative

retributive

patrem, che prevedevano che il padre dell’omicida fuggitivo potesse presentarsi in suo luogo, spiegano inoltre come la pena del bando si accompagnasse di frequente in queste forme di giustizia con la pena pecuniaria e i frequenti atti di pace che molto spesso ponevano fine all’iter giudiziario. Ma anche nella società medievale esistevano ovviamente forme di giustizia dall’aspetto retributivo e nelle quali determinati comportamenti erano considerati un crimine contro la comunità, i suoi valori e i suoi assetti sociali. Una giustizia severa, ma che era spesso congiunta alla dimensione restorativa, in quanto aveva l’obbiettivo primario di ridurre l’impatto suscitato dai conflitti animati dal sistema della vendetta.

Una giustizia che, nonostante fosse contraddistinta dall’azione del giudice nella cosiddetta fase del processo informativo (inquisitio) , lasciava ampio spazio agli avvocati e all’utilizzo di procedure che avevano il fine di utilizzare i cosiddetti fatti giustificativi quali la provocazione, la legittima difesa e, soprattutto, il tema del furore. In tale dimensione giudiziaria la vittima aveva comunque un ruolo rilevante e poteva intervenire nella stessa fase iniziale del processo. La pena del bando costitutiva in definitiva una sorta di anello di congiunzione tra le diverse istanze di giustizia e un equilibro tra il ruolo della vittima e quello dell’imputato.
Il banditismo nella Repubblica di Venezia

