Tre Case Studies

a) RICOSTRUZIONE DEL MITO DELL’EROE LOCALE: IL CASO DEL FUORILEGGE BANDITO ZANZANU

L’immagine di Zanzanù, il bandito vissuto tra fine Cinquecento e inizi Seicento nella zona dall’Alto Garda è giunta sino a noi trasmessa in maniera negativa dalla storiografia otto-novecentesca e, in maniera controversa, dalla tradizione popolare.
Conviene, innanzitutto ripercorrere, più in generale la figura del fuorilegge.
La figura del fuorilegge cominciò a delinearsi vividamente, sia a livello pubblicistico che scientifico, nella seconda metà dell’Ottocento, a seguito degli eventi che sul piano politico e sociale avevano drammaticamente fatto emergere la tipologia del brigante, in particolare quella che si aggirava tra le desolate brughiere della Maremma, oppure, ben più temibile e pericolosa, quella del brigante meridionale che, senza tema e per lunghi anni, in aree spesso densamente popolate, affrontò in imboscate e in veri e propri scontri armati le truppe regolari del neonato Regno d’Italia.
Si trattava di una figura che venne ben presto insignita di stereotipi e di luoghi comuni, inclini a tracciare senza esitazioni la pericolosa dimensione di un criminale postosi completamente al di fuori della legge e dell’ordine pubblico imposti da una ben regolata società.
Fu inevitabile che anche la storiografia dell’epoca venisse contraddittoriamente attratta dal fenomeno e ne cercasse, per così dire, gli archetipi o, comunque, coloro che, in qualità di protagonisti, sembravano esserne stati gli antesignani se non i precursori. E sulla scorta di queste convinzioni, compulsando documenti d’archivio e manoscritti di biblioteche, non si tardò a scoprire i fuorilegge che le fonti giudiziarie dell’età medievale e moderna, non esitavano ad indicare come persone pericolose e che andavano combattute con ogni mezzo. Ma quelle fonti non parlavano di briganti, bensì di banditi. E non fu operazione difficile, anche se spesso in maniera indiretta ed irriflessa, accostarli ai briganti che inquietavano la società ottocentesca.
In realtà, come si sarebbe scoperto molti decenni più tardi, il bandito in quanto tale aveva ben poco da spartire con il brigante maremmano o meridionale. E la trasformazione del nome stesso avrebbe dovuto suggerire una certa prudenza e una maggiore accortezza filologica. Ma ormai l’equazione brigante bandito si era imposta ed affermata, imponendo la tipologia del criminale più pericoloso, emblema del lato più oscuro della società ottocentesca. Vere e proprie opere vennero dedicate al banditismo e ad alcuni dei suoi esponenti più rinomati. Come, ad esempio, il noto Le brigandage en Italie di Armand Dubarry (1875) E non si tralasciò di tracciare pure la storia di categorie criminali che sembravano costituirne il pendant, come ad esempio i bravi. Vale ancora la pena di ricordare, per non limitarsi che ad uno dei più noti cultori di storia veneziana, i lavori di Pompeo Molmenti, in particolare I banditi della Repubblica veneta, opera apparsa nel 1896 e che può considerarsi come un vero e proprio florilegio dei numerosi banditi che popolarono i territori della Repubblica nell’età medievale e moderna.
Una vera e propria svolta non si sarebbe avuta che in un periodo molto più tardo, grazie all’opera dello storico anglosassone Eric Hobsbawm, Bandits. Apparso nel 1969, il testo di Hobsbawm, pur tracciando ambiguamente una sorta di continuità dell’immagine del fuorilegge attraverso i secoli, ne delineava la complessità e soprattutto le sue interrelazioni sociali e letterarie. Dalle pagine del grande storico anglosassone emergeva la figura del bandito sociale, un fuorilegge che, nonostante l’ostracismo decretato dalle autorità politiche delle varie epoche, godeva in realtà di un consenso sociale che, in un certo senso, lo poneva in sintonia con le regole morali e consuetudinarie del contesto locale da cui proveniva. Divenuto per lo più fuorilegge di seguito ad un’ineliminabile istanza di vendetta, il bandito sociale assurgeva a vero e proprio mito nel momento in cui osava sfidare apertamente i poteri costituiti. Un’immagine suggestiva, che indubbiamente distingueva il bandito sociale dal semplice criminale, il cui comportamento era stigmatizzato dalla comunità, anche perché ostile alle sue regole sociali. Un’immagine comunque stilizzata, non adeguatamente correlata al contesto politico ed economico e pure priva di veri e propri riscontri storici, ma che poteva comunque contare sul fascino di un mito che rintracciava la sua forza suggestiva nella capacità del fuorilegge di riassumere in sé istanze profonde di giustizia e di equità. Un vero e proprio local hero.
Come è stato dimostrato dall’antropologo olandese Anton Blok la figura del bandito sociale individuava la sua forza nel mito che lo circondava, ma nella realtà e nei diversi periodi storici il fuorilegge postosi al di fuori del sistema sociale aveva ben scarse possibilità di sopravvivenza e, molto spesso, non aveva come alternativa che quella di porsi al servizio di qualche potente.
Il dibattito seguito alla pubblicazione del testo di Hobsbawm ha posto in evidenza l’importanza di una figura sociale che riuniva in sé le forti tensioni sociali e politiche delle diverse società sino alla fine del secolo XIX. Ed inoltre ha sottolineato l’incidenza delle molteplici forme di narrazione nella trasmissione del mito del fuorilegge attraverso il tempo.
Un più cauto ed approfondito approccio istituzionale e giuridico ha comunque chiarito come la figura del bandito nel corso dell’età medievale e moderna fosse essenzialmente il prodotto dell’estrema frammentazione politica esistente in quasi tutti i paesi europei, la cui amministrazione della giustizia era contraddistinta da tipologie di pene volte non essenzialmente a punire, ma a mantenere coesi i valori della comunità. E tra tutte, la pena del bando era quella che più rifletteva la dimensione culturale e politica di una società nella quale i conflitti tra i gruppi parentali (faida) erano intensi e non contenuti, se non in minima parte, da un potere centrale in grado di imporsi. Il bandito era dunque colui che veniva colpito dalla pena del bando, per lo più limitatamente da territori ben circoscritti e che, dopo trattative e pacificazioni tra i gruppi rivali, poteva facilmente ottenere il permesso di rientrare nelle zone da cui era stato interdetto. In tale contesto era difficile che il bandito potesse essere associato al fuorilegge e tanto meno che la sua figura potesse assumere i tratti del brigante ottocentesco.
