Forum

la storiografia giuridica sul matrimonio di Tommaso Saggiorato – martedì, 20 ottobre 2009, 15:54 

Storia_del_matrimonio.doc

Allego il saggio d’esame sul tema “La storiografia giuridica italiana alla ricerca delle origini nazionali del diritto famigliare”.

Tommaso Saggiorato


tesina di Valeria Favretto – giovedì, 24 settembre 2009, 11:49

Allego il testo della mia tesina, che si intitola Matrimoni clandestini e segreti fra diritto canonico e pratiche sociali di Antico Regime

spons.pdf


Re: tesina di Paola Caldognetto – martedì, 6 ottobre 2009, 13:54

Invio in allegato la mia relazione che verte sullo stesso argomento: “Matrimoni segreti e clandestini: vantaggi e utilità”.

Con nostalgia di questo stimolante e intenso corso, arrivederci a tutti.

Paola Caldognetto

Tesina_Antropologia_Giuridica.pdf

Passione e interessse


Relazione di antropologia giuridica di Valentina Dal Cin – lunedì, 21 settembre 2009, 13:01

Come richiestomi dal Prof. Povolo pubblico in allegato la mia relazione conclusiva al corso.

Passione e interesse, Valentina Dal Cin


Saggio S. Fornasa di Valeria Favretto – venerdì, 7 agosto 2009, 17:38

  Volevo porre una domanda su una questione che non mi è chiara. Nel saggio Brogliano nell’età moderna, Fornasa sostiene che il matrimonio contratto nel 1559 da Cecilia e Giovanni fosse clandestino. é vero che il matrimonio clandestino traduceva una unione a cui mancava il consenso dei genitori, come in questo caso. Tuttavia per matrimonio clandetino pretridentino si intende ogni scambio di consensi esternato senza i testimoni. Qui i testimoni ci sono: le formule del consenso sono state scambiate chiaramente e pubblicamente. Il rito non è stato officiato da un parroco davanti alla chiesa, e in questo senso il matrimonio può essere considerato illegittimo. é comunque un matrimonio valido che gioca sulla profonda ambiguità delle norme pretridentine, ma non pensavo di definirlo clandestino. Forse non ho capito qualcosa?

Re: saggio S. Fornasa di Silvano Fornasa – lunedì, 10 agosto 2009, 11:42

  Il matrimonio clandestino era caratterizzato dall’assenza o dalla imperfezione della ritualità, della pubblicità e dei testimoni; poteva poi avvenire senza il consenso dei genitori, ma anche essere gestito dalle famiglie, nell’ambito di consuetudini comunitarie che dureranno a lungo e che, secondo Povolo, influenzarono la nuova normativa tridentina in materia matrimoniale.

Ho definito clandestino il matrimonio di Cecilia e Giovanni (un termine certamente estraneo ai due e alla comunità), perchè contratto in contrapposizione alla famiglia di lei, e perchè gli elementi del rito e della pubblicità non vennero ritenuti sufficienti dal tribunale ecclesiastico. Nel processo manca purtroppo il costituto di Cecilia e le deposizioni dei testimoni sono scarse o probabilmente disperse in registri diversi: emerge comunque che la durata del corteggiamento non era ben documentata, la promessa (parole de futuro) assente, assente anche il rapporto sessuale; si giudicò che un testimone e la massara non avessero udito con sicurezza le formule (data la precarietà … logistica in cui avvenne il matrimonio); non venne poi documentata con certezza la fama publica. Se a questo aggiungiamo la diversità, quantomeno percepita, di status dei due nubendi, è facilmente comprensibile la dichiarazione di nullità cui giunse il vicario vescovile.

Re: saggio S. Fornasa di Claudio Povolo – lunedì, 10 agosto 2009, 16:55

Valeria ha colto le apparenti ‘incongruità’ tra aspetti formali e sostanziali del matrimonio tridentino e Silvano ha puntualizzato questo aspetto. Vorrei riprendere un brano del mio intervento apparso nel forum ‘Le belle parole e l’anello al dito’, scritto a propostio del processo in questione. Rilevavo allora:

E che dire del matrimonio celebrato da Giovanni Piovene e Cecilia da Brogliano su quel tavolo pensile? Qui i requisiti della validità ci sono tutti (siamo nel 1559, prima dell’emanazione del decreto Tametsi): i due testi, la scambio dei consensi tramite la formula di rito (le belle parole) e l’inanellamento della sposa. Il consenso dei genitori non era considerato fattore essenziale per la validità del matrimonio, ma comunque i parenti di Cecilia intervennero trasferendo la giovane in casa dello zio. Il Piovene avviò la causa giudiziaria per dimostrare l’avvenuto matrimonio. La vicenda ci suggerisce dunque come, prima di Trento, le più flessibili ritualità previste per la validità del matrimonio fossero comunque inscrivibili nella dimensione della parentela. Potremmo sostanzialmente affermare che la clandestinità del matrimonio era essenzialmente data dall’assenza di quest’ultimo fattore sostanziale (e non formale). La clandestinità, sul piano formale, era infatti data dal fatto che lo scambio del consenso interveniva senza la presenza di testimoni che potessero attestare lo scambio delle parole di rito o il tocco della mano (e l’inanellamento della sposa): tutti segni che avrebbero dovuto testimoniare inequivocabilmente la volontà dei due nubendi. Va però aggiunto come questi segni fossero abitualmente manifestati in un contesto rituale in cui le parentele dei due sposi intervenivano sancendo con la loro approvazione la sostanziale validità del matrimonio. L’ambiguità dei riti tridentini consisteva proprio nella dimensione parentale di un’unione che comunque si svolgeva all’insegna dell’effettiva volontà dei due sposi. Perché il Concilio di Trento non accolse come elemento di validità il consenso dei genitori, che pure tanta parte svolgeva nell’effettiva prassi matrimoniale?

