2.106 Una lunga storia

Serenissimo Principe et Illustrissima Signoria,

L’anno 1598 Paulo Camillo, figliolo di domino Almerico Tranquillini, habitante in Manerbe territorio veronese, havendo per longo spatio di tempo fatto l’amor con Isabella, sorella di me Giulio Canapo, pur del ditto luoco, giovane d’honor et da bene et di conditione pari al detto Paulo Camillo, l’indusse sotto pretesto di matrimonio, fermato con molti giuramenti inanti l’inmagine di Dio, ad andare secco.

Et così, levatala di casa nostra et condotta a casa sua et altrove, anco per disgusti de suo padre, per un tempo d’essa se ne compiacque, fin a tanto che, sollecitato dal padre, che per oltraggio di casa nostra, allogare il figliolo in altro sogietto haveva dissegnato, contra la fede data all’infelice giovane et a Dio, quella derelitta, tentò con altra di contrazer matrimonio.

Il quale, non essendoli successo, per le contraditioni da noi fatte, in virtù della sudetta promessa, doppo che con l’autorità della giustitia, così temporale come ecclesiastica, procurai di soccorrer all’honestà della tradita sorella, mostrando lui Paulo Camillo di pentirsi et di novo affermando con scongiuri et giuramenti di voler attender alla data fede, dando anco segno il signor Almerico suo padre di contentarsene, acciò non si procedesse più avanti con la giustitia (deposte però le querelle).

Fu detto Paulo Camillo accettato in casa nostra, dove in progresso di tempo, doppo vari accidenti occorsi, si contentò anco di sposarla, seben secretamente, per timor del padre, come egli diceva, all’orecchie del quale essendo capitato il sponsalitio sudetto et venuto con molto impeto et furore, insieme con Onoffrio suo altro figliolo, a casa nostra, dove usate molte parole insolenti et minacievoli verso de noi, lasciandosi uscir di bocca particolarmente queste o simili parole, che voleva più tosto spender tutta la sua robba che mai tal matrimonio havesse effetto, condussero seco il sopradetto Paulo Camillo.

Con il quale, congiontamente, prossequendo accerimamente la dissolutione del matrimonio al foro ecclesiastico et conoscendo, a tal impresa già stabillita con consenso reciproco delle parti, ogni esperimento esser vano, procurorno apertamente de farci molte ingiurie et di levare in particulare la vita a me Giulio predetto.

Il che non essendo seguito per deliberatione divina più che per guardia nostra, et vedendo noi non esser atti per la proffessione nostra, la qual fu sempre di viver pacificamente, a ressistere a questa sorte de gente, che nel sfogare li loro ingiusti pensieri invece della raggione usano la forza per ogetto loro principale de quel luogo ove sono fatti tremebondi, reccoressimo però all’officio clarissimo dell’Avogaria et impetrato un mandato penale lo facessimo intimar alli detti padre et figlioli, per sicurtà delle nostre vite.

Il quale, sì come da ogni altra creatura humana sarebbe stato preso per antidotto di fermare almeno per alcun tempo li animi loro dal malfare, doppo tanti stratii fatti dell’honor nostro et della robba anco, et doppo tante cortesie riccevute in casa nostra, a questi non servì ad altro che per amaestramento d’esser più cauti, ma ben più feroci nel volersi in ogni modo saciarsi nel nostro sangue et scioliersi per così crudel via da quel nodo, nella dissolutione del qual fino li animali bruti, nonché gli huomeni si astengono di incrudelire, anci gravemente si rissentono.

Onde rissoluti a fatto di effettuar così detestando proposito, tesero arti et strattagrmi insolite per condurci al macello, ellegendo per ministro d’esse Paulo Camillo sudetto, il quale, secondo li ammaestramenti paterni seben scellerati et barbari, procurando simulatamente de insinuarsi di novo nella gratia dell’infelice sua consorte et mia sorella, et per interposita persona chiedendo perdono delle offese passate, addossando ogni sua colpa al padre et che quanto a lui voleva esserli buon marito et viver et morir insieme con lei, perseverando tuttavia in queste preghiere et credendo noi miseri che fussero reali et non pieni di felle, com’erano, bramosi della quiete et dell’honor nostro, finalmente si contentammo di remeterli ogni ingiuria et de accettarlo io per cugnato et lei per marito (remissione et giorno infausti, infelici per noi).