Fu solo a partire dalla fine del Cinquecento che nei diversi paesi europei alla figura del bandito tradizionale si accompagnò e, molto spesso, si sovrappose, quella del fuorilegge, colpito da un vero e proprio ostracismo da parte delle istituzioni dello stato. Un pericoloso nemico, da combattere con ogni mezzo, anche ricorrendo a leggi che ne favorivano l’eliminazione ad opera di veri e propri bounty killers, i quali in cambio potevano contare sulle ricche ricompense promesse o, nel caso fossero stati essi stessi banditi, ottenere la propria liberazione.
Il passaggio della figura del bandito a quella di vero e proprio fuorilegge fu evidentemente il risultato di un riposizionamento politico dei diversi poteri, con l’affermazione di una giustizia punitiva, espressione di autorità statali decise ad affermare la propria autorità sui gruppi parentali e sui conflitti di faida locale. E le iniziative dei poteri centrali si muovevano evidentemente di seguito alla spinta di istanze di ordine e di tranquillità che provenivano da settori sociali economicamente importanti e decisivi. Fu nel corso dei decenni a cavallo dei secoli XVI e XVII che emerse infatti, in tutta la sua drammaticità, la figura del bandito aristocratico in aperta opposizione al potere centrale. Sul piano semantico l’immagine del fuorilegge venne allora frequentemente rappresentata dall’espressione bandito famoso. Le tensioni nell’ambito dei diversi contesti sociali contribuirono pure ad investire il fuorilegge di significati mitici, anche se, di fronte all’immagine fortemente negativa che accompagnava le pratiche repressive della nuova giustizia punitiva, difficilmente potevano apertamente emergere forme di narrazione tese a cogliere la dimensione sociale del bandito. E la stessa ricostruzione storiografica non può che delineare con estrema difficoltà una narrazione attendibile, dovendo prevalentemente avvalersi di fonti giudiziarie intensamente caratterizzate dalla loro perentoria negatività. Il mito traspare comunque, già nel corso del Seicento da rappresentazioni pittoriche (un esempio interessante è costituito da alcune opere di Salvator Rosa) e, molto probabilmente, da una tradizione orale veicolata dai cantastorie
Nel corso dell’età moderna al bandito aristocratico si sostituì sempre più frequentemente l’immagine del bandito rurale. Ma in entrambi i casi la sfida visibile nei confronti della società si accompagnò ad attività criminose, come le rapine e i furti, che le autorità giudiziarie erano ben attente a perseguire e a porre in evidenza. Il bandito era comunque ancora un nemico esterno che si collocava al di fuori della comunità e che le leggi e le sentenze evidenziavano come colui che aveva spezzato alcuni fondamentali vincoli sociali.
Fu solo nel corso dell’Ottocento che il bandito, ancorché famoso, divenne vero e proprio brigante, non più associato ad una pena (quella del bando) che rifletteva la frammentazione politica dell’antico regime. Con l’affermazione degli stati nazionali il brigante divenne un nemico interno, colui che con le sue azioni si era apertamente messo contro le leggi dello stato, divenendo un vero e proprio criminale. Paradossalmente, in questa nuova fase, si aprono forme di narrazione che non sanno nascondere pure la dimensione del mito che ha investito il fuorilegge. Non diversamente dalla nascita del romanzo giallo, che rintraccia la sua origine nelle narrazioni giudiziarie, la delineazione mitica (in termini narrativi) del fuorilegge individua il suo sostrato nella figura del brigante. La società borghese ottocentesca, lasciato dietro a sé la pena di morte e il sistema punitivo che la giustificava, può rivolgersi contraddittoriamente ai meandri più oscuri che la percorrono in profondità.
La tipologia del bandito sociale tracciata da Eric Hobsbawm si calava in realtà in una dimensione storiografica attenta a cogliere più complessivamente le interrelazioni complesse esistenti tra controllo sociale e devianza. Di certo la figura del fuorilegge sarebbe sempre più divenuta appannaggio di un filone letterario e filmico volto a delineare la figura dell’eroe che, spinto da una profonda esigenza di vendetta e d’onore, osa sfidare le forze ostili che lo circondano.
Rivolgersi, oggi, ad essa, significa innanzitutto riflettere sulle diverse elaborazioni letterarie che ne hanno costruito il mito; ma anche affrontare le narrazioni che l’hanno enucleata e veicolata sino a noi, tramite le fonti d’archivio: dalla narrazione più propriamente giudiziaria e repressiva che l’ha costruita, sino a quella che lo storico, con i suoi procedimenti interpretativi, ha trasmesso all’attenzione di oggi. Il paradigma della costruzione storica e letteraria del fuorilegge può in questo senso essere considerato come uno strumento di analisi dei valori culturali che mantengono coesa una società, ma anche rivelatore delle sue ansie e delle sue profonde divaricazioni interne.
Il caso di Zanzanù è estremamente istruttivo di quanto sopra affermato, ma presenta pure una variante di grande interesse. La sua immagine è infatti stata infatti veicolata sino a noi tramite il grande e maestoso ex-voto conservato presso il santuario della Madonna di Montecastello di Tignale (Brescia) in cui si descrive la sua morte di seguito ad una cruenta battaglia che si svolse il 17 agosto 1617. Appare evidente che l’ex-voto tramandò l’immagine controversa di un eroe locale. L’ex-voto interagì costantemente con la percezione dei fedeli che giungevano al santuario. Un’interrelazione che evidentemente si svolgeva a livello consuetudinario, modificando gli stessi contenuti e significati rappresentati nel dipinto e voluti dai committenti. Il lavoro storiografico ha dovuto quindi procedere in due direzioni. Da un lato quella che si può definire la restituzione del dipinto e, dall’altro nel senso di ricostruzione dell’immagine del fuorilegge che la storiografia locale aveva dato nel corso di due secoli.

