1. Introduzione: lo Stato da Mar

Il dominio o lo Stato da mar: una realtà territoriale indiscussa o, come altri hanno preferito denominare, un impero. Un territorio variegato, che si estendeva lungo l’Adriatico, spingendosi in alcuni punti nevralgici del Mediterraneo orientale. Un territorio, ancora, che mutò considerevolmente nella sua fisionomia nel corso dei secoli: dalla grande espansione quattrocentesca, sino alla progressiva riduzione intervenuta nei secoli successivi.

Lo stato da mar esprime la natura stessa della città lagunare, in quanto Venezia legò indissolubilmente la sua fortuna, le sue ricchezze e la sua stessa struttura urbanistica ai rapporti intessuti con il mare. Una realtà, quella marittima, che definì la specificità mercantile e commerciale della città, ma che assunse ben presto precise connotazioni politiche che furono indubbiamente enfatizzate dal diuturno ed impari scontro con il grande impero ottomano. Ma la fisionomia politica dello Stato da mar si scorge, in tutte le sue variegate manifestazioni, nel rapporto che Venezia strinse con le comunità soggette al suo dominio. Un rapporto non privo, di certo, di elementi conflittuali ed ostili, ma che comunque si saldò su reciproci interessi: indiscutibili nella comune necessità di fronteggiare il nemico incombente, ma pure sottolineati dal rapporto sostanzialmente privilegiato intessuto con le élites locali.

La presenza veneziana nello Stato da mar era innanzitutto caratterizzata dal fitto reticolo di rappresentanti inviati a reggere le città e le isole ritenute strategicamente importanti. I rettori (podestà, conti, provveditori) duravano in carica circa due anni: un breve periodo durante il quale dovevano esercitare il loro compito, attenendosi per lo più agli statuti e alle consuetudini locali, anche se il ricorso alla discrezionalità (arbitrium) era uno strumento previsto o prevedibile. Di certo la loro azione di governo doveva svolgersi all’insegna della prudenza e del rispetto degli equilibri locali. Con i loro dispacci informavano gli organi di governo della Dominante; e, al loro ritorno, stendevano una relazione in cui riassumevano l’attività svolta. Era dunque inevitabile che il loro operato si svolgesse per lo più all’insegna delle logiche di potere locali.

E’ stato spesso sottolineato la funzione di mediazione svolta dai rettori sia nel dominio da terra che in quello da mar. In realtà il ceto dirigente marciano diffidava dei propri rappresentanti e, ove possibile, preferiva intrecciare un rapporto diretto con i sudditi. Ad attestarlo stanno non solo le numerose suppliche inoltrate dai sudditi soprattutto alla Signoria (o Pien Collegio), ma la presenza stessa dei numerosi nunzi e procuratori residenti stabilmente nella città dominante. E’ di certo indubbio che tra i rappresentanti veneziani e le élites dei centri sudditi si stabilissero rapporti privilegiati (di patronage) che venivano mantenuti anche dopo che l’incarico dei rettori era terminato. Rapporti privilegiati che i sudditi alimentavano con doni e attestati di stima e che li spingevano a cercare l’appoggio, nella stesa Venezia, di coloro che avevano svolto l’incarico di rettore nella loro comunità.

Ma si trattava di rapporti di patronage estremamente complessi, che dovevano confrontarsi con la natura collegiale delle magistrature veneziane e con la posizione gerarchica occupata dal patrizio protettore nell’ambito della struttura politica del patriziato. La presenza veneziana era significativamente attestata, con maggiore rilievo, dalla nomina di Provveditori generali che a partire dalla fine del Cinquecento saranno eletti stabilmente per segnare il ruolo attivo della Repubblica nello stato da mar. Una presenza dovuta alla necessità imprescindibile di coordinare l’azione dei rettori e, indirettamente, per sorvegliarne l’azione, ma pure per tracciare significativamente la fisionomia politica di un territorio (come ad esempio avverrà per il Provveditore in Dalmazia ed Albania o il Provveditore estraordinario di Cattaro).

Nei Provveditori è possibile scorgere un certo ruolo di mediazione nel rapporto complesso intessuto tra Venezia e i centri sudditi, ma anche la loro azione non poteva svolgersi al di fuori di certi limiti tracciati dal ceto dirigente Veneziano. E in ogni caso la sfera della loro azione era soprattutto contraddistinta dalla dimensione politica del patrizio che aveva assunto la carica e che, proprio in base a tale caratteristica, poteva godere della fiducia e dell’occhio benevole del gruppo di potere attestato nelle più importanti magistrature veneziane, come il Collegio e il Consiglio dei dieci. Era infatti quest’ultimo, attraverso i canali privilegiati poco sopra indicati, ad intessere un rapporto diretto con le élites locali e con i sudditi. Non solo per le prerogative assunte, per l’esperienza acquisita o, più semplicemente, per una forma di controllo della scala gerarchica del potere, ma anche perché dotato di una visione d’insieme che poteva rendere più efficace la stessa azione di governo.

La complessità della realtà istituzionale della città Dominante e della sua dislocazione nello Stato da mar si rifletteva ovviamente anche sulle realtà dei centri sudditi. La loro fisionomia politica e la loro capacità di interloquire con Venezia era infatti dettata sia dall’azione di governo delle magistrature centrali (influenzata ovviamente dal contesto politico generale), che dall’abilità dei loro ceti dirigenti di autorappresentarsi come tali e nel saper cogliere le dinamiche politiche che attraversavano il ceto dirigente lagunare.

Se la struttura repubblicana dello stato, nel dominio da terra segnò indelebilmente il rapporto con le élites locali aristocratiche, prive di reale potere decisionale e costrette ad identificarsi con la fisionomia politica municipalistica locale (le antiche res pubblicae), nello Stato da mar essa si caratterizzò per un rapporto più dinamico e attivo con i centri sudditi. Molti furono gli elementi che determinarono questa diversità (stratificazioni sociali, lontananza geografica, presenza ottomana ai confini, ecc.) che sembrava comunque incontrare un terreno comune nell’azione di governo delle più importanti magistrature veneziane e nei rapporti privilegiati intessuti con il ceto oligarchico dominante.

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