Cerchiamo di esaminare la questione ponendoci da un osservatorio ben preciso e cioé il documento (la prova) che attesta un fatto (un indizio) come osservavamo tempo fa. La vicenda emerge da un processo ecclesiastico, ma da chi venne sollecitato? Dal Piovene, cioé da colui che, teoricamente, avendo celebrato un matrimonio secondo le consuete regole, avrebbe dovuto rimanere soddisfatto e tranquillo. In realtà egli fu costretto ad adire il tribunale ecclesiastico perchè la giovane donna fu prelevata dalla famiglia e condotta altrove, fuori dalal sua portata. Con la causa giudiziaria egli intendeva riaffermare che la giovane era divenuta sua moglie e che quindi veniva a cadere qualsiasi forma di tutela da parte della sua famiglia d’origine. In realtà le cose non erano così semplici. Il piano formale delle regole pretridentine (anche nella loro veste di clandestinità, che non è qui il caso) sottointendevano una ‘sostanza’ che era data dal contesto entro cui si calavano, in cui la parentela e il consenso non avevano certo un peso indifferente. Sì, certo, il consenso dei due nubendi era il tratto formale e sostanziale che decretava la validità del matrimonio, ma l’assenza del consenso parentale apriva la strada agli spazi di ambiguità che circondavano, comunque e sempre, una cerimonia celebrata ‘segretamente’. E in questi casi a decidere erano evidentemente i rapporti di forza (tra i quali di certo non da poco era la decisa volontà dei due sposi di dimostrare la validità dell’unione). Evidentemente le testimonianze potevano essere inficiate dall’assenza di consenso da parte della comunità e dei genitori. I valori diffusi nel contesto contavano molto e di certo anche la sensazione che un matrimonio celebrato da due giovani appartenenti a famiglie diverse sul piano della ricchezza e cetuale non fosse auspicabile. Dunque va tenuto presente il dislivello tra regole formali e sostanziali, tra diritto e forze sociali. L’assenza del requisito del consenso sia nei matrimoni pretridentini che in quelli successivi è un aspetto non da poco, che rifletteva molto probabilmente le tensioni esistenti tra mondo dei celibi e mondo degli sposati e che, in linea di principio, rifletteva la preminenza della famiglia coniugale sulla rete parentale (si vedano le osservazioni di Pitt-Rivers pubblicate in un altro intervento del sito) e di conseguenza dell’importanza della filiazione e dell’amore coniugale; delle tensioni tra presente/futuro rispetto al passato (determinato dalla parentela ascendente). Di fatto il valore della parentela era determinante, in quanto preminente sul piano economico e sociale. Ma se il consenso dei genitori e della parentela fosse divenuto un requisito formale essenziale per la validità del matrimonio, le tensioni generazionali sarebbero venute meno e così pure quella zona grigia entro cui potevano, di fatto, crearsi degli equilibri tra le spinte della passione e le strategie incentrate sugli interessi. E la stessa dimensione dell’onore, se si riflette bene, riflette, in tutta la sua ambiguità, le strette interconessioni tra i due mondi.

Re: saggio S. Fornasa di Cristina Setti – giovedì, 13 agosto 2009, 16:11

Un esempio adatto a cogliere la discrasia “tra regole formali e sostanziali, tra diritto e forze sociali” è senz’altro fornito da J. Casey allorché, nel capitolo

sul ruolo della passione, accenna al fatto che, specie nelle società mediterranee, i matrimoni clandestini o comunque ritenuti “devianti” in quanto conseguenti a ratto, fuitina, ecc… dall’età moderna in poi furono sovente favoriti ed addirittura programmati dalle famiglie aristocratiche bisognose di contrarre alleanze vantaggiose dal punto di vista economico; queste “strategie”, costituenti un valido escamotage per prevenire e giustificare una scelta matrimoniale altamente sfavorevole secondo il linguaggio non scritto dell’onore, viene logicamente interpretata da Casey con la necessità di conciliare un universo valoriale sempre più in crisi, non più tale da giustificare sul piano politico le vecchie gerarchie, poiché non più in grado di fornire le prove pratiche della nobiltà e quindi della sua naturale predisposizione al potere, con un mondo in cui è la gerarchia della ricchezza a divenire sempre più preponderante.

Ciò senza dubbio dimostra, come dice anche il professore, che ancora in epoca post tridentina la parentela, o la rete di alleanze e amicizie, contava

ancora molto per il buon esito dei matrimoni segreti o clandestini poiché poteva influire sul reperimento di prove e testimoni in grado di confermare la

presenza del libero assenso dei nubendi, requisito ancora centrale dell’atto nonostante dopo il concilio divenisse obbligatoria la presenza di un prete.

Tuttavia il compromesso che durante il concilio si raggiunse con il riconoscere la validità dei matrimoni compiuti senza il consenso di genitori e parenti,

compromesso ottentuto pur tra l’ostilità dei prelati francesi e germanici, sembra un tentativo di estromettere, lentamente ma progressivamente, la

dimensione della parentela dall’edificazione delle strutture sociali, dei rapporti di potere, come sottolinea anche John Bossy, al fine di favorire un maggior controllo sociale da parte dei chierici. La religiosità del resto, pur molto presente anche nel Medioevo, era sino ad allora sempre sfuggita a qualsivoglia tentativo di irregimentazione, in quanto spesso si organizzava e praticava secondo modalità che riflettevano ampiamente la dimensione della comunità e quindi della parentela, naturale o artificiale che fosse (confraternite, rituali collettivi, battesimi fatti in casa con molti padrini); gli stessi riti ne risentivano, tanto che i parroci spesso, in occasione delle faide, si proponevano come mediatori del conflitto, di cui il matrimonio costituiva il felice esito: lo scambio dell’assenso e del bacio, così come i successivi festeggiamenti, erano tutti momenti simbolici della sanzione di un’allenanza parentale, che, legittimata in tal modo, trovava nella comunità un’accoglienza spontanea che integrava dimensione spirituale e secolare.

Le vie di fuga, gli spazi di ambiguità lasciati dal concilio agli sposi, rientrerebbero così nella volontà di scardinare dall’interno la preponderanza della dimensione secolare della famiglia (fatta dalla parentela) per istituire un filo diretto tra l’individuo e la sua Chiesa, oltre che dall’esigenza di definire in un linguaggio moralmente accettabile (quello del sacro) la passione, il sentimento, il contrasto tra pulsioni interiori e codici esterni, tra il benessere individuale e la sopravvivenza del gruppo. Solo che tra definizione di una norma, e dei suoi spazi di interpretazione, e la sua applicazione fattiva, continua a sussistere uno scarto che come abbiamo visto viene colmato dai concreti rapporti di forza presenti tra gli individui e le “sovrastrutture” (famiglia, società, mentalità, visione del mondo) che li plasmano e ne condizionano il comportamento. In che misura dunque, l’imporsi di una norma scritta, codificata, esterna, può imporsi su un agire consueto, o piuttosto, rimodellato in base alla consuetudine? A mio avviso, è evidente che la buona riuscita di un fatto deviante quale può essere un matrimonio clandestino, nel caso ovviamente in cui non sia programmato o approvato dalle famiglie d’origine dei nubendi, dipende anche dalla discrasia che c’è tra gli individui e il loro concetto d’onore, dal grado di fragilità dei loro universi valoriali, oltre che dalle loro condizioni personali e sociali.