Nell’agosto del 1531 il Consiglio dei dieci, massimo organo politico-giudiziario della Repubblica, deliberò un provvedimento in tema di banditismo che rifletteva le tensioni giurisdizionali e costituzionali che inevitabilmente suscitava una tale materia nel momento in cui veniva ad estendersi a tutti i territori dei domini da terra e da mar. Come di consueto la parte iniziale della parte esplicitava contenuti ben conosciuti da tutti i sudditi della Repubblica. Si diceva infatti che i provvedimenti assunti in tema di banditismo, sia a Venezia che nelle altre città, erano risultati inefficaci e che tutti i banditi ritrovati nei territori da cui erano stati interdetti avrebbero potuto essere impunemente uccisi. Ma, si aggiungeva poi, l’inefficacia delle leggi era dovuta essenzialmente al reticolo di protezioni e di aiuti di cui essi potevano impunemente godere. Si deliberava perciò che chiunque avesse prestato qualsiasi forma di assistenza ad un bandito sarebbe incorso nelle stesse severe pene ed avrebbe potuto essere impunemente ucciso “etiam che il fusse suo congionto in strettissimo grado di sangue”. Il provvedimento del 1531 era di estrema gravità non tanto e non solo perché incideva nella dimensione della parentela e della vendetta che animava la pena del bando, quanto piuttosto perché esso interferiva visibilmente con l’assetto costituzionale esistente, nel quale la politica bannitoria era di esclusiva pertinenza delle giurisdizioni locali. Tant’è che già l’anno seguente la parte veniva sostanzialmente rivista, in quanto erano avvenuti molti inconvenienti a causa dei maligni che con sotterfugi e inganni accusavano molte persone innocenti. Il nuovo provvedimento rifletteva in realtà le difficoltà a regolamentare dall’esterno le complesse interrelazioni tra vendetta, parentela e banditismo. Non diversamente, alcuni decenni prima lo stesso Consiglio dei dieci aveva assunto un provvedimento in tema di banditismo, che l’anno seguente aveva poi cassato. Nel 1489 si era infatti deciso che i banditi non potessero essere uccisi impunemente ricorrendo ad aggressioni premeditate, condotte con agguati e insidie. Una parte contradditoria, che evidentemente non considerava il sistema della vendetta che animava il banditismo, e che volutamente sembrava ignorare le prerogative costituzionali delle grandi città della Terraferma veneta e lombarda. E difatti, l’anno seguente, di fronte alle proteste della città di Vicenza, il provvedimento, come si è detto, veniva revocato.
Ovviamente il ceto dirigenti lagunare e le massime istituzioni politico-giudiziarie della Serenissima avevano ben presente la complessità sociale e culturale che sottostava al banditismo e agli equilibri costituzionali inerenti alla sua regolamentazione nelle città suddite. Il diarista Marin Sanudo ricorda, a tal proposito, la discussione avviatasi nel 1525 in Consiglio dei dieci in merito ad un omicidio commesso a Corfù da parte di un soldato arruolato in una delle galee del Provveditore all’Armata. I consiglieri avevano proposto che il caso fosse assegnato a quest’ultimo con facoltà di bandire da tutti i territori della Repubblica, prevedendo inoltre che tale competenza avrebbe dovuto essere inserita nelle commissioni rivolte ai provveditori generali Una proposta che evidentemente non teneva conto delle prerogative costituzionali del Provveditore di Corfù e, soprattutto, più in generale, della giurisdizione di competenza delle città suddite. Ma infine la proposta dei consiglieri, come annotava con soddisfazione il Sanudo, era stata respinta dalla maggioranza del Consiglio, in quanto la sua approvazione avrebbe significato “tuor la iurisdition de li rettori di le terre”. In realtà la pena del bando, pur utilizzata frequentemente dalle magistrature veneziane, soprattutto a partire dal Quattrocento, sembra essere estranea alla dimensione giuridica della città lagunare e, come è stato osservato, essa è assente nelle Promissio maleficiorum dei dogi Orio Malipiero (a. 1181) e Jacopo Tiepolo (a. 1232). Un’assenza che non sembra rivelare una presunta diversità culturale di Venezia, quanto piuttosto una specificità del suo assetto costituzionale, caratterizzato da una città stato provvista di un esile retroterra territoriale (il Dogado). Con la formazione di uno stato territoriale sarebbe stato ben difficile per le supreme magistrature veneziane ignorare la complessità e l’urgenza di un fenomeno che inevitabilmente premeva alle porte della città dominante.
Gli interventi delle supreme magistrature veneziane in tema di banditismo erano in realtà per lo più sollecitati da singole famiglie o individui, nell’ambito di contrapposizioni tra gruppi, che molto spesso tendevano a fuoriuscire dai contesti locali per piegare il conflitto a proprio favore. Interventi che inevitabilmente producevano una reazione da parte delle città suddite, che chiedevano l’immediato ripristino dei diritti costituzionali violati dai provvedimenti assunti dalla città dominante. La pena del bando era infatti una prerogativa importante prevista negli statuti di ogni grande città dello stato veneziano. In particolare, nel momento dell’acquisizione della Terraferma, Venezia aveva stabilito dei patti che gli stessi rappresentanti da essa inviati a reggere quei centri erano tenuti a rispettare nella forma e nella sostanza. Il bando inflitto di tribunali locali prevedeva l’espulsione dalla città, dal suo territorio e dalle consuete 15 miglia al di là dei confini. In taluni casi, come a Vicenza nel 1545, il Consiglio dei dieci aveva esteso considerevolmente le prerogative del tribunale locale di bandire da tutti i territori compresi tra il Mincio e il Quarnaro. E nel 1503 la suprema magistratura veneziana aveva pure deliberato che i banditi dai tribunali del domino da terra e da mar che non si fossero allontanati entro otto giorni dai territori loro interdetti avrebbero dovuto considerarsi banditi da tutto lo stato, compresa la stessa città dominante. Una politica criminale che enfatizzava la giurisdizione delle città suddite.
Le scelte del supremo organo veneziano miravano evidentemente ad agevolare il mantenimento della pace nei territori sudditi e in tale direzione la giurisdizione dei tribunali locali in materia bannitoria era di estrema importanza. La pena del bando non aveva infatti il solo obbiettivo di allontanare tutti coloro che minacciavano la tranquillità della vita cittadina, ma era pure finalizzata a creare le premesse per il ristabilimento della pace tra gruppi e fazioni antagonisti. Il bando, con l’allontanamento di coloro che si erano macchiati di un grave delitto, si costituiva come premessa essenziale per lo stabilimento di una tregua, necessaria per avviare le trattative di pace tra i gruppi rivali, ma anche per agevolare il ruolo svolto dal tribunale locale per l’affermazione di una giustizia in grado di contemperare le diverse esigenze di ordine e di sicurezza. Perché l’ostracismo decretato dal tribunale locale risultasse efficace, si prevedeva pure che colui che avesse violato i confini previsti dalla pena del bando avrebbe potuto essere impunemente ucciso. Una previsione che evidentemente aveva l’obbiettivo di affermare la giurisdizione del tribunale cittadino, ma anche di concedere alla famiglia offesa nel sangue e nell’onore di perseguire la propria vendetta. La pena del bando era così indissolubilmente legata al sistema consuetudinario della vendetta, che ubbidiva a proprie regole, ma che doveva comunque raffrontarsi ad un sistema giudiziario che, con le sue istanze di ordine e di pace aveva l’obbiettivo di garantire la sicurezza cittadina e l’equilibro tra le opposte fazioni in costante competizione per motivi di ordine economico e politico. Solo qualora la pace tra le opposte fazioni fosse stata raggiunta il tribunale cittadino avrebbe decretato il ritorno di colui che era stato bandito. In tal modo l’informale sistema della vendetta, che ubbidiva alle regole consuetudinarie, e quello formale delle istituzioni giudiziarie, mediato ed interpretato da un ceto di giuristi professionisti, incontrava una sintesi in nome di un ordine che aveva come premessa ineliminabile il ristabilimento della pace cittadina.

