21 La Confessione

Furto, danneggiato Giacomo Mantese, imputato Francesco Mantese1

Il settuagenario villico e piccolo possidente di Rovegliano, distretto di Valdagno, Giacomo Mantese, il 12 aprile dell’anno scorso presentatosi alla propria Deputazione comunale, denunciava aver sofferto un furto di denaro per l’ammontare di circa 2700 lire venete, ed a seconda del giurato suo esame eccone il fatto.

Da circa trent’anni, egli dice, colla sua lecita industria e colle proprie rendite avea un po’ alla volta potuto accumulare una tal summa che tenea sempre presso di sé ed all’insaputa totale di tutti e perfino dell’intera sua famiglia, composta di lui, di sua moglie Paola Campanara, di un figliastro di nome Giacomo e dei propri tre figli Giacomo, Maria e Margherita.

Temendo che per impreveduti sinistri accidenti una tal summa venir gli potesse da qualche malevolo sottratta, pensavasi finalmente di nasconderla, all’insaputa di ognuno, nella propria cantina sottoposta alla propria abitazione, cacciandovela entro ad una fenditura nel muro ben a tutti visibile che nella cantina vi entrassero, ma che aveva avuta l’attenzione di otturarla con qualche sasso superficialmente, affinchè a nessuno capriccio venisse di guardarvi dentro.

Detta summa egli l’aveva avvolta parte in uno straccio fazzoletto e parte in carta, giacchè consisteva tutta in monete d’oro, che come ei giura consistite sarebbero in vari pezzi da 20 franchi, in alcuni da 40, in qualche sovrana d’oro, alcune genove, in due luigi semplici ed in uno doppio.

Tal summa egli assicura di avervela veduta sui primi del giugno 1850 e che intatta in quella fenditura se ne stava.

Avveniva intanto che in detto mese di giugno, forse sulla metà circa, ei cadesse ammalato, trovandovisi già dapprima ammalati anche sua moglie ed il figliastro, che in breve e quindi forse sugli ultimi di quel mese, la malattia del Mantese si aggravasse in un modo imponente, per cui non bastando i figli rimasti all’assistenza, si facesse intervenire a tal uopo il proprio nipote Francesco Mantese, figlio di un fratello.

Fortunatamente però egli ricuperava la salute, ma dopo qualche mese di giacenza e non dubitando minimamente della sicurezza del luogo ove i denari avea nascosti, dice il Mantese di non essersi curato di andarveli a rivedere, se non che tale idea gli venne il giorno primo marzo 1851.

Portatosi il Mantese in tal giorno a tale uopo nella cantina, ben tosto s’accorgeva che manumessa si fosse la fenditura e quindi dall’esame portatovi scorgeva che i denari tutti gli erano stati rubati.

In quanto agli autori protestava di non aver qualsiasi sospetto su determinata persona, mentre, come depone e come depongono anche tutti gli altri di quella famiglia, che dippoi ebbero le conquestioni dell’avvenuto dal danneggiato, la cantina spessissimo rimaneva a porte aperte e facilmente quindi anche estranei avrebbero potuto introdurvisi, o se veniva chiusa a chiave, questa a commodo della famiglia, quando la casa rimaneva sola, veniva collocata su di un fenestrello sulla strada, vicino all’ingresso dell’abitazione, perché tal chiave appunto era la medesima della porta d’ingresso in casa.

Non poteva d’altronde, egli dice, dubitare su determinata persona, anche perché non sapeva se o meno qualcuno fosse stato veduto in quel mese in modo sospetto ad aggirarsi od entrarvi in quel luogo, e più ancora poi perché ripeteva che nessuno al mondo vi era che sciente fosse di tal nascondiglio.

Che però relativamente a quest’ultimo punto, non mai già per dubitare, giacchè lo riteneva pienissimo d’onestà ed essendo anzi il suo favorito fra i nipoti, ma unicamente per dare alla giustizia una qualche traccia a sua norma e direzione, trovavasi in dovere di avvertire che l’unico al quale confidato avesse come del denaro in genere in detto luogo nascosto tenesse, si era il sunnominato suo nipote Francesco.