Re: saggio S. Fornasa di Paola Caldognetto – venerdì, 14 agosto 2009, 13:06

Certamente la Chiesa favorì la libertà individuale a scapito del consenso parentale. Ciononostante non va dimenticato che i rapporti tra genitori e figli erano contraddistinti da obbedienza e deferenza (vedi Barbagli Sotto lo stesso tetto) e la chiesa auspicava l’osservanza del quarto comandamento, onora il padre e la madre. Pertanto credo che l’approvazione dei genitori, pur non richiesta da un punto di vista legislativo, venisse comunque solitamente cercata. Ed ecco forse perché qualche volta la consuetudine aveva il sopravvento e il consenso diventava un requisito di validità, in particolare prima nelle norme tridentine.

Del resto, anche una forte perdita di autorità paterna dei padri sui figli avrebbe potuto portare ad una sempre più accesa e grave conflittualità nei rapporti famigliari e sociali. Anche questo equilibrio andava salvaguardato.

Riguardo la discussione sui termini clandestino e segreto, penso che essi si delinearono maggiormente dopo le norme che li definivano. Se non risolveva completamente le ambiguità derivanti da fattori sostanziali, dalla prassi, dalle consuetudini, la Chiesa però aveva preso e diffuso una posizione chiara che forniva ora dei punti fermi da cui partire.

Riporta Paolo Sarpi nella sua Istoria del Concilio Tridentino che il giorno 11 novembre 1563 il sinodo ivi riunito decretò che:

“Quantunque sia cosa certa che li matrimoni secreti sono stati veri e legittimi mentre la Chiesa non li ha annullati, e che la sinodo anatematizza chi non li ha per tali, insieme con quelli che asseriscono li matrimoni contratti dai figliuoli di famiglia senza il consenso de’ padri esser nulli, e che i padri possono approvarli e riprovarli; nondimeno la Chiesa santa li ha sempre proibiti e detestati. E perché le proibizioni non giovano, la sinodo comanda che il matrimonio, inanzi sia contratto, sia denunciato nella chiesa tre giorni di festa; e non scopertosi alcun impedimento, si celebri in faccia della chiesa, dove il parroco, interrogato l’uomo e la donna, udito il loro consenso, dica: ‹Io vi congiungo in matrimonio in nome del Padre, Figlio e dello Spirito Santo›, o usi altre parole consuete in quella provincia. Remise però la sinodo all’arbitrio del vescovo il tralasciar le denonciazioni; ma dichiarò inabili a contraer matrimonio quelli che tentassero contraerlo senza la presenza del parroco o altro prete di tal autorità, e doi o tre testimoni, irritando e annullando tali contratti con pena alli contraffacenti. Dopo esorta li congiugati a non abitar insieme inanzi la benedizione, e comanda al parroco di aver un libro, dove li matrimoni così contratti siano scritti.”

Sono d’accordo nel non utilizzare la definizione dei due termini, clandestino e segreto, con troppa rigidità (facendo l’”errore” del consultore Giovan Maria Bertolli), cercando di distinguere il piano formale da quello sostanziale. Senza contare le volte in cui sfumavano l’uno verso l’altro, per esempio nel caso del matrimonio tra Pietro Saraceno e Trivulzia Brazzoduro definito segreto ma rasente, secondo me, la clandestinità.

Sono però altresì convinta che i due termini vadano ben distinti soprattutto in relazione alle motivazioni che portavano alla scelta dell’uno e dell’altro da parte degli aspiranti marito e moglie. Ciò che li accomuna è solamente il ricorso ad essi per aggirare un “ostacolo o rifiuto nella via ordinaria” come scritto da Alessandro Manzoni.

Vorrei sottolineare quanto scritto in una dispensa sul sito dal Prof. Povolo che secondo me chiarisce il significato più profondo dei due istituti: “se il matrimonio clandestino rifletteva le tensioni esistenti all’interno di una società sottoposta all’emergere di valori nuovi incentrati sulla ricchezza e su diversi rapporti economici, quello segreto era espressione della forte resistenza opposta da forze sociali che individuavano il loro prestigio e la loro stessa ragion d’essere nella tradizione e nella continuità dei suoi valori ideologici.”

Re: saggio S. Fornasa di Claudio Povolo – venerdì, 14 agosto 2009, 22:44

La domanda sollevata alcuni giorni fa da Valeria ha riattivato il dibattito, come dimostrano i due interventi di Cristina e Paola, entrambi ricchi di problemi di osservazioni. Non avrei molto da aggiungere se non il fatto che la distinzione tra clandestinità e segretezza è evidentemente ambigua, anche se, come osserva Paola, in molti casi rifletteva situazioni ed esigenze diverse. Sta di fatto che la normativa tridentina fece emergere pratiche sociali calate nella tradizione e assai fluide e manipolabili. Il concilio tridentino rifletteva l’esigenza di un diverso ordine sociale, giuridicamente e formalmente più indi viduabile e controllabile. Ciò inevitabilmente, come osserva Cristina, ridusse i margini di movimento della struttura parentale. Un’altra distinzione ambigua è quella tra rapimento e matrimonio clandestino, due istituti che sono pure entrambi circoscrivibili dall’idioma dell’onore. Prima di Trento il rapimento (volontario) poteva in un certo senso anche coincidere con il matrimonio clandestino, se solo si riflette che essa veniva per lo più compiuto dall’interessato con il sostegno del gruppo giovanile di appartenenza. Il gruppo parentale, molto spesso, se non d’accordo era condiscendente. In questo istituto appaiono più evidenti i nessi esistenti tra consenso dei due giovani e consenso parentale. Molto spesso non venivano denunciati (ai due fori, secolare o ecclesiastico) lasciando emergere una pratica sociale assai diffusa ed accolta. Se i genitori o i parenti denunciavano, la giustizia si muoveva contro il rapitore ed appare evidente che la testimonianza del gruppo “degli sposati” era essenziale per definire le modalità del rapimento (con o senza la volontà della ragazza; ella aveva chiesto aiuto? come si erano posti i rapitori nei confronti della stessa e dei parenti? la giovane aveva gridato? aveva chiesto aiuto? ecc.). Dopo il concilio tridentino rapimento e matrimonio clandestino sono due cose diverse, a meno che il primo non confluisca necessariamente nel secondo (dopo il rapimento i due si recano davanti ad un sacerdote con alcuni dei giovani che hanno porto il loro aiuto e scambiano il consenso). Il solo rapimento, di per sè, non dovrebbe bastare, anche se sappiamo che il ‘disonore’ caduto sopra la ragazza, spingeva testimoni e comunità a sollecitare il matrimonio. Formalmente però il rapitore doveva lasciare libera la ragazza, la quale doveva, prima del matrimonio, ritornare alla casa dei suoi genitori (secondo la normativa tridentina). La denuncia dei parenti della giovane presso le autorità secolari ed ecclesiastiche lascia generalmente intendere l’esistenza di una mésaillance e l’evidente tentativo di sottolineare con la violenza esercitata l’annullamento della presunta unione )in quanto violenta e priva di consenso). La documentazione studiata da Silvano Fornasa è interessante e ci suggerisce quale ricchezza nascondano gli archivi ecclesiastici e le loro potenzialità di comprensione della società dell’epoca.