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La fase della sospensione (1549-1580)

Le interrelazioni complesse tra sistema della vendetta e pena del bando si muovevano dunque sia a livello informale, tramite le trattative e gli accordi tra le parti in conflitto, che sul piano formale giudiziario intervallato da riti giudiziari che come le diverse forme di citazioni, le difese per patrem e i salvacondotti, avevano il fine di condurre al ristabilimento degli equilibri infranti dal conflitto e ad una sua risoluzione pacifica. Perché ciò potesse svolgersi positivamente era necessario che l’ostracismo nei confronti della persona bandita rimanesse operante sino alla conclusione della pace. E tale ostracismo poteva risultare efficace solo con la previsione che il bandito avrebbe potuto essere impunemente ucciso qualora avesse violato i confini del territorio da cui era stato espulso. In base a tale considerazione si può così cogliere l’impatto suscitato dalla legge che il Consiglio dei dieci assunse nel 1549, avviando quella che è possibile definire politica della sospensione. In tale data il supremo organo politico-giudiziario della Repubblica decretò la sospensione della possibilità che i banditi potessero liberarsi uccidendo o catturando altri banditi (evidentemente nell’ambito della giurisdizione di competenza). Una chiara violazione della giurisdizione dei centri sudditi motivata dal diffuso clima di insicurezza sociale e che veniva comunque adottata per un solo biennio:
tutti quelli li quali si trovano banditi fin questo dì et che de coetero si bandiranno per qualunque caso così pensato et attroce, come puro, o in perpetuo o a tempo […] non si possano più liberar dalli loro bandi quovis modo per prender o ammazzar un altro bandito […] né per vigore d’alcuna leze o parte finhora presa che li desse tal beneficio, di modo che a questi tal banditi sia del tutto tolta la speranza di poter aggiustarsi.
La legge rimase in vigore sino al 1555 e poi venne sospesa e ripristinata ad intermittenza sino al 1580, quando, di fatto, venne sostituita dalla legge emanata in quell’anno e che avrebbe dato il via ad una vera e propria fase di proroga. La legge del 1549 si accompagnò ad un provvedimento con il quale si costituivano due compagnie di soldati dalmati formate ciascuna da settanta uomini guidati da due capitani di campagna con il compito di perlustrare i territori della Terraferma. L’intervento del Consiglio dei dieci intendeva segnare un vero e proprio momento di svolta, in quanto la tormentata vicenda del banditismo era affrontata decisamente, incidendo evidentemente sulle dinamiche che alimentavano i conflitti tra gruppi e parentele. Molti statuti delle città suddite prevedevano infatti che non solo i banditi potessero essere uccisi impunemente da chiunque, ma che essi potessero pure ottenere la loro liberazione uccidendosi l’un l’altro. Una normativa che mirava a conseguire il rispetto dei periodi di tregua necessari alle istituzioni giudiziarie locali e alle parentele in conflitto per attenuare le tensioni interne ed avviare le trattative di pace. Il provvedimento assunto dal Consiglio dei dieci interferiva con le dinamiche conflittuali locali e di certo l’istituzione dei capitani di campagna ben difficilmente avrebbe potuto far fronte agli endemici problemi suscitati dal banditismo. La lunga fase di sospensione avviata con la legge del 1549 permise comunque al supremo organo veneziano di dettare i ritmi di una politica criminale non più esclusivamente affidata ai centri sudditi.

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Una vera e propria interferenza, che si distingueva dai singoli provvedimenti che pure in passato erano stati temporaneamente assunti in materia di banditismo, in quanto la legge del 1549 si costituì come punto di riferimento per alcuni decenni. Infatti nel 1555 essa venne sospesa per tre anni; e così successivamente nel 1559 (per cinque anni), 1569 (per un anno), 1573 (per un anno), 1574 (per un anno), 1577 (per due anni), 1579 (per due anni). Nei periodi in cui, in virtù della sospensione, la legge non aveva efficacia, le giurisdizioni locali riacquisivano la loro autonomia, e il sistema incentrato sulle complesse relazioni tra vendetta e istituzioni giudiziarie locali diveniva nuovamente attivo. E’ probabile che la legge del 1549 si inserisse in un complesso discorso interlocutorio con i ceti dirigenti sudditi e intendesse svolgere una funzione parenetica nei loro confronti, inducendoli a contenere l’intensa conflittualità locale. Di certo per circa tre decenni il provvedimento, apparentemente contraddittorio ed intermittente, avrebbe condizionato non solo taluni dei meccanismi che animavano il sistema della vendetta, ma avrebbe pure sospeso la stessa legittimità degli statuti e delle loro previsioni giudiziarie e procedurali.