Che a costui fatta aveva una tal confidenza nell’occasione appunto che trovavasi quasi all’estremo di sua vita e che perciò gli avea chiesto se avesse denari e dove, affinchè la famiglia in caso egli mancasse, potesse valersene.

Che però, oltre a tale circostanza, egli niun altra potea riferirne a carico di esso suo nipote, per modo anzi che, diffidato dippoi a senso del paragrafo 377, approfittava del beneficio di legge, né a carico di suo nipote voleva che le sue deposizioni forza legale avessero in giudizio.2

Sentiti tutti i famigliari, nessuno ebbe a dubitare della verità dei detti del danneggiato, ma nessuno neppure dir sapea quel che di scienza propria, se non se che tutti ripeteano quanto esso danneggiato avea loro manifestato dopo di essersi accorto del furto; e tutti, poi, si dichiaravano ignari di traccia per la scoperta degli autori ed escludevano qualsiasi adombramento sul loro parente Francesco Mantese.

Sentito però questi in via declaratoria, dichiarava (e ciò l’undici giugno 1857), che da tre mesi o quattro retro egli aveva notato nel proprio zio un cangiamento d’umore, perché pensieroso, melanconico e serio.

Che ignorandone egli il motivo non azzardava pur fargliene parola, ma poi divulgatasi pel paese, non sapea come, che gli si fossero rubati dei denari, dispiacente, incontratolo un giorno facevasi animo di chiedergliene la causa di quella sua tristezza.

Che allora quel suo zio, dal quale era tanto amato, veniva chiesto se ricordava l’assistenza prestatagli nella grave sua malattia e se ricordasse la confidenza fattagli riguardo a del denaro che possedeva, il qual denaro appunto eragli stato rubato; e perciò lo pregava ad assisterlo alla scoperta del ladro.

Che a tutte queste ricerche esso Francesco aveagli risposto come di verità, di ricordarsi dell’assistenza portatagli nella malattia, ma come s’ingannasse assolutamente di avergli fatta qualsiasi confidenza di aver denari, né esser vero che esso dichiarante gliene facesse domanda alcuna relativa per avervi la detta manifestazione.

Che negli anni decorsi era egli benissimo stato in quella cantina, non ricordandosi poi se vi fosse stato durante l’epoca della malattia di suo zio.

Che egli non avea mai veduta quella fenditura sul muro, se non se un giorno che lo stesso suo zio glie l’aveva indicata, dicendogli che da di là appunto i denari, non sa quanti, né quali, gli erano stati rubati.

In quanto poi alle traccie per la scoperta dell’autore protestava di non averne alcuna.

Ciò stante, la politica autorità denunciava come il medico del paese, Carlo Fioravante, propalato avesse di aver udito da certo Michele Mantese, detto Ruella, abitante poco discosto dall’abitazione del danneggiato, siccome costui non parente del derubato, ma amico, avute avesse un giorno molte monete d’oro per l’ammontare di circa venete lire 2000 e che a lui date gli venissero dalla ventenne ragazza Margherita Mantese, figlia del derubato medesimo.

Assunto quindi il Fioravante in giurato esame, dichiarava che essendo egli il medico curante della famiglia Mantese, all’aspetto della sua abitazione la giudicava miserabile, per cui un giorno discorrendo su ciò con Michele Mantese, detto Ruella, questi gli fosse soggiunto che non era quale esso Fioravante la supponeva miserabile quella famiglia, che anzi era lodevolmente proveduta di beni di fortuna.

Che allora davasi il Ruella a narrare come Margherita figlia del danneggiato, che prestavasi a mondargli la sua roba, fossegli un giorno comparsa e gli dasse un gruppo di monete d’oro, dicendo di averle trovate nella fenditura del muro in cantina e che riteneva fossero di suo padre: monete che esso Michele gli diceva di averle numerate e ragguagliate in lire venete, trovate le avea dell’ammontare di circa lire 2000.