Re: saggio S. Fornasa di Valeria Favretto – giovedì, 27 agosto 2009, 09:56

  Volevo ringraziare per i vostri interventi, interessanti in luce del lavoro che sto facendo.

In particolare la spiegazione del signor Fornasa ha chiarito i miei dubbi sul matrimonio di Cecilia e Giovanni: il suo intervento mi ha permesso di calarmi più profondamnte nella pratica sociale e di tener maggiormente presente il peso determinante delle forze sociali in cui la pratica sociale stessa si calava. In particolare mi è tornato utile soffermarmi sul fatto che formule come “matrimonio clandestino” erano certamente estranee ai due giovani e alla comunità perché la società interagiva in maniera molto fluida con la norma, tanto da crerare una vera e propria discrasia fra questa e la prassi sociale.

Inoltre è importante tener presente che solo se il matrimonio veniva portato al tribunale ecclesiastico, allora risultava necessario inquadrarlo e definirlo entro una forma specifica.E in questa definizione risultavnao determinanti certamente il rito, ma ancor di più le forze sociali (parentali e comunitarie) in cui esso era calato, come mostra appunto il caso si Cecilia e Giovanni.

A tal proprosito mi viene in mente il matrimonio fra Francesco Brigo e Barbara Malacarne (Claudio Povolo, In margine ad alcuni consulti in materia matrimoniale): un matrimonio decisamnete singolare agli occhi della razionalità legislativa, officiato, alla fine del XVII secolo, dal fabbro del paese. Esso esprimeva la sopravvivenza di riti consuetudinari che trovavano significato perché profondamente inseriti e vivi in una sorta di legge di comunità. Pertanto è verisimile ritenere che, ancora alla fine del XVII secolo, venissero celebrati matrimoni siffatti con l’assenso della comunità, eccetto questo, evidentemente, contestato dalla precedente compagna di Brigo e quindi portato di fronte al tribunale.

Re: saggio S. Fornasa di Paola Caldognetto – mercoledì, 2 settembre 2009, 12:12

  In più di un intervento si afferma che questi termini fossero estranei ai più. Ma siamo proprio sicuri che fossero così estranei alla popolazione? Io mi ero fatta un’idea un po’ diversa. In fin dei conti la procedura era nota e non sono pochi quelli che se ne servivano per aggirare gli ostacoli che poneva la via ordinaria. Infatti generalmente avvenivano per aggirare un ostacolo, non si trattava di semplice ignoranza o ingenuità. Secondo me, si sapeva che uno era deviante e non del tutto legittimo (probabilmente si contava sulla tutela della conseutidine e della comunità) anche se magari non lo si definiva clandestino e l’altro, più in uso presso il ceto nobile, si sapeva che veniva tenuto nascosto ma era possibile celebrarlo in segreto. Certo i particolari sarebbero stati indagati solo da un tribunale di fronte a una causa, cosa che avrebbe reso il buon servizio di identificare sempre meglio casistica e significati racchiusi dentro i due termini.

Io credo che una buona parte della gente comune conoscesse questi termini, ed in particolare chi se ne serviva.

Re: saggio S. Fornasa di Claudio Povolo – martedì, 8 settembre 2009, 01:41

 Giovan_Maria_Bertolli.doc

Il quesito di Paola non è di poco conto. Ovviamente il concetto di segretezza e di clandestinità erano noti alla popolazione: ma come e quando? Tra i membri dell’élite aristocratica era di certo nota la terminologia ‘matrimonio segreto’, così come quello di matrimonio clandestino. Attenzione però che la loro definizione precisa avviene solo dopo il concilio di Trento. Tant’è che il concetto stesso di clandestinità cambia, mentre la segretezza del matrimonio ’emerge’ da pratiche legate alla consuetudine. I due concetti sono elaborati dal diritto canonico che tende ad imbrigliare pratiche sociali non così chiare e precise. Valeria ricorda il matrimonio celebrato nel Basso Padovano a fine ‘600 ricordato nel mio saggio. Il canonista consultore Bertolli non riesce a percepirne il valore e il senso, tanto era distante tale pratica dalla dottrina canonista ormai consolidata. Un matrimonio ‘vecchio stile’ direi, pretridentino… Il diritto tenta di classificare e cogliere in norme astratte pratiche sociali assai complesse e mutevoli (vi ricordate di Caterina Corradazzo?). Prima di Trento vi era contiguità tra rapimento e matrimonio clandestino, come dicevo, e non dopo. Il diritto canonico stesso muterà nella sua interpretazione tra ‘600 e ‘700. Un esempio tratto dai consultori in iure (rinvio ancora al saggio ‘In margine…’). I Consultori come Bertolli (di cui allego un mio intervento) affrontano il problema del matrimonio clandestino senza chiaramente raffrontarlo con la presunta e precedente promessa di matrimonio (considerata teoricamente vincolante). Segno che questi casi (rinvio al capitoletto ‘Disordini del matrimonio’) ‘non emergevano’ sino al tavolo del consultore e venivano pragmaticamente risolti nei fori ecclesiastici (forse, ma non è che un’ipotesi, a favore della promessa). Ma nel corso del ‘700 ogni consultore si pone un problema: se un matrimonio clandestino è stato preceduto da una promessa di matrimonio con un’altra persona, quale dei due deve ritenersi valido? La risposta data per lo più dai consultori è che il matrimonio clandestino annulla la precedente promessa (vero e proprio sacro fidanzamento). Tutto questo per dire come il diritto canonico muta sensibilmente sia nelle formulazioni che nell’interpretazione tentando di razionalizzare pratiche sociali assai variegate e diffuse.