Et così ritornato a vivere in casa nostra, ci pregò a tenirlo secretto, perché intendeva d’occultar al padre tal ressolutione, con il quale, seben il giorno se ne stava et disinava anco, la sera poi cenava et dormiva a casa nostra.

Le quali tutte fittioni, ancora che non havessero alcuna convenientia, non furono però da noi poste in consideratione, prendendo il tutto in buona parte, estimando che ciò fusse anco col consenso del padre, qual non volesse così da principio mostrarsi così facile alla sudetta reconciliatione, ma a pocco a pocco, indotto dalle preghiere del figliolo, lasciarsi vincere et prestare poi l’assenso suo.

Nella qual falsa credenza vivendo noi, il scelerato cugnato, che a niente altro spirava salvo che ad aspettar opportuna occasione onde havesse potuto condur a fine li concerti fatti contra de noi, sapendo che a Nogara, discosto quindesi miglia in circa da Manerbe, io mi ritrovava un’altra sorella assai honorevolmente maritata in un messer Michiel Di Vicari, dissegnò immediate con li suoi che il persuadermi ad andar per solazzo a visitar insieme con lui il cugnato non potesse esser né luoco, né tempo più a proposito per essequir quanto haveva machinato per farci amazzar.

Il che non fu difficile da noi (che di compiacerlo sommamente ci era caro) ottener. Onde che, più volte, hora io solo con esso Paulo Camillo, et hora con la sorella insieme, andati a Nogara dal sudetto messer Michiel mio cugnato et da lui raccolti et accarezzati, parve hormai alli detti congiurati d’haverci non solamente assicurati, ma di poterci anco condure ad ogni loro beneplacito ovunque li fusse parso.

Et così, senza por alcun indugio al traddimento, coll’aggiuto et favor de un Flaminio Bellini loro parente, ritrovato un Alessandro Satti, solito farsi chiamar Antonio da Canale bandito et promessovi un villissimo prezzo, lo fecero nasconder in un fosso vicino alla strada publica per dove dovessimo passare, armato d’un arcobuso longo carrico de tre balle et d’un terzarollo con altre arme destinate alla nostra morte.

Havevaci fratanto Paulo Camillo, la sera delli 23 d’agosto passato, fatto grandissima instanza più del solito a dover di novo andar a visitar il sudetto mio cugnato, essendo restato disgustato che la dominica che fu alli 22 non se li havesse potuto andar, per essersi strupiato il cavallo.

Et finalmente, stimulati da lui, si mettessimo all’ordine per partirsi la mattina seguente, che fu il giorno de San Bartolamio 24 del sudetto mese d’agosto.

Omettiamo de dire che avanti questa partenza esso Paulo Camillo non lasciasse pur una stringa del suo in casa nostra et molti altri progressi significanti il futturo fatto, li quali sarano noti alla Serenità Vostra dall’informatione dei suoi rappresentanti.

Basta, che partiti di casa la mattina all’alba di detto giorno, secondo che dal sudetto giuda, per suoi respetti et per non esser scoperti, ci eera stato ordenato: la sorella a cavallo con il nolesino dietro et io a piedi con un spedo in mano, havendo Paulo Camillo che ci haverebbe seguitato et che la sera sarebbe stato con noi.

Gionti ad un certo ponte detto Frescarolo, lontano dalla casa de detti padre et figliolo mezo miglio in circa, dove erano preparate le insidie, avisato il tradditore che occulto se ne stava aspettando la venuta nostra, da persona a noi incognita, et uscito dall’aguaito vedendo il nolezino, che apostava l’arcobuso maggiore alla mia persona cridando ‘guarda, guarda’. Et nell’istesso tempo scrocando colui l’arcobuso, fui colto dall’impeto delle balle nel fianco di dietrovia et passato dall’altro canto, ma non essendo offesi li interiori mi posi a caminar avanti in fretta, seguitato dalla sorella.