b) INDIVIDUAZIONE DI UNA VICENDA TRASMESSA DA UN PROCESSO SEICENTESCO, DA CUI EMERGONO DIVERSI EROI LOCALI

Il processo istruito dal Consiglio dei dieci negli anni 1605-07 porta alla ribalta una vicenda che a livello locale era del tutto sconosciuta. Questo case-study presenta una varietà di protagonisti, in cui sorprendentemente la comunità odierna ha voluto o saputo individuare i suoi local heroes. Una famosa compagnia teatrale ci ha dedicato un’opera che ha voluto definire @ Sito veneto (1996). Le implicazioni letterarie della vicenda rendono il caso ancora più complesso e tale da suggerire tutta una serie di riflessioni sul rapporto tra lettori e lavoro storiografico. Il processo, integralmente pubblicato in un volume su iniziativa della regione Veneto si presenta come una fonte di grande rilievo storico e porta a riflettere sull’immagine del local hero e sul rapporto tra memoria, consuetudine e lavoro storiografico (e letterario).

c) UN CASE STUDY CHE DELINEA IL RAPPORTO ASSAI STRETTO TRA LOCAL HERO E COMUNITA’

Il caso di Arquà Petrarca e dell’arca che da secoli conserva le reliquie del grande poeta è esemplificativo di un eroe locale adottato da una comunità in virtù dell’esistenza di una grande reliquia, ma soprattutto del processo di rivisitazione letteraria operato nel corso dei secoli dalla letteratura e soprattutto dall’inserimento del borgo di Arquà negli itinerari proposti dai guide-books. Le reliquie del poeta furono oggetto di un vero e proprio culto da parte di viaggiatori e letterati, ricordate in numerosi testi e sottoposte ad una periodica rivisitazione. La percezione delle reliquie si modificò nel corso dei vari periodi storici, come dimostrano le aperture della grande Arca esistente sul piazzale della chiesa di Arquà. Aperture che sembrano denotare una percezione locale che si trasforma nel corso dei secoli e che rivela pure una sorta di antagonismo e di concorrenza con quella esterna, che possiamo definire colta.
Il corso si sofferma in particolare sull’apertura notturna dell’arca che nel 1630 ebbe come protagonisti il frate domenicano Tommaso Martinelli ed alcuni abitanti di Arquà, con la sottrazione di gran parte del braccio destro del poeta. Idealmente si conclude con i primi anni di questo secolo con l’ultima ufficiale apertura e i rilievi scientifici di un’équipe di studiosi dell’Università di Padova, da cui è infine emerso che il cranio del poeta è in realtà quello di una donna vissuta circa un secolo prima di lui.
Il caso di Francesco Petrarca è emblematico per rappresentare la figura di un eroe locale adottato dalla comunità e destinato a racchiudere in sé una serie di aspetti simbolici