Re: saggio S. Fornasa di Valeria Favretto – venerdì, 11 settembre 2009, 17:55 

In effetti l’osservazione di Paola Caldognetto mi fa venire in mente un problema che mi ero posta anch’io all’inizio dell’analisi di alcuni casi di matrimonio.

Volker Hunecke in Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica… ha mostrato che matrimoni clandestini e segreti erano ben conosciuti in tutte le loro implicazioni dai patrizi veneziani, almeno nel periodo analizzato da lui, cioè 1646-1797. Il motivo è chiaro: nei grandi lignaggi, dove c’erano interessi economici, sociali e politici, il matrimonio era uno strumento di una più ampia strategia.

Tuttavia mi sembra che la risposta non sia mai così univoca.

Penso ad esempio al caso di Marianna Leffin. Sembra che per la prima celebrazione del matrimonio la ragazza sia stata strumentalizzata dal suo stesso fidanzato: il matrimonio di Pontebba non era valido, segnatamnete perché lei, tedesca, sembra non avesse capito le formule, in italiano e latino, cui aveva acconsentito; ha creduto sulla buona fede per un certo periodo di essere stata sposata.Successivamente il matrimonio è stato ricelebrato, a Treviso, ma in forma segreta. Anche in questo caso Marianna sembra all’oscuro della forma cui ha acconsentito. Ma alla morte del marito ne chiede la pubblicazione. Allora, forse a partire solo da quel momento, si è informata, tramite un avvocato e a causa delle rivendicazioni dei parenti del marito, su quale fosse la sua situazione.

Quello che ho notato è in realtà questo: quandanche gli sposi fossero consapevoli e profondamente conoscitori delle norme matrimoniali e di tutti i cavilli annessi, non di meno la “sopravvivenza” di un matrimonio era data tanto dagli aspetti formali che da quelli sostanziali. Questo è il caso di Cecilia e Giovanni: un matrimonio valido nella forma,tanto che Giovanni porta la causa in appello a Roma, ma annullato perché nella sua sostanza è percepito come dirompente (“clandestino”) dalle forze sociali in cui era calato. Eppure, quandanche fosse stato celebrato secondo il rito clandestino, non di meno sarebbe stato valido.

Un altro esempio è il matrimonio di Trivulzia e Pietro: in effetti un matrimonio segreto; poteva certo essere reso pubblico, ma dopo Trento non bastava la pubblica fama, servivano le pubblicazioni, che in questo caso non ci furono. Eppure Euriemma riesce a rivendicare i suoi diritti sul patrimonio del padre perché ha alle spalle un lignaggio altrettanto potente che le permette di contrastare quello dei Saraceno.

Quindi, contava senz’altro possedere la materia giuridica matrimoniale e rispettarla. Ma il diritto matrimoniale si mostra quanto mai magmatico e soprattutto, nella pratica sociale, pesavano tantissimo le forze sociali in cui esso era calato.


Avviso (8 settembre 2009) di Claudio Povolo – martedì, 8 settembre 2009, 19:40

Si avvisa che l’esame del 18 settembre 2009 è rinviato a lunedì 21 settembre 2009, ore 10 (sede del dipartimento). Mi scuso per l’inconveniente, ma un impegno sopraggiunto improvvisamente mi ha costretto al rinvio. Coloro che avessero terminato la relazione sono pregati di lasciarla tra la mia posta entro venerdì 11, oppure in caso di vera e propria impossibilità, a inviarmela tramite mail al mio indirizzo privato (claudio.povolo@tele2.it).


elisa tiozzo di Elisa Tiozzo – mercoledì, 2 settembre 2009, 15:55

  onore.pdf

RELAZIONE ANTROPOLOGIA GIURIDICA. TEMA: ONORE


L’onore di Elena Rivola di Cristina Bagarotto – lunedì, 10 agosto 2009, 23:54

Vorrei sottoporre alla vostra attenzione un procedimento giudiziario per seduzione aggravata da falsa promessa di matrimonio, che ho avuto modo di approfondire nel corso dei miei studi.

Questo processo penale – svoltosi tra Bergamo e Venezia nel 1785-1786 – non scaturisce da una contesa ereditaria o successoria ma dalla esigenza di una nobile ed illustre famiglia bergamasca, i conti Rivola, di essere reintegrata dell’onore perduto a seguito di una infelice relazione sentimentale della giovane contessina Elena. Questa vicenda dimostra come la virtù della donna – e per virtù s’intende la verginità, il pudore e il comportamento onesto e morigerato – fosse uno dei fattori fondamentali per mantenere la rispettabilità famigliare e lo status del gruppo sociale di appartenenza.

E’ ora necessario raccontare brevemente i fatti. La vicenda processuale inizia con un memoriale presentato nel gennaio 1785 ai rettori di Bergamo dalla ventiduenne contessa Elena Rivola e dai conti Agosti e Mozzi, suoi tutori testamentari da quando la ragazza era rimasta orfana nel 1777. Elena, in qualità di supplicante, chiede di:

[…] essere compensata dalla sovrana autorità dell’onore levatomi dal signor conte Luigi Vailetti che mi ha deflorata, e resa incinta, come mi trovo in cinque  mesi  circa, e che di più mi ha resa infetta di morbo celtico, e mi ha poi  abbandonata ricusando di sposarmi, e spargendo varie diffamazioni, ed imposture contra l’onor mio.

Il conte Luigi Vailetti, un giovane libertino ricchissimo e privo di scrupoli, dopo averla circuita con promesse di matrimonio, si era introdotto nella sua casa ed aveva sessualmente abusato di lei – non con  la violenza, quindi, ma con lusinghe e menzogne.  In seguito, per sottrarsi al matrimonio, aveva operato una rete di diffamazioni pubbliche, al fine di farla passare per una giovane di facili costumi. In questo modo, mettendo in dubbio la sua verginità,  egli l’avrebbe resa indegna di essere sposata. Il matrimonio, infatti, poiché essi appartenevano allo stesso ceto sociale, sarebbe era l’unica soluzione possibile. E di questo ne erano ben convinti anche i parenti del Vailetti, i quali – si rileva dalle carte processuali – avrebbero visto favorevolmente l’unione delle due famiglie, unione che avrebbe permesso ai Vailetti, casata di solida ricchezza ma di nobiltà recente, di imparentarsi con i Rivola, non altrettanto ricchi ma appartenenti ad una insigne nobiltà per investitura feudale dal 1433.  Ma inutili erano stati i numerosi tentativi per convincere il conte Vailetti a sposare Elena ed evitare anche – come in effetti poi si verificherà – un’azione legale da parte dei Rivola ed una sentenza sfavorevole per il conte Vailetti.