La regia gendarmeria, per tali nozione avute, senz’altro passava ad arrestare la Margherita e questa veniva assoggettata all’investigante pretura di Valdagno, ed assunta in via riservata dimostrossi del tutto ignorante su quella circostanza riferibile al motivo pel quale la si era arrestata, protestando di non aver mai e poi mai avuti, né veduti i denari di suo padre, che diceva essergli stati rubati.

Riassunto il di lei padre e danneggiato, previa la diffida fattagli a senso del paragrafo 377, dichiarava che non solo si asteneva dal deporre ai riguardi del nipote e di sua figlia Margherita, ma che anzi pregava la giustizia la si volesse questa scarcerare, non constandogli in qualsiasi modo che appropriata si fosse il di lui denaro e che aggiungeva di più, come capo di casa e padre, di non far alcuna istanza a di lei carico, se anche in seguito risultato fosse il furto ad opera sua.

Dietro di ciò, con motivato decreto, infatti la pretura di Valdagno la ridonava anche alla libertà.

Sentito il Ruella, giurava che in un giorno del giugno o prima che fosse del 1850, la giovane Margherita Mantese, trovatovelo da solo, gli diceva che, essendosi portata nella cantina di sua famiglia, erasi accorta che da una crepatura nel muro vi sporgeva un vimine; che spinta da curiosità ve lo traeva a sé e, sentendo che resisteva, essa vi aveva rimosso un saso e dal foro, che così le se era aperto, vi aveva levati dei soldi, i quali certamente riteneva che spettar dovessero al di lei padre.

Che dopo ciò lo pregava di volerle numerare quel denaro e quindi in quel giorno medesimo o nel successivo che fosse portavagli la Margherita un gruppo di denaro che numeratolo lo trovava ascendere a circa venete lire 2000, componentesi in genove, sovrane, nomane, pezzi da 20 franchi, da 40 franchi.

Che tutte queste monete erano involte in un pezzo di carta straccia ed in un pezzo di tela allacciato con un vimine.

Che dopo fattane l’enumerazione, avvoltolava tutto quel denaro ed allacciava com’era dapprima ed una ora dopo lo consegnava alla Margherita, avvertendola dell’ammontare della summa e consigliandola in pari tempo di riporla donde l’aveva levata.

Se poi ella ve la riponesse o meno ciò era quanto ei non sapeva dirlo.

Che egli ignorava assolutamente persino della esistenza di quel ripostiglio ed assicurava di non aver detto a nessuno, oltreccchè al medico Fioravante, quanto in proposito era occorso tra lui e la Margherita.

Che nel mese d’agosto del 1850 la Margherita gli aveva manifestato come che il denaro nel ripostiglio non vi era più e che perciò supponeva essa che suo padre l’avesse potuto riporre altrove.

Che egli va di spesso in casa di Giacomo Mantese, ma che prima che la Margherita gli mostrasse quel denaro egli ignorava che suo padre ne avesse, quantunque già la voce lo proclamasse daneroso.

In seguito a questa deposizione veniva riassunta la giovane Margherita, la quale escussa, deponeva che per verità essa il denaro a suo padre mancato lo aveva avuto nelle mani, ed ecco come.

Che un mese o due prima che suo padre cadesse ammalato (il che, come si espose, avveniva in giugno 1850), recatasi essa nella cantina per affari di famiglia, accidentalmente cadevale l’occhio sopra una crepolatura sul muro e vedendovi da essa sporgere un piccolo vimine, lo tirava e con tal atto uscivale un sasso superficialmente posto e s’accorgeva che al vimine se ne stava attaccato un involto entro il foro apertosi colla caduta del sasso.

