13 Lo stalliere al caffé

Atti d’investigazione sopra titolo di perturbazione della religione mediante bestemmie ad incolpazione del politicamente arrestato Domenico Bortoli di Giuseppe, d’anni 20, celibe, stalliere, domiciliato a Schio; esente da fiscali censure, non bene però descritto dalla politica autorità e specialmente siccome dedito alle bestemmie.

Per ciò che ne accenna il municipio di Schio, sparlava il Bortoli con molta facilità del capo di quelle guardie, benchè il municipio stesso non ne conoscesse a fondo i motivi.

Marietta Gant, moglie di Luigi Zanella, e la vecchia d’anni 68 Marianna Lavarda, vedova del fu Francesco Zanella, caffettiera, raccontano che non molto prima del fatto che forma il soggetto speciale della presente istruttoria, il Bortoli assieme ad altro individuo, certo Ceresa di Valli, mormorassero appunto di quel capo.

Venuto questi a conoscere tale contegno del Bortoli, ne lo ebbe a redarguire, siccome quelle testimoni accennano e come egli stesso, il Bortoli, nel riservato suo esame ammetteva.

Fu nella sera del 22 agosto passato che recatosi il Bortoli a quella caffetteria per prendere non pochi caffè che gli erano stati ordinati di commissione del suo padrone, sapendo, com’egli accenna, che la Zanella caffettiera avea riferito al capo che egli avesse sparlato di lui, tanto che appunto il capo ne lo ebbe a rimproverare, si ebbe a lagnare con esso lei di quel procedere.

Accennano le donne che li trattasse da spia la caffettiera, nel sospetto appunto che dessa avesse avvertito il capo di suoi mali parlari, benchè nulla ella avesse riportato di ciò che avea il Bortoli espresso. E consono al detto delle donne è pur Francesco Drago, curzor comunale che colà si ritrovava.

Infuriava il Bortoli e passeggiando per il caffè tornava ripetere che sì che essa Marianna Lavarda era una spia e irrompeva in bestemmie.

La Lavarda, irritata più da queste che dagl’insulti, gli diede uno schiaffo e cacciollo col mezzo del curzore da quella bottega, che dice di ciò aver fatto mosso appunto dalla qualità di quelle orrende bestemmie che pronunciava.

Fra queste, il curzore comunale Francesco Drago intendeva che il Bortoli pronunciasse: “Porca l’ostia”. Non sa precisarle la Marianna Lavarda, ma Tranquillo Scapin dichiarava che egli quell’orrenda bestemmia replicasse e l’altra: “Porco sacramento”, e del pari attestava la Gant Zanella.

Lo stesso Bortoli non sa negare di aver bestemmiato e forse nel momento dell’alterco avere pronunciato delle bestemmie, ma protestava che se bestemmiò le proferì per la subitanea collera e senza saper che si dicesse, per modo che non sapea ricordare ciò che avesse detto in quel momento.

La regia pretura di Schio ne partecipava il fatto e quindi rimetteva gli atti assunti, potendo a suo avviso esser il fatto contemplato dal paragrafo 107 del Codice penale1 e il regio commissariato di Schio faceva arrestar l’imputato, che poi anche richiamava alle sue dipendenze dopo l’esito della causa, con nota 24 agosto decorso numero 4501.

Sopra tali risultance assoggetto il seguente

Voto

Nessun dubbio che le espressioni che avrebbe proferito il Domenico Bortoli non siano delle esecrande che la legge condanna, perché le condanna la religione, a cui dessa deve sostegno ed osservanza.

Nessun dubbio ancora che il Bortoli proferite ancor non le avesse, perché ben tre testimoni di alcune di esse ne fanno giurata attestazione.

Sarà dunque procedibile il fatto? Egli è certo che per constituire un delitto in faccia alla legge penale richiedesi che concorra nell’autore la pravità d’intezione nell’azione che commete.

Il Bortoli era riscaldato dall’ira: egli non mirava che ad isfogar la sua collera, perché si sentiva punto nell’onore, come accusato di maldicente verso il capo delle guardie ed esposto anche a rigorose misure se quelle sue acuse si fossero comprovate.

Vedeva nella Lavarda la sua accusatrice: ei la trattava da spia e qui irrompeva in bestemmie. La sua volontà non era certo diretta contro l’autore di suoi giorni, ma contro la femina che riteneva la sua manifestatrice.

Le sue parole non erano quindi che contro di lei. Se offese il suo parlare la divinità, egli certo non mirava nella sua intenzione ad offenderla.

Quindi propongo che, non concorrendo nel fatto pravità d’intenzione nell’accusato Domenico Bortoli, si desista da ogni ulteriore investigazione criminale in titolo di perturbata religione; respinto lo stesso all’autorità commissariale che ne fece ricerca colla nota 24 agosto decorso numero 4501, con dichiararsi nulla osta […] di questo tribunale che sia posto lo stesso in immediata libertà.

Li 25 febbraio 1849

Fanzago

Conchiuso per maiora col relatore

Raccolta la votazione dal consiglier aulico presidente, il consigliere Marchesini osservava che la prava intenzione in questo genere di colpe ella è intrinseca, vale a dire compenetrata nella empietà della espressione, né occorre che sia provato il progetto di oltraggiare la divinità o divulgare la miscredenza, e perciò il votante riteneva delittuoso il fatto, specialmente dacchè consta che il prevenuto ubbriaco non fosse. Ed opinava di conseguenza per l’atto di accusa.

Il giudice sussidiario Ruggieri si uniformava pienamente al voto del relatore.

Il giudice sussidiario Meneghin disse che vedeva bensì la pravità d’intenzione, ma che non trovava la bestemmia ereticale, quella bestemmia che leva l’attributo alla divinità, e ciò perché, non avendo le parole proferite dal Bortoli un senso assoluto ed esclusivo alla divinità, ammettono quindi anche una diversa interpretazione, cosa tanto più spiegabile in quanto che nell’abuso abbominevole che si fa del volgo di quelle espressioni, si dee ritenere che il Bortoli seguisse piuttosto l’abitudine di una guasta educazione, di quello che la volontà di offendere Dio.

E quindi opinava non concorrere nel denunciato fatto gli estremi del delitto e doversi perciò desistere da ogni ulteriore investigazione criminale al confronto di Domenico Bortoli.

1 Il paragrafo cioè che prevedeva, insieme ai due successivi, il reato di perturbazione della religione. Tale reato veniva commesso da, recitava il Codice: “a) chi con parole, scritti o fatti bestemmia contro Dio; b) chi turba un esercizio di religione, ch’è in osservanza nello Stato, o chi con ingiuriosa violazione delle cose destinate al divin culto, o con altro qualunque fatto, detto o scritto, mostra pubblicamente disprezzo per la religione; chi osa sedurre un cristiano ad apostatare dal cristianesimo; d) chi si sforza di diffondere l’incredulità o di spargere una dottrina contraria alla religione cristiana o di fondare una setta”, cfr. Codice penale…, p. 39.