Dalla sospensione alla proroga

Di fronte ad una grave situazione che veniva esplicitamente attribuita all’emergere di un banditismo considerato aggressivo e pericoloso il Senato veneziano il 20 maggio 1580 deliberò un provvedimento di carattere eccezionale che rimase in vigore per lungo tempo. I rettori delle principali città venivano insigniti della facoltà di procedere sommariamente e sopra il luogo contro i banditi colti nei territori a loro interdetti. Un provvedimento che si indirizzava apertamente contro la rete di supporto e di aiuti che faceva capo a certi settori dell’aristocrazia, in quanto si prevedeva pure che una volta individuati coloro che proteggevano i banditi, i rettori avrebbero dovuto infliggere nei loro confronti la pena della relegazione e l’abbattimento delle loro case se trasformate in fortezze. La legge del maggio 1580 risultò particolarmente efficace, anche perché entrava decisamente nel forte clima conflittuale che animava settori non marginali della nobiltà di Terraferma.
Il vero saltò di qualità si registrò però nel luglio dello stesso anno, quando, con una nuova legge si superò definitivamente il lungo periodo di sospensione avviatosi nel 1549 e il Consiglio dei dieci assunse decisamente nelle proprie mani la complessa materia del banditismo, che per circa due secoli, anche se con notevoli inframmettenze, era stata di competenza delle giurisdizioni locali. Cassando implicitamente il provvedimento del 1549, il supremo organo veneziano deliberò che tutti i banditi avrebbero potuto ottenere la loro liberazione uccidendo altri banditi che si fossero trovati nelle loro stesse condizioni. Con gli inevitabili aggiustamenti e modifiche la legge venne prorogata ad intermittenza per alcuni decenni. Dalla lunga ed intermettente fase di sospensione di una legge che interferiva nelle dinamiche conflittuali collegate al banditismo, si passò dunque ad una nuova fase, caratterizzata dalla proroga di una legge che assegnava al Consiglio dei dieci le competenze in tale materia.

secondphase
Con la legge del 1580 la legislazione inerente il banditismo venne dunque assunta direttamente dagli organi centrali della città dominante, quantomeno nella sua dimensione politicamente più rilevante. Un controllo tanto più significativo in quanto si accostò alla graduale ingerenza del Consiglio dei dieci nei confronti dell’attività giudiziaria dei tribunali dei centri sudditi. Con una fitta attività di delega del rito inquisitorio ai rettori delle grandi città della Terraferma, il supremo organo politico-giudiziario si inserì decisamente nei conflitti e nel sistema della vendetta che per secoli avevano regolamentato gli equilibri tra parentele, fazioni e gruppi rivali. Il rito inquisitorio del Consiglio dei dieci prevedeva difatti l’esclusione di ogni privilegio goduto dalle città suddite, una procedura segreta e soprattutto l’esclusione dell’avvocato difensore. La pena del bando inflitta con l’autorità del Consiglio dei dieci si estendeva a tutti i territori dello stato, superando i tradizionali confini e venne resa più efficace dalla concessione di taglie e, soprattutto, dal rilascio delle cosiddette voci liberar bandito. L’arresto o l’uccisione di un bandito comportava l’acquisizione di una voce che poteva essere utilizzata dal diretto interessato, oppure essere ceduta ad altri che avrebbero potuto a loro volta chiedere la liberazione di un altro bandito. Si venne dunque a creare un vero e proprio mercato delle voci e soprattutto si delineò la figura del cacciatore di taglie. Una figura che poteva muoversi nell’anonimato, ma che più spesso svolgeva la sua attività in accordo con le istituzioni veneziane. Come quel Francesco Canova che per un decennio, con un seguito di circa cinquanta uomini, si dedicò alla caccia dei banditi, ottenendo numerose taglie e voci liberar bandito. Nel gennaio del 1588 compì la sua impresa più clamorosa, come avrebbero ricordato nel 1590 i rettori di Verona, che avevano continuato ad avvalersi della sua esperienza. In quell’occasione Francesco Canova, con il seguito di una cinquantina d’uomini armati, penetrò in territorio arciducale alla caccia del conte Ottavio Giusti “assassino famosissimo et accerrimo perturbatore della publica quiete”, il quale si era rifugiato ad Avio insieme ad alcun suoi seguaci. E, come notarono con soddisfazione i rappresentanti veneziani, il cacciatore di taglie era riuscito nell’impresa portando “sei teste alla pietra del bando di questa città, insieme con quella di detto Ottavio”. Come sembrano suggerire i nomi e le località di provenienza dei suoi uomini, l’attività del Canova prese avvio da conflitti che trovavano origine nel sistema della vendetta locale di cui era stato più o meno direttamente protagonista. Concordata con i rettori di Verona e il Consiglio dei dieci la sua iniziativa si estese poi alla repressione del banditismo. Grosse compagnie di armati come la sua erano divenute necessarie soprattutto per affrontare il banditismo di confine che inevitabilmente finiva per catalizzare fuoriusciti di diversa provenienza. Ma la lotta contro il banditismo poté risultare efficace solo avvalendosi della diffusa conflittualità esistente nei diversi territori e che traeva la sua linfa vitale in un sistema della vendetta non più mediato dalle istituzioni giudiziarie locali. A questo proposito Fynes Morison ricordava il mutato clima di fine secolo:
In Crimes extraordinarily haynous, the Princes and States are so seuere, as in their publique Edict of banishment, besides rewards sett vppon their heads, great punishments and Fynes according to
the qualityes of offence and person are denounced against them who at home shall make petition or vse other meanes at any tyme to haue them restored to their Countryes Lands and livings.