Il contenuto del memoriale metteva in moto un processo che, proprio per la peculiarità dei protagonisti appartenenti entrambi alla nobiltà di Terraferma – terreno di conflitti e tensioni sociali – presenta tutti i passaggi d’intervento previsti dalla suprema autorità giudiziaria veneziana del Consiglio dei X. Il procedimento giudiziario, infatti,  fu dapprima formato nella corte pretoria di Bergamo con rito ordinario, ma ben presto era proseguito con il rito inquisitorio delegato e, infine, avocato in Consiglio dei X fino alla sentenza, formulata con procedura d’urgenza nel settembre 1786. Durante il procedimento giudiziario più di duecento testimoni furono interrogati dal cancelliere pretorio e dal giudice del Maleficio. Le domande rivolte ai testimoni avevano lo scopo di ricostruire e appurare i fatti, ma soprattutto di verificare la ‘fama’ di Elena, ovvero la sua reputazione, la sua onestà di costumi e la sua morigeratezza.

Ricordiamo che nella Repubblica di Venezia questo tipo di reato per seduzione aggravata – che rientrava nella più ampia fattispecie del reato per stupro – era stato disciplinato da un’antica legge del Maggior Consiglio del 1520, quando la dottrina giuridica veneziana aveva operato una vera e propria distinzione tra stupro volontario (perpetrato con il consenso della donna) e stupro con violenza (accompagnato da una evidente violenza fisica sulla vittima). La promessa di matrimonio od altri inganni utilizzati per sedurre la donna costituivano un’aggravante nel caso di  stupro volontario. Condizione sine qua non, nel caso di ricorso alla giustizia, era l’onestà della donna: una donna disonesta o di facili costumi non avrebbe avuto diritto ad alcun indennizzo. Da quella lontana legge del 1520, e senza apportare alcun sostanziale intervento legislativo in materia di reati per stupro volontario, la Repubblica di Venezia era arrivata alla fine XVIII sec.

Con la  sentenza pronunciata dal Consiglio dei X il conte Luigi Vailetti veniva riconosciuto colpevole. La pena comminatagli – tre anni di bando, un anno di relegazione nel castello di Chioggia, fino a che non avesse dotato convenientemente Elena Rivola e versato una somma da destinare al mantenimento di Maria (la bambina nata da Elena nel maggio del 1785) –  non è mite considerata l’epoca (fine Settecento) nella quale si svolgono i fatti, epoca in cui questo tipo di reato stava perdendo tutto il suo valore giudiziario e non era più considerato – nemmeno a livello emozionale – infamante e punibile. Ci si chiedeva, infatti, soprattutto negli ambienti più colti ed intellettuali della società, se fosse legittimo risarcire la vittima e punire il colpevole nel caso in cui gli stessi avessero intrapreso una libera relazione sessuale tra adulti consenzienti.

Da documenti reperiti al di fuori del fascicolo processuale si viene a conoscenza che, durante la relegazione del Vailetti, era sorta una contesa sulla determinazione del quantum di risarcimento per la parte offesa. Come a dire che la famiglia Vailetti avesse volutamente sottostimato l’entità sia del proprio patrimonio che di quello dei Rivola, affinché la dotazione prevista dalla sentenza «secondo le misure dello stato di fortune delle due famiglie rispettive» risultasse più bassa. A dirimere la questione del contenzioso sul quantum, era stato nominato dal Consiglio dei X un esperto che aveva determinato «lo stato attivo, e passivo quanto alle rendite ed aggravi delle due nobili famiglie Rivola e Vailetti, col fondamento delle carte da ambedue le parti prodotte», ovvero l’oggettiva consistenza delle rispettive fortune, permettendo quindi ai tre Capi del Consiglio dei X e ai tre Avogadori di Comun pro tempore di definire la dote per Elena e la provvigione per la figlia Maria.

Nell’esaminare a lungo le carte processuali avevo cercato di percepire qualcosa della personalità di Elena, qualcosa che andasse al di là dell’immagine che si delineava dalle sue due lunghe e accorate testimonianze e mi è rimasta di lei una sensazione, quella di una giovane donna coinvolta in procedimento giudiziario che, sebbene fosse stato instaurato per restituirle la dignità, si era rivelato poi un meccanismo più grande di lei, al quale non poteva più sottrarsi.

Come sempre succede dalla lettura di un fascicolo processuale, è difficile comprendere in quale misura gli ‘altri’ o gli ‘adulti’ – in questi caso gli autorevoli suoi tutori, conti Agosti e Mozzi – fossero intervenuti a pilotare o influenzare le decisioni di Elena, la quale, durante lo svolgimento del processo, si era trasferita – o era stata costretta a trasferirsi – a Venezia nel collegio delle terziarie di S. Angelo Raffael per nascondersi agli occhi del mondo e sfuggire alla vergogna del disonore «[…] mentre le calunnie già sparse in ogni luogo contro l’onor suo […] gli rendono inaccessibile qualsiasi altro nobile asilo di faccia umana».

Differenze e somiglianze tra Elena e Caterina, Euriemma, Polissena, Laura e le altre figure femminili presenti in questo sito possono essere motivo di riflessioni e di spunti, tuttavia è evidente che tutte hanno in comune il fatto che ad un certo punto della loro vita furono costrette ad affidarsi alla giustizia per rivendicare i loro diritti e riannodare i fili della loro vita futura.

Re: L’onore di Elena Rivola di Claudio Povolo – lunedì, 17 agosto 2009, 20:03

La vicenda studiata da Cristina è di estremo interesse perché riflette un quadro vivido della società di fine ‘700. Il reato compiuto (seduzione) è si può dire di ogni luogo e di ogni tempo e si presta moltissimo sul piano della storia di genere. Il conte Vailetti è l’esempio tipico di mascolinità predatoria (una categoria che Julian Pitt-Rivers definisce ‘scalp-hunters’) ma che sottende, sullo sfondo, i tratti più marcati delle distinzioni di genere. Si potrebbero studiare i delitti predatori (ovviamente di vario genere) calandoli nella società e nel diritto dell’epoca. Sono sempre stati legati al genere maschile, anche se oggi è pure possibile identificare la stessa figura al femminile. A diversità del don Giovanni (richiamato in un altro messaggio del forum) nelle dinamiche amorose tra la contessina Rivola e il Vailetti non è configurabile la seduzione tra persone di condizione diversa e quindi le profferte amorose del Vailetti non sono giustificabili sul piano della distinzione (lei doveva sapere…). Di certo la sottrazione dell’onore alla giovane paradossalmente accrebbe il profilo sociale della casa Vailetti e questo giustifica il rifiuto del matrimonio che pure sarebbe stato vantaggioso. L’intervento della giustizia avrebbe dovuto sanare quanto avvenuto, anche se è da dubitare che infine i suoi effetti fossero percepiti nel contesto locale. Dall’età medievale a quella moderna la dimensione del seduttore si amplifica nel senso che (a meno di una promessa di matrimonio formalmente stabilita con tutti i crismi) le vittime non possono più addurre a loro sostegno valori che nell’età medievale erano sufficienti per pretendere la sua punizione: verginità, castità, buona fama… Se una donna si è concessa volontariamente (anche se con l’inganno tipicamente perpretato dal seduttore ricorrendo a tutte le astuzie e le promesse) nulla o poco può pretendere. Laddove nell’età medievale e prima moderna essa doveva essere sposata oppure adeguatamente dotata e l’eventuale figlio mantenuto.