Estratto quello conobbe essere un fazzoletto che teneva avvolto un volume della dimensione d’un pugno. Scioglieva il nodo che teneva allaciato il fazzoletto, vi trovava una carta, ed aperta le apparivano tosto alquante monete d’oro. Senza essere da nessuno veduta, sul momento davasi essa a numerare quelle monete e che trovava precisamente 25 di diversa dimensione, ma che essa non intendendosene non sapeva dirne la specie.

Che rimesso quel sasso a suo luogo, era sortita dalla cantina col denaro in mano e trovatovi per caso il suo conoscente Ruella, gli narrava l’accidente di quel ritrovo e consegnandogli poscia l’involto lo pregava a numerare quel denaro ed a saperle dire quante lire fossero.

Che preselo il Ruella, se lo portava a casa propria a da lì a mezz’ora le retrocedeva tutto quel denaro che essa lo trovò non mancante neppure d’una moneta e le diceva che formava la summa di venete lire 2000 circa.

Che rimasta sola addatava l’involto precisamente com’era allorchè lo aveva estratto dal ripostiglio e, rientrata in cantina ve lo riponeva in esso, chiudendo l’apertura come se ne stava dapprima, suggerita a ciò fare anche dallo stesso Ruella.

Protestando che essa non se n’era appropriata di cosa alcuna di quella summa, chiedeva poi perdono se nel precedente suo esame avesse simulato quanto ora aveva deposto, ma che erasi indotta a ciò per timore di suo padre.

Che tre mesi dopo (quindi sugli ultimi di luglio o primi d’agosto), curiosità un giorno l’aveva spinta di andare a guardare in quel ripostiglio e vedeva che più l’involto non si trovava, ma tacque e non lo diceva che al Ruella, supponendo che lo stesso suo padre lo avesse levato.

Tali accidenti di confronto al Ruella e che se ne sparse la voce per tutto il paese, faceva sorgere nel pubblico il sospetto che il Ruella, il quale frequentava nella casa del derubato, ne potesse essere stato il furatore e tanto più in quantocchè volevasi che esso Ruella, dopo scoperto il furto, acquisto facesse di vari partiti di sorgo, dicendosi da alcuni che pagato lo avesse a contanti e da alcuni però che lo avesse ancora a pagare.

Nessuno però della famiglia derubata avanza sospetti sul suo conto, volendolo anzi incapace di tali azioni. Vociferavasi eziandio che il Ruella appropriato si fosse quel denaro d’accordo colla Margherita, per essere il di lei amante, ma dagli esami dippoi assunti e dalle informazioni ritratte niuna consistenza ebbe a prendere questa diceria.

Riassuntosi ciò non di meno il Ruella, ma questa volta senza giuramento, dichiarava che egli esercitava benissimo il commerciante di grani, che nel febbraio ’50 acquistava da Luigi Peruzzi di Castelgomberto 50 sacchi di sorgo per venete lire 1250, al quale aveva lasciato una lettera obbligatoria pel pagamento entro l’anno ’50, e che diffatti saldava il suo debito nei mesi d’agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre, con monete d’oro e d’argento.

Che tal summa egli l’aveva ricavata colla vendita del grano stesso.

Che nel febbraio ’51 acquistava 60 sacchi di sorgo a Montebello dal commerciante Girolamo Cristofori, rilasciando al venditore una cambiale per venete lire 1440, pagabile entro il 1851 e che trovasi ancora insoluta.

Che il suo traffico ci lo sostiene con una scorta di sole venete lire 2500 di sua particolare ragione.

Che nel giro in biade ci consumava dalle 5 alle 6000 lire venete, mentre taluno gli affida il sorgo, che lo paga poi a respiro, e qualche altro, se occorre, gli presta denaro. Che, per esempio, ei deve venete lire 300 a Clemente Mantese, il quale nel novembre ’50 gli aveva venduta una vacca, che poscia tornò a vendere a Costante Filippi deve venete lire 375 in titolo di prestito avuto nel 1850; da Giovan Battista Urbani ebbe a mutuo 10 sovrane d’oro.

Sentiti tutti questi introdotti, giuratamente lo corrispondono.