legislation

La nuova legislazione adottata contro il banditismo di fine secolo innescò un corto circuito tra sistema della vendetta e le tradizionali pratiche di mediazione che miravano al raggiungimento di tregue e paci. E la sua efficacia poté realizzarsi sia inserendosi nelle dinamiche conflittuali locali, che utilizzando la concessione di premi e benefici volti a stimolare la delazione, il coinvolgimento di comunità e di cacciatori di taglie. L’attività giudiziaria del Consiglio dei dieci e l’utilizzo del suo rito inquisitorio si costituirono come il supporto essenziale di un’attività repressiva che fece soprattutto perno sulla legislazione bannitoria. Un’esemplificazione significativa delle interrelazioni complesse messe in atto dall’attività giudiziaria del Consiglio dei dieci è data dalla vicenda che ebbe come protagonista il conte vicentino Ludovico da Porto. Nel 1579 egli venne dapprima inquisito e poi bandito da tutti i territori della Repubblica a seguito di una serie di violenze da lui compiute nel villaggio di Cresole, ma abilmente amplificate dalla fazione nemica. Proteso ad inseguire la propria vendetta, Ludovico da Porto oltrepassò più volte i confini dello stato, infierendo sui suoi nemici. Il Consiglio dei dieci pose sulla sua testa una taglia cospicua e lo bandì ripetutamente. Unitosi ad un gruppi di altri banditi vicentini e veronesi nel 1586 venne ucciso nel sonno insieme ad alcuni suoi compagni a Sabbioneta nel Mantovano. Il nobile veronese Andrea Del Ben suo uccisore, tagliò loro le teste e le invio a Vicenza perché fossero viste dai nemici del da Porto ed esposte sulla pietra del bando.