Contro la quale, havendo l’assassino il terzarollo, nel scrocarlo, l’infelice sorella si gettò dal cavallo et perché l’arcobuso non prese fuogo il traddittore li corse adosso per ammazzarla, ma ella abbracciatasi seco, essendo sopragionto anch’io per seguitarla (seben ferito a morte con la bocca piena de sangue), pur mi diede il Signor tanto aggiuto et forza, che con l’aggiuto della sorella tolessimo al ribaldo tutti dui li arcobusi et un pugnale stilato.

Et perché lui si pose a cridare ‘fuora, fuora’, dubitando noi de nove offese, lasciatolo, fuggiendo se ne tornassimo a casa, abbandonando il cavallo con la valise delle robbe, che come s’intese poi capitorno in casa delli mandanti.

Et l’aversario finalmente fattosi condur alla casa d’Onoffrio, fratello del detto Paulo Camillo, ritrovandosi ferito da quel mio spedo, nel tempo che, si puol dir fuor di me, corsi al soccorso della sorella, come egli confessò di sua bocca a diversi, fu da esso Onoffrio dal principia raccolto, ma divulgandosi per tutto il luoco che loro fratelli, insieme con il padre, fossero stati li auttori del tradimento sudetto, lo feccero condur a Montagnana con raccomandationi efficacissime ad un loro carissimo amico, perché fusse governato.

In questo mentre Paulo Camillo sudetto, non lasciandosi più da noi vedere, ma absentatosi, dimostrò chiaramente la colpa che con li suoi padre et fratelli principalmente haveva in questo mandato, la potenza et temerità dei quali è tanta che non essendo ancora sicuro della vita per l’archibuggiata datami, il mese di settembre syssequente al fatto, sendo loro riccorsi al conte Cabriel Banda, principalissimo gentilhuomo di Verona, mi feccero d’ordine suo scriver littere con le quali non solamente m’era richiesto la pace a nome loro, ma mi veniva promesso il pagamento di tutti li danni et interessi patiti, con ogni altra sodisfattione possibile a darmi.

Né di ciò contenti, potero tanto con quel signor che puocco doppo rissanato dalla ferita feccero che egli impersona, con vinti a cavallo, una volta, et l’altra con dieci, venisse a posta a Manerbe, allogiando nella casa delli detti mandanti, per farmi a viva forza questa pace.

Ma non essendo mai stato ritrovato, usate parole minacievoli si partirno senz’altra conclusione.

In così fatto traddimento fatto commetter dalli sudetti Almerigo padre, Paulo Camillo et Onoffrio figlioli, mandanti, con complicità d’altri et con tante pessime circostanze et agregati, non ha mai potuto il reggimento di Verona penetrar tanto dentro che questi possano esser colpevoli presso la giustitia del mandato sudetto.

Et la caggione è che in Manerbe, per le dependentie che hanno con sugietti principalissimi di Verona et per le proprie forze, anco caminando sempre con arcobusi et essendo fatti formidabili per questo et altri casi da loror perpetratti, niuno ardisse a deponere quelle cose che sono evidentissime, né meno io ardisco, né a Verona, né a Manerbe, comparer per investigar quelli essami che sono neccessari per illuminar la giustitia de un tanto eccesso, parendomi sempre haver li arcobusi alle spalle et di non esser sicuro nella propria casa.

Onde, in tante angustie et travagli di noi miseri et sfortunati Giulio, Isabella sodetti devotissimi suoi servi, non sapendo a cui riccorrer salvo che ai piedi della Seenità Vostra, padre et prottetor delli oppressi et d’humillissimamente supplicarla per la pietà de Iddio, che prese le ordinarie informationi da chi ad essa piacerà si degni dellegare questo assassinio con tutte le sue male qualità all’officio clarissimo dell’Avogaria, dove, et li testimoni et noi, sicuri dalle tirannide d’huomeni così protervi et scellerati, possiammo, illuminando la giustitia, prossequire la vendetta delli torti, offese et tradimenti fattici.

Gratie

1600 adì 6 april

Che all’oltrascritta supplicatione rispondano li rettori di Verona…

(filza 353)