2.16 Il tutore (parte prima)

Serenissimo Principe

Son molti anni che io povero Antonio Mettelo da Vicenza, sudito di Vostra Serenità, vini alla servitù del clarissimo messer Felipo Capelo per fator deli suoi luochi di Belveder, verso Bassan, et di Galliera, villa et distretto di Cittadella, dove che per avanti messer Sabastian Mettello mio padre servì esso clarissimo Capello per spacio de anni 30 et morse in casa Capella.

Dove sempre ho cerchato di continuar il medesimo cum li magnifici suoi figlioli.

Nela qual villa, essendoli tre povere sorelle, fiole de Iulio de Donà, e deliberando io di collocarmi in matrimonio con licentia delli magnifici patroni del anno 1557, ditto Iulio suo padre mi dette la maggior sorella per mogliere et dopoi esso Iulio morse et lassò queste due altre povere orfane, una nominata Hieronima et l’altra Marieta.

E subito per questi sui parenti Stefano et Christofalo di Donà fratelli, che fu fioli de Filippo, volendo agitar litte cum esse povere horfane, comparse esposeno davanti el magnifico potestà de Cittadella che li desseno ditto Antonio per tuttor a esse fiole, come homo legale.

Dove fu per esso magnifico potestà de Cittadella dattomi la tuttela, el governo de ditte fiole, dove che con la mia industria e sudori e spese le ho cavato de litte dale mane de questi tirrani di Donati, cum haver tutte le sententie in favor nostro dalla giustitia et di piui recuperato buona suma de beni che da essi erano usurpati.

Il che tanto li ha spiaciuto a ditti Stefano et Christofalo, fratelli sopraditti, et a Donà et Menego, fratelli pur ancora loro di Donati, che fatto colloquio tra loro, essendo potentissimi che abbracia tutta la villa, e posso dir in verittà tirani di quel locho, che hanno deliberato di maciarmi, non volendo tollerar che io sollo forestiero, cum il mezo della giusticia, fossi stato operatore di far restituire alle povere mie cugnate el suo, che avenga che li usurpavano.

Talchè, del 1560, essendo io sopra la porta del cortivo di magnifici mei patroni, dove io stavo, Christofalo, essendo senza alcun timore del signor Iddio nè della giusticia di Vostra Serenità, mi feritte mortalmente di due feritte e fu miracolo che non mi tolse la vitta.

E siben fui così mal tratato, volsi anco come christiano e per obedir li magnifci mei patroni farli la paze et rimetterli ogni ingiuria, ma non mi hanno giovato niente, anci li ha fatti più insolenti che prima.

Imperochè alli giorni passati, essi 4 sopradetti di Donati venero di notte in casa mia armati et a viva forza mi rapiteno esse due mie cugnate et stridorno fino al ciello et lamentandosi et piangendo, da essi levato da canto de sua sorella mia mogliere et da io, amorevel suo cugnato e tutor, che li ho governate per spatio de anni 7 in circa sotto la mia tutella.

Et le conduceno a casa sua et la matina sequente ne possero una di esse a cavallo per forza, la qual più volte si volse trar da cavallo e cridando la condusero a Bassano et la maridò cum uno che non quasi niente al mondo.

Dal quale hebbero dinari per la vendida di questo sangue nocente e continuamente piagendo et stridando per il viagio, che perfino li arbori stupivano como sotto questo statto si tollerasseno questi sforzi et violentie.

L’altra, veramente, povera puta rappita, si fuggì di casa di essi Donati, essendo andati a condur l’altra a Bassano, come è ditto. Vene a trovar sua sorella, mia mogliere, et andorno a Cittadella, che non si tenivano secura a Galliera, nè in casa delli magnifici patroni, essendo stata così crudelmente tante volte assasinato.

Et standosi nascosta hora in una casa, hora in un’altra di vicini, solla con manifesto pericollo dila sua verginità, la maestà de Iddio li mandò inanzi uno partito, che la compagnai in uno giovane comodo da Castelfranco, cum intervento de suo barba Alvise Beraldo, iusto il modo e forma del santo et sacro Concilio.

Il che, presentito da loro questo fatto, quando venissemo a casa, Stefano et Cristofaro. fratelli sopradetti, un’altra volta su la strada aspettandomi, cum arme d’asta et altre insolencie, la rapiteno e mi rasaltò, che si non fugiva in casa del magnifico messer Piero indubitamente mi amazavano.

Et per sententia del reverendissimo vescovo di Treviso che la dovese esser ristituita al marito, nè questi per questo ristorno ogni giorno di offendermi.

Et come io voglio far intravenir testimoni in queste sue scelerateze, li basta ancor l’animo di opponersi a essi testimoni cum minacie che vadino affar li fatti sui.

Et questo fu quando introrno, ancor di potentia, in casa mia a interpornersi nella mia povera facultà et butatomi giù le porte, como tirani.

Dale qual hoperationi io però forestiero, vedendomi solo in quella villa, mi butto ai piedi de Vostra Serenità che so la non tollera da questi dui rati cussì crudeli, et posso dir sanguinolenti con altre sorte de insolentie, de distruzer la potentia de questi, li qualli a Cittadella, possato [possono?] ogni cosa cosa per mezo delli fautori soi, li quali hano operato quello che mai si hano sentito in questo stato, che havendo la Marieta rappita due volte e fatto il constituto de violentia nella cancellaria de Cittadella, acciò si fese giusticia, di farla rittornar a disdir e ritrattar tutto quello che haveva ditto prima et ancor farli dar giuramento.

Imperhò la supplico per la passion del mio salvatore che la si degni per benefficio publico et sicurtà mia et a corecion de questi scelerati et a exempio de altri, delegar questi eccessi alli clarissimi Avogadori de Commun, avanti li qualli io povero forestiero, sicuro da questi scelerati, possi usar delle raggion mie et la giusticia harano suo locho e sarà opera di Vostra Serenità et grata alla maestà de Iddio et li tristi sarano castigati de tanti inefandi delliti fanti [compiuti] non passino impuniti.

Et a Vostra Serenità genuflexso mi raccomando.

1565 a 12 di mazo

Rispondi alla oltrascritta supplicatione il podestà di Padoa…

(filza 319)