Confini e fuorilegge

La nuova normativa sul banditismo amplificò indubbiamente la dimensione della violenza, ma soprattutto ne evidenziò gli aspetti strumentali e repressivi. Le tradizionali interrelazioni tra faida e pena del bando e la loro dimensione costituzionale vennero travolte sotto l’urto di una politica criminale caratterizzata da una legislazione premiale e da una diversa percezione del territorio e dei confini. Una fase destinata a durare e che fu essenzialmente contraddistinta da un uso della violenza da parte dei poteri dominanti facendo perno su forme di violenza già esistenti sul territorio, ma ora finalizzate a un nuovo concetto di ordine e di sicurezza sociale. Ogni tentativo di cogliere le origini, modalità e trasformazioni della violenza in età moderna non può dunque prescindere da una riflessione sullo stesso termine di banditismo. In linea generale la storiografia si è soffermata sul concetto di banditismo sociale coniato da Eric Hobsbawm, oppure, all’incontrario, ha utilizzato lo stesso termine bandito nel senso più generico ed ampio di criminale o fuorilegge. Un’ambiguità che, come è stato osservato, ha impedito di cogliere il problema nella sua specifica dimensione costituzionale e culturale:
So long as the target of inquiry was banditry historians and anthropologists limited themselves to exploring only one facet of a much more complex process. As soon as the term “bandit” was applied, inquiry was restricted only to those armed predators who operated outside the law.
In realtà la complessità del problema è innanzitutto terminologica:
The word ‘bandit’ itself is derived from the Italian verb ‘bandire’ meaning to exile or banish and thus at its root a bandit is a man who has been barred from normal society […]; the same men who at some points in their lives were bandits often operated at times inside the law as well. But a legal bandit is an oxymoron. By definition a bandit stands outside the law.
In base a tali considerazioni è stato osservato come le figure di banditi e pirati siano correlate alle profonde trasformazioni economiche e politiche che in epoche e territori diversi furono decisive nella costruzione e rafforzamento degli stati. Per tale motivo si è preferito parlare di military entrepeneurs, ambigue figure che fiorirono in aree contraddistinte dall’espansione economica, ma pure in territori periferici e di confine:
Military entrepeneurs, especially when they operated as outlaws, facilitated capitalist penetration of the countryside […]; were deeply implicated and involved the processes of state formation and consolidation. The political environments in which they flourished were characterized by weak and imperfectly centralized states incapable of exerting effective control […]; they participated in power struggles between big men[…]; they provided the armed forces, or at least some of them. When the conflict was resolved, those on the winning side often became irregular members of the legitimacy security forces, while the losers became labeled as outlaws once more.
Le trasformazioni economiche e politiche, che interessarono la penisola italiana e altri paesi europei a partire dalla seconda metà del Cinquecento, ebbero come catalizzatore sociale e culturale il banditismo, un fenomeno che venne enfatizzato al massimo livello dalle tensioni costituzionali e politiche entro cui esso si inserì. Di seguito alla politica criminale e alla legislazione bannitoria assunte dalle realtà statuali, i confini, costituzionalmente frammentati e giurisdizionalmente ambigui, divennero il terreno privilegiato dell’azione di gruppi di banditi e fuoriusciti dediti alla rapina e al saccheggio, ma anche al perseguimento della vendetta, che assai più difficilmente poteva risolversi con le consuete modalità e procedure previste dalla giustizia restorativa. Un dato, questo, che può spiegare, ad esempio, l’ampio coinvolgimento in tutta la penisola italiana del banditismo di origine aristocratica o feudale. Come è stato osservato:
It is because the bandit throws down a challenge to law, state violence and the territorial imaginary that the state sees in the bandit not just a criminal but a political opponent and, conversely, why many bandits become ‘primitive rebels’.

Se la violenza traeva ancora prevalentemente origine dai conflitti originati dal sistema della vendetta e dall’idioma dell’onore, la sua amplificazione fu causata dal superamento dei consueti assetti giurisdizionali e dagli straordinari strumenti repressivi adottati dai poteri centrali. La catalizzazione del banditismo nelle aree di confine fu il risultato inevitabile della messa in discussione della tradizionale pena del bando. Ma per poter far rispettare la diversa concezione di ordine e di sicurezza le autorità centrali non esitarono ad utilizzare le dinamiche e le ambiguità che animavano lo stesso banditismo e puntando su figure che si potrebbero definire interscambiabili tra il ruolo di banditi o di cacciatori di taglie, più o meno apertamente legittimati ad operare sul territorio. Le nuove realtà statuali emergenti, come ha notato Thomas Gallant, furono costrette ad utilizzare queste forze irregolari come guardiani delle frontiere e, molto spesso, risultava difficile distinguerle dagli stessi banditi che operavano ai confini o si addentravano negli stessi territori per compiere rapine o per portare a compimento la loro vendetta. L’azione repressiva mise comunque in rilievo il ruolo dei poteri centrali nell’utilizzo legale della violenza e nella ridefinizione politica degli stessi confini.
Nonostante il loro linguaggio apodittico e decisamente negativo nei confronti del banditismo, le fonti giudiziarie non riescono comunque a nascondere l’entità di un fenomeno che, soprattutto a partire dalla fine del Cinquecento, assume aspetti inediti. La figura del bandito famoso, che l’azione repressiva evoca di frequente, si alterna a quella dei suoi antagonisti, che senza tregua gli danno la caccia alla ricerca di una spasmodica vendetta, oppure per ottenere i ricchi premi promessi dalle autorità centrali. Ma è soprattutto la letteratura che non disdegna di assegnare una certa attenzione al bandito che ha ormai assunto l’immagine del fuorilegge. Famosa, tra tutte, quella del bandito catalano Perot Rocaguinarda, tramandaci da Miguel de Cervantes nel secondo volume del suo capolavoro, apparso nel 1615. Attraverso la penna del grande romanziere, Rocaguinarda evoca il fatale destino che l’ha condotto a divenire un grande fuorilegge:

Ad onore del vero io confesserò che non avvi tenore di vita più inquieto, né più pauroso del nostro. Mi vi strascinò non so qual desiderio di vendetta, che ha la possa di sconvolgere ogni più riposato cuore; ma io sono di mia natura compassionevole e proclive al ben fare; né fu, come ho detto, se non la voglia di lavare la macchia di un torto sofferto che mi rimosse dalle mie buone inclinazioni, e che mi fa ora perseverare nel presente stato, in onta e in contrapposizione della mia volontà. E siccome un abisso chiama l’altro, e una un’altra colpa, così le vendette si vennero talmente concatenando, che non solo le mie, ma prendo anche le altrui sopra di me. Pure Iddio mi concede, quantunque io viva in mezzo al labirinto delle mie contraddizioni, di non farmi perdere la speranza di uscirne fuori per afferrare un porto di sicurezza.