La condizione della vedova di Valentina Dal Cin – sabato, 11 luglio 2009, 20:39

Nel corso si è discusso molto di matrimonio, di libera scelta dei coniugi e al contrario di strategie determinate dalla parentela. Vorrei attirare l’attenzione su di un tema che si è trattato, ma forse discusso un po’ meno: quello delle vedove e del loro ruolo nell’ambito della famiglia.

Tra le vicende esaminate quella più calzante è evidentemente quella di Anna Ferramosca. Anna era stata da bambina una “pedina” nelle mani del cugino del padre, Girolamo Ferramosca, che ne aveva progettato il matrimonio con Bonaventura Ferramosca quando aveva solo quattro anni. E questo solamente allo scopo di riunire due rami della famiglia, quello illegittimo da cui proveniva Anna, e quello legittimo ma impoverito di Bonaventura. Tuttavia una volta adulta, Anna riesce a dibattersi tra i debiti lasciati dal marito, le battaglie legali degli eredi del fratello Cesare e le pretese di autonomia dei suoi stessi figli maschi, Giuseppe e Cesare.

Anna dunque sceglie di non risposarsi.

Teoricamente le vedove si trovavano infatti in una condizione più libera dall’autorità parentale.

Di conseguenza, anche nel caso in cui scegliessero di convolare a seconde nozze, la scelta dello sposo poteva avvenire in modo più autonomo.

Inoltre (e qui mi rifaccio all’indagine di uno storico francese, Mathieu Marraud, sulla nobiltà parigina del ‘700) spesso nei matrimoni successivi al primo si nota via via una certa progressione sociale riguardo al “tipo” di partner scelto. Il che ovviamente non è motivato solamente dalla volontà della donna, ma anche da quella degli uomini, a cui spesso le ricche eredità che si sommano sulla testa delle vedove facevano non poca gola.

Eredità di non poco conto, a volte… a questo proposito riporto un esempio citato dal prof. Bély (studioso della Francia del ‘600) che mi sembra abbastanza esemplare:

A inizio ‘600 il duca di Piney-Luxembourg aveva soltanto una figlia, Margherite-Charlotte, che sposò in prime nozze Léon Albert de Luynes. La coppia ebbe solo un figlio che si fece prete. Una volta vedova, Margherite-Charlotte si risposò con un Clermont-Tonnerre. La loro unica figlia sposò poi François-Henri de Montmorency-Bouteville, che divenne così terzo duca di Luxembourg. Dunque nel giro di non molti anni il ducato di Luxembourg passò tra le mani di tre personaggi che non avevano legami di parentela tra loro! E questo solo attraverso l’eredità femminile! Erano infatti le donne ad aver trasmesso la dignità ducale al marito.

Infine, sempre a proposito della figura della “vedova-forte” mi è venuto in mente un esempio, che traggo dalle memorie della marchesa de La Tour du Pin (1770-1853), la quale così descrive in pratica la figura della nonna materna, Lucy Cary. Quest’ultima, secondo i ricordi della nipote, tiranneggiava la figlia (madre della protagonista) tenendola in una sorta di dipendenza psicologica ma soprattuto materiale, nonostante quest’ultima, figlia unica di un padre, il conte de Rothe, morto quando lei aveva dieci anni, avesse diritto a possedere la sua fortuna. Invece, per tutta risposta, la simpatica nonnina si era appropriata di viva forza di una delle ultime terre acquistate dal marito e quando la figlia, incoraggiata dalla regina in persona, chiese conto dei suoi diritti, la madre divenne a dir poco furibonda… La storia prosegue con la madre della protagonista che muore dai dispiaceri e la terribile nonna che, alla morte della figlia, in assenza del genero (sempre assente per via di campagne militari), si preoccupa di impossessarsi di tutti i documenti di quest’ultima. Precisa inoltre la protagonista: “non le era stato permesso [alla madre] di occuparsi dei propri affari temporali, ai quali mia nonna aveva troppo interesse che nessun uomo fosse iniziato”. La traduzione dal francese è mia e spero sia corretta, ma la frase è abbastanza notevole…

Mi scuso per la digressione, calata in una realtà, quella della Francia, sicuramente diversa da Venezia. Ovviamente trattandosi di un’autobiografia manca ogni elemento “tecnico-giuridico”, ma la storia mi sembrava comunque un esempio interessante, passibile magari di suscitare altre riflessioni…

Re: La condizione della vedova di Claudio Povolo – martedì, 14 luglio 2009, 01:27

L’intervento di Valentina ripropone la figura della vedova, una figura che molto spesso è stata soprattutto identificata per la sua ambiguità. Le osservazioni più interessanti sono state svolte da Julian Pitt-Rivers (The fate of Shechem or the politics of sex). Pitt-Rivers sottolinea come solo con la vedovanza la donna acquisisca una posizione di potere. Di certo nei confronti dei propri figli (il caso di Anna Ferramosca ricordato da Valentina è significativo). E comunque molto spesso è tale figura a rivestire un ruolo importante negli affari, che dimostrano di condurre, talvolta, molto meglio degli uomini di famiglia. Diviene, come osserva Julian Pitt-Rivers una sorta di surrogato maschile. A causa della maggiore vitalità e lunghezza di vita ella finisce spesso per assumere un ruolo forte ancor prima della vedovanza.

C’è inoltre un altro aspetto interessante che riguarda la vedova. La percezione maschile nei suoi confronti è spesso dettata dal timore di una sua presunta rapacità sessuale. Un atteggiamento predatorio (indipendentemente dall’età) che sembra ricalcare i moduli maschili. Appare evidente che si tratta di un atteggiamente che, più o meno esplicitamente, induce ad accostare la vedova alla strega (che infatti è di solito vecchia, vedova e incline ad atteggiamenti sessuali predatori).