Indi proseguiva a dichiarare il Ruella che nel suo traffico esige spesso delle monete d’oro, cioè pezzi da 20 franchi, sovrane e dappiù di genove.

Che colla vendita della vacca aveva rescosso il prezzo tutto in monete d’argento.

Che i denari avuti dal Filippi si componevano per la maggior parte in monete d’argento e qualcuna d’oro ed anche carta monetata.

Che egli mai si trova privo di qualche summa.

Che qualche volta era entrato nella cantina del Mantese e l’ultima volta era stata nell’autunno ’51, trovandovisi il Mantese medesimo.

Giungeva intanto a cognizione della pretura che il sacerdote don Pellegrino Caneva esser potesse a conoscenza di qualche utile traccia per la scoperta del furatore, e quindi citatoselo a comparsa, con sospensione di giuramento, dichiarava che in confessione un suo penitente, da non molto tempo, gli aveva palesato essere stato egli che aveva rubato dalla cantina il denaro da circa due anni.

Che in allora ignorava a chi appartenesse; che era pronto alla restituzione e che intanto nel prossimo venturo san Martino (cioè 11 novembre 1851) glie n’avrebbe dato un acconto; che esso suo penitente lo facoltizzava di palesarlo, qualora prima del San Martino non glie ne desse l’accontamento.

Disse infine esso sacerdote di aver fatto annotazione anche delle monete che il suo penitente gli diceva d’aver rubate, vale a dire doppie di Genova, sovrane, napoleoni d’oro.

Che di tutto ciò ne aveva avvertito il Mantese per sua quiete, ma che non poteva palesare il penitente, non essendo stato autorizzato a ciò fare se non nel caso che non avesse dato l’acconto fino all’11 novembre.

Che inoltre il suo penitente lo avvertiva come sapesse si sospettassero autori degli altri e non lui, ma che tutti erano pienamente innocenti, nulla essi anzi sapendone.

Riassuntosi il danneggiato, disse come infatti il sacerdote Caneva lo avvertisse di quanto sopra per sua quiete, ma che nulla ancora aveva ricevuto, che ignorava a quanto ascender dovesse questo acconto e per ultimo che non poteva assolutamente immaginarsi chi esser potesse un tal penitente (e qui notasi che il danneggiato ciò deponeva nel giugno ’51).

Ricompariva poi esso danneggiato spontaneo alla pretura il 12 settembre e dichiarava che da 15 giorni circa il sacerdote Caneva gli aveva consegnato venete lire 252 in acconto della maggior summa rubata; che egli voleva rilassargliene la ricevuta, ma il Caneva non l’aveva voluta, dicendo che erano cose di confessione.

Che essendosi lagnato esser ben minimo l’acconto, il Caneva gli era soggiunto che se ne stesse tranquillo, che in breve sarebbe stato pienamente indennizzato.

Per tutto quanto trovasi di estendere delle particolari indagini circospette sul sacerdote Caneva, non abbandonandosi il Ruella medesimo, e neppure in ogni caso tutte quelle ricerche generiche conducenti allo scoprimento di indizi fondati a carico di ancora ignote persone, ma quest’ultime omminamente frustranee riescirono, e sul Ruella nulla più insorse di quanto già ebbesi ad esporre al consiglio, non essendosi potuto in alcun modo verificare, non solo se intorno al tempo in cui il Caneva vorrebbe aver avuta la confessione del ladro, stato fosse il Ruella a confessarsi, ma neppure se o meno il Ruella fosse del Caneva un penitente.

Così pure inutili tornarono tutte le ricerche opportune sul Caneva, in quanto si riferisce alla sua condotta, all’indole sua, al suo stato economico, alla sua frequenza nella casa derubata, al suo intervento nell’epoca della grave malattia del Mantese.