La letteratura faceva propri l’immagine e il mito del bandito fuorilegge, sradicato dal suo contesto sociale e famigliare e divenuto ad un tempo nemico pubblico per le autorità, ma anche una sorta di local hero per la popolazione che ne conosceva le traversie. La figura del tradizionale bandito, espressione di conflitti di faida, si era trasformata per assumere quella del fuorilegge, combattuto ed avversato sia dalle élites locali che dai poteri centrali e destinato, molto spesso, ad assumere nel corso del tempo la dimensione del local hero. Nell’ambito delle comunità il bandito era certamente percepito come una minaccia e una fonte costante di insicurezza; e in quanto tale veniva perseguito con determinazione, anche perché sulla sua testa pendevano taglie e ricchi premi. E non si potrebbe altrimenti spiegare come la dura legislazione bannitoria potesse essere infine accolta, nonostante la palese violazione degli antichi assetti costituzionali. Ma le stesse fonti giudiziarie, che attestano molto spesso come egli potesse godere di una rete di protezione e di aiuti, che andava al di là delle inimicizie tra parentele avversarie, indica che la sua immagine era altrimenti percepita dalla popolazione più povera, che conosceva le dinamiche sociali e conflittuali che avevano dato luogo al suo ostracismo da parte delle autorità. Non può dunque stupire come il bandito, divenuto vero e proprio fuorilegge, potesse essere considerato alla stregua del vendicatore che si opponeva alle logiche economiche e politiche dell’establishment locale, sfidando lo stesso potere centrale.
Sotto questo profilo è emblematica la biografia del grande fuorilegge Giovanni Beatrice detto Zanzanù, che per circa quindici anni operò nei territori di confine posti lungo la riva occidentale del lago di Garda. Bandito di seguito ad un conflitto di faida e all’uccisone del padre da parte della fazione rivale, egli divenne ben presto famoso fuorilegge. Per porre fine all’incontestata supremazia della cosiddetta banda degli Zanoni, il provveditore generale in Terraferma Benedetto Moro si mise segretamente in contatto con i nemici dei banditi che conoscevano evidentemente il territorio e, tramite mercanti e mediatori interessati, mise a loro disposizione alcuni banditi, autorizzandoli a penetrare armati nei territori da cui erano stati interdetti. Uscito vincitore dallo scontro con gli avversari, Giovanni Beatrice e la sua banda ampliarono il loro raggio di azione mirando a controllare l’attività di contrabbando che fioriva nel grande bacino del lago di Garda. Un gruppo influente di mercanti bresciani, che intendeva riprendere il controllo sulla fiorente attività illegale ed agiva in accordo con le autorità locali e veneziane assoldò decine di banditi e di uomini armati allettati dalle ricompense e dalle taglie. Sopravvissuto agli agguati che sterminarono l’intera banda, Zanzanù poté agire quasi indisturbato negli anni seguenti, favorito dal territorio montuoso e posto ai confini dello stato, ma anche dal palese appoggio di una parte della popolazione. Il suo destino venne però segnato nel 1617 proprio lungo quei confini che, di seguito alla cosiddetta guerra di Gradisca, erano divenuti luogo di tensione tra opposte potenze politiche. La sua morte venne procurata dall’attacco concentrico di alcune comunità poste lungo la riva occidentale del lago, che già da lungo tempo erano costantemente allertate dal notabilato locale e dalle autorità veneziane per contrastare ed opporsi alla penetrazione del banditismo e alle sue azioni di disturbo. Le comunità che parteciparono alla sua uccisione vollero sancire la straordinarietà dell’evento e commissionarono ad un pittore la descrizione della grande battaglia in un grande ex-voto, ancora oggi conservato presso il santuario della Madonna di Montecastello di Tignale. Un dipinto che rappresenta in controluce le grandi trasformazioni che investirono il banditismo tra Cinque e Seicento. Ma di Giovanni Beatrice ci è giunta pure un’altra straordinaria testimonianza. Come si è ricordato, nel 1616 si era aperto un aspro conflitto tra Venezia e l’Arciducato d’Austria. Per fronteggiare l’emergenza bellica la Repubblica offrì a numerosi banditi la possibilità di ottenere la liberazione dal loro bando se, con un loro seguito, si fossero arruolati nell’esercito veneziano. Giovanni Beatrice ritenne che fosse giunta l’occasione per ritornare finalmente sui propri passi e perciò rivolse una supplica ai Capi del Consiglio dei dieci, ripercorrendo le tappe più significative della sua vita. Ricordò amaramente l’uccisione del padre e l’ininterrotta catena di violenze in cui l’aveva trascinato la sete di vendetta. Un documento straordinario in cui, con fierezza, ricordava pure il suo strenuo valore di bandito, che gli aveva permesso di superare per anni gli attacchi dei numerosi nemici. Un valore di cui la Repubblica avrebbe potuto servirsi in occasione dello scontro bellico:

Il padre di me Giovanni Zannoni della Riviera di Salò, qual faceva ostaria in quella terra, passo ordinario di Alemagna per quelli che discendono per il lago, e dalla quale traheva il vitto di tutta la sua povera famiglia, mentre egli viveva quieto, fondato una solenne pace con giuramento firmata, sopra il sacramento dell’altare, fu empiamente trucidato da alcun della Riviera. Per questa sì inhumana e barbara attione, dubitando io Giovanni sudetto di non esser sicuro dalla fellonia d’huomini sì crudeli, indotto dalla disperatione, risolsi di vendicare sì grave offesa e d’assicurare la propria vita, presa la via dell’armi, vendicai con morti d’inimici la perdita del padre et la privatione del modo di sostener la famiglia mia; per le quali operationi restai bandito e continuandosi da nostri inimici le persecutioni, anch’io rispondendo con nuove vendette, tirando uno dietro all’altro, hebbi gran numero di bandi, non solo con l’auttorità dell’eccelso Consiglio di dieci, ma uno del medesimo Consiglio.
Un passo che ricorda sorprendentemente molto da vicino il dialogo tra Don Quixote e Rocaguinarda. L’ingiustizia subita, l’imperativo della vendetta e la catena ineluttabile dei conflitti con gli avversari sono i tratti che, al di là della retorica letteraria o della mediazione notarile, sembrano contrassegnare la biografia di molti fuorilegge di questo periodo. E nella sua supplica Giovanni Beatrice, rammenta pure l’ineluttabilità della sua condizione di bandito, che non aveva scalfito il suo essere uomo e la lealtà verso il suo principe. Ma soprattutto non nasconde, come il suo omologo letterario Rocaguinarda, che la sua immagine di fuorilegge, si era inevitabilmente amplificata nel nuovo clima politico e conflittuale:
Confesso esser reo di molti bandi, tutti però per delitti privati et niuno per minima attinentia di cose publiche e di stato, nè con conditione escluso dalla presente parte, nè meno con carico di risarcir alcuno, ma siami ben anco lecito il dire che, essendo stati commessi molti eccessi da altri sotto il nome mio, di quelli essendo fuori di speranza di potermi liberare, già mai non ho curato di scolparmi.
E così il grande fuorilegge chiedeva la grazia di poter ottenere il perdono dal suo principe, ponendosi al suo servizio. Un servizio che avrebbe certamente reso con onore e perizia come aveva ben dimostrato la sua stessa vita avventurosa e attraversata dalla violenza:
Laonde, io Giovanni sudetto supplico humilmente Vostra Sublimità si degni di mirare questo mio sviscerato affetto con occhio di pietà, condonando le pene de bandi ed errori commessi sino al giorno della publicatione della presente parte et anco far gratia alla moglie mia bandita per 20 anni per cagione di servitio a me prestato, rendendomi a questo modo habile a dimostrar con gli effetti l’ardente mia volontà di poter, sì come son stato pradigo della vita ben mille volte in mezo d’archibugiate per inimicitie provate, così medemamente conservar l’istessa gloriosamente nel suo servitio.
L’offerta di Giovanni Beatrice venne tacitamente respinta, diversamente da quella di altri banditi cui era stata concessa la grazia, nonostante si fossero macchiati di violenze e di delitti ben più gravi ed orribili dei suoi. Giovanni Beatrice aveva in realtà sottovalutato come la sua immagine avesse ormai assunto la dimensione del grande fuorilegge e come tale fosse considerato un vero e proprio oppositore politico, che doveva comunque essere eliminato per riaffermare il nuovo ordine sociale e politico. Un destino che due anni prima il bandito catalano Perot Rocaguinarda era riuscito ad evitare, ottenendo la grazia e la possibilità di servire con le armi il sovrano che l’aveva combattuto così a lungo

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