Tutto ciò però che ebbe a risultare da quest’ultime pratiche si fu che, riassunto il Mantese, dichiarava essergli affatto ignoto il malfattore, che il sacerdote Caneva non più gli aveva fatti tenere acconti di sorta, ma che continuava ad assicurarlo che un po’ alla volta sarebbe stato pienamente indennizzato.

Che egli lungo tutta la sua malattia non aveva mai avuto bisogno di sacerdote, ma che tutt’al più ricordavasi che il sacerdote Caneva era stato per due volte a sentire la confessione di sua moglie, che pure in quel tempo era gravemente ammalata.

Riassicurava di esserne certissimo di non aver fatta né col Caneva, né con altri, meno che a suo nipote Francesco, la confidenza del dove tenesse quel suo denaro.

Che sempre per solito il Caneva frequentava la sua casa, ora per un affare ed ora per l’altro.

Che il Caneva era il cappellano della villa e quindi non solo molti si erano i suoi penitenti, ma anzi la maggior parte dei villici; ed era uno dei più ricchi benestanti del paese.

Che ignorava (che) il Ruella fosse stato mai a confessarsi dal Caneva; e per ultimo che la cantina, ove il furto avveniva, aveva la porta sulla strada, che dalla strada stessa ascendevasi una breve scalinata e per essa giungevasi alla porta della cucina, che era pur quella dell’ingresso all’abitazione, la qual cucina era precisamente sovrapposta alla cantina.

Che durante la notte, senza rottura o chiave falsa nessuno avrebbesi potuto introdurre in cantina (quantunque liberamente vi avrebbe potuto accedere alla porta), mentre questa era chiusa a chiave e la chiave veniva gelosamente custodita in casa.

Che il furto, quindi, doveva essersi perpetrato di giorno, mentre spesso accadeva che la porta della cantina se ne stava dischiusa anche in momento che tutta la famiglia era assente pei lavori della campagna, o se non era dischiusa la chiave, a comodo dei famigliari appunto, veniva posta su di un finestrello non alto dal suolo, essendo la stessa chiave che apriva la porta della casa.

Le quali deposizioni del tutto faceva la figlia Margherita e le informazioni sul conto del Caneva ritratte sono veramente le più favorevoli, come puossi rilevare dalla nota del commissario di Valdagno in 63-70 e come riscontrasi eziandio dalle deposizioni del parroco e del sacrestano.

Durante la rilevazione di tali pratiche, spontaneo tornava a presentarsi alla pretura il Mantese e dichiarava che il 13 novembre prossimo decorso il sacerdote Caneva, finalmente, gli aveva consegnato un altro acconto per incarico del suo penitente, cioè venete lire 168, in pezzi da 20 franchi ed in due quarti di doppie di genova, ricevendo la riassicurazione che un po’ alla volta sarebbe stato intieramente soddisfatto.

Riassuntosi esso sacerdote, deponeva che dopo il primo acconto varie volte aveva veduto il suo penitente e che appunto, per le resistenti sue intimazioni, erasi indotto a dare il secondo acconto, ma che però era certo che ve lo avrebbe, un po’ alla volta, interamente soddisfatto.

Che anzi aveva potuto ottenere dal suo penitente una distinta del numero e specie delle monete involate, perché ne fosse controllore, allorchè lo avrebbe per intero indennizzato.

Che anche questo però stare doveva nella segretezza del proprio ministero e che perciò non poteva quella specifica render nota neppur alla giustizia.

Osservava infine l’investigante pretura che per riguardo al carattere sacerdotale del Caneva aveva essa trovato prudenziale di non estendere ulteriori pratiche in di lui confronto, in considerazione anche delle ottime informazioni avute dal regio commissariato.

Le politiche informazioni, pur favorevoli suonano sul Ruella, sotto ogni rapporto, allontanandolo finalmente proprio da ogni sospetto e scevre tutte appariscono da positive censure, se si eccettua che il Ruella risulta dalla fedina politica con una sentenza assolutoria per furto e con una condanna per offese verbali, il che non influisce sulla specie del fatto che si processa.

Tali i risultamenti di questa investigazione.

Voto

In quanto si riferisce al fatto in genere, esso è legalmente constatato dalle giurate deposizioni, non poste in alcun modo in dubbio, del danneggiato, suffragate da altre esplicanti combinazioni, quali quelle della comprovata preesistenza e defficenza per parte della giovane Margherita, del Ruella e del sacerdote Caneva.

Forte dubbio sorger naturalmente doveva a carico del nipote del danneggiato, il Francesco Mantese, dacchè asservantemente giura il danneggiato medesimo di non avere ad altri confidato il suo segreto del luogo ove il denaro trovavasi che a lui e che questi lo nega, né d’altronde neppure una leggiera macchia può rimanergli, dal momento che il sacerdote Caneva asserisce come l’ignoto suo penitente lo aveva assicurato della sua innocenza, confessandosi affatto solo il colpevole.

Eguale argomentazione trovasi reggere a favore della figlia minorenne Margherita, per la quale poi, in ogni caso, vi starebbe la impunità legale, attesa la dichiarazione espressa dal padre, col quale essa vive, di non volere che contro sua figlia sia proceduto.

Di persone sospette non resterebbero che il Ruella ed il Caneva.

Il primo sugli accidenti occorsi colla Margherita, pei quali fin dall’aprile lo si vedrebbe a cognizione del luogo ove il denaro esisteva; ed il secondo per un vaghissimo dubbio che il settuagennario danneggiato, fortemente aggravato da malattia, potesse per avventura inscientemente aver fatta la manifestazione del luogo ove i denari trovavensi, al Caneva medesimo, anziché al nipote, ben sapendosi che in tali momenti spesso avviene che il confessore spirituale avanzi di consimili ricerche per opportuni fini.

Senonchè queste suspicioni niun appoggio acquistarono ed anzi pel tenore delle pratiche intese, le troverebbe il relatore affatto svanite.

Diffatti non indole in essi riscontrasi, non dubbia condotta, ma anzi per questa, spicialmente il Ruella, del tutto espurgato ritenere lo si deve, se tutt’ora insolute e provatamente ha egli delle cambiali emesse, parte subito dopo il fatto e parte poco prima; e se pienamente si giustifica degli acquisti fatti e dai pagamenti.

Vedesi poi all’invece, che spesse volte quella cantina, colla porta respiciente la strada, durante il giorno se ne stava aperta o in modo tale che qualunque estraneo vi si sarebbe potuto introdurre inosservato; che il ripostiglio non era difficile [che] scoperto venisse da chiunque vi entrasse in cantina, anche ignaro della sua esistenza, che realmente così accaduto era alla Margherita; che il danneggiato vorrebbe aver veduto colà il denaro sui primi di giugno e la Margherita vi avrebbe scoperta la mancanza in agosto e che in luglio tutti di quella famiglia erano guariti, per cui sola rimanendo la casa per varie ore del giorno, qualche estraneo poteva benissimo essersi introdotto e commettere il furto.

Concretando proponesi che ritenuto sussistente il fatto su il medesimo qualificato crimine di furto e che dessistendosi da ogni ulteriore procedura di confronto a Michele Mantese detto Ruella ed al sacerdote don Pellegrino Caneva, per assoluta mancanza di indizi, siano gli atti passati all’archivio in linea di ignoti.

Vicenza, 31 dicembre 1852

Ruggieri

Conchiuso ad unanimia nel merito della deliberazione e per maiora contra solum, ommesso qualunque cenno sul conto del sacerdote don Pellegrino Caneva, non avendo trovato li votanti consiglieri Marchesini, Fanzago e Bosio, argomento per emettere alcuna deliberazione ai di lui riguardi, perché infondata del tutto ed in ogni caso sempre offendente il decoro di un onesto prelato.

1 Busta 1129.

2 L’articolo 377 del Codice, come già si è visto, è di notevole importanza, in quanto entrava direttamente nella questione delle testimonianze che riguardavano i parenti dell’imputato.