In definitiva la vedova è una donna che si è sottratta all’autorità maschile ed ha invertito la classica distinzione incentrata sulla divisione del lavoro. Appare inoltre evidente che si è pure realizzata un’inversione nella definizione dell’onore. Se l’onore femminile è vulnerabile, non così appare quello della vedova (avendo assunto alciuni dei tratti maschili).

La vedova, inoltre, sembra acquisire una sostanziale autonomia rispetto alle parentele acquisite: un aspetto tanto più significativo se si pensa che ella dispone, con maggiore libertà della dote che ha portato con sè. E’ probabilmente questo aspetto che sta alla base delle mattinate (charivaris) che venivano inscenate contro i matrimoni tra vedovi.

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Re: La condizione della vedova di Valentina Dal Cin – lunedì, 20 luglio 2009, 19:56

Un altro aspetto legato alla maggiore autorità detenuta dalla vedova credo sia legato alla questione della maternità. Questo perchè la vedovanza e il ruolo di “tutore” in un certo senso liberano le madri dalla loro “minorità giuridica” permettendo loro di esercitare in pieno i poteri paterni, diventando così dei “padri per procura”. In questo modo la madre può estendere il proprio controllo anche su questioni quali le alleanze matrimoniali e le trasmissioni ereditarie.

L’autrice del saggio da cui traggo queste considerazioni (Julie DOYON, «À «l’ombre du Père»? L’autorité maternelle dans la première moitié du XVIIIe siècle», Clio, numéro 21-2005, pp.162-173) discute appunto questa mescolanza dei generi nella sfera familiare e conclude argomentando l’esistenza di un “impero delle madri”, cioé una sorta di solidarità femminile all’interno della famiglia (ma l’argomento è complesso, e non essendo un’antropologa forse qualcosa mi sfugge…). In sostanza, all’interno della famiglia la trasmissione del sapere materno (es. compiti domestici, mestieri…) definisce uno spazio di socializzazione esclusivamente femminile e, argomenta l’autrice, madri e figlie condividono l’onore così come il disonore, tanto che secondo la mentalità Ancien Régime sia il vizio che la virtù si perpetuano da una generazione di donne all’altra. In conclusione, la realtà della prima metà del Settecento lascia trasparire una pratica materna più autoritaria che tenera, meno femminile che maschile, mentre solo nella seconda metà del secolo, basandosi sul diritto naturale si arriverà a circoscrivere l’esperienza della maternità nel campo del “domestico”, e dunque lontano dal “potere”.

Re: La condizione della vedova di Claudio Povolo – mercoledì, 22 luglio 2009, 19:12

Il saggio citato da Valentina (che non conosco) ripropone l’autorità della vedova nei confronti dei figli (anche maschi). Un ottimo esempio, nel nostro sito, è costituito da Anna Ferramosca. Sulla trasmisisone dei valori il tema è di estremo interesse. La donna si occupava dell’educazione dei figli (anche maschi). Era dunque lei a trasmettere determinati valori, quantomeno nella primissima età. Anche se sappiamo che, quantomeno nell’aristocrazia, i monasteri avevano poi una funzione non irrilevante nell’educazione ed istruzione dei figli. Esiste poi una trasmissione ‘genealogica’ che l’idioma dell’onore ben rappresenta nell’accostamento che la ‘pubblica opinione’ fa tra la reputazione dei genitori e quella dei figli. Una trasmissione in cui la figura della madre era importante e nella quale valori culturali e biologici sembrano fondersi in un unicum. E così coraggio, virtù, pudore, moderazione, capacità di imporsi, etc. sembrano qualità ‘ereditarie’. Tant’è che l’aristocrazia le collegava alla discendenza di sangue e le riteneva comunque presenti tra i suoi membri, chiedendone il rispetto da parte dei ceti sottoposti. E nel suo ambito, il disonore della madre (raggiunto al massimo livello) veniva punito con il sangue, in quanto esso veniva trasmesso ai figli maschi (che sarebbero stati incapci di proteggere le loro donne) e nelle femmine (in cui si sarebbero riproposte le qualità negative delle loro madri).


Una questione di confini. di Claudio Povolo – martedì, 14 luglio 2009, 11:34

Sottopongo all’attenzione di chi ancora segue il forum, ma anche di chi già sta riflettendo sui temi proposti, un argomento di indubbio interesse. Numerosi antropologi hanno ripetutamente sottolineato come l’idioma dell’onore raccordi strettamente i confini sociali con i confini del corpo femminile. I confini del corpo fisico possono essere tracciati in ogni società in modo molto diverso. E sarebbe interessante pure riflettere sulle società attuali. Nel medioevo e nell’antico regime i confini erano rigidamente tracciati tramite un forte controllo sugli orifizi del corpo, in particolare di quello femminile. Era infatti tramite questi che venivano percepite le intrusioni esterne con rottura dei confini tracciati. L’onore femminile, nella sua complessa ideologia, definiva l’invalicabilità di confini che simbolicamente segnavano pure analoghi confini sociali. Il corpo femminile si costituiva come metafora di valori sociali e culturali assai rigidi. Da un lato, dunque, l’attenzione ( e la preoccupazione) nei confronti delle divisioni tra i diversi ceti sociali; dall’altro che, nell’ambito dello stesso ceto, fosse rispettata la dimensione sociale della famiglia o del gruppo. La difesa e la tutela del corpo femminile rappresentano la difesa e la tutela di questi valori che, come abbiamo ripetutamente visto, sono chiaramente evidenziati nella coesione e nell’integrità del gruppo patrilineare ed agnatizio. Ad incrinare questa evidente associazione intervenne il fattore della ricchezza. Il contrasto tra gerarchie dell’onore e gerarchie della ricchezza si catalizzava spesso nella rappresentazione stessa del corpo femminile, il quale finiva così per assumere un’esplicita dimensione politica. Era la donna a costituirsi, comunque e sempre, come veicolo di alleanze tra gruppi e lignaggi diversi. Tale veicolazione le conferiva una marcata dimensione politica. E che non si trattasse sempre di una veicolazione passiva lo si può constatare nelle numerose vicende che drammaticamente rivelano le tensioni che insorgevano tra la dimensione delle emozioni e quella dell’interesse.

Re: Una questione di confini. di Valeria Favretto – domenica, 19 luglio 2009, 10:14

  L’onore femminile e il corpo della donna sono dati da confini (che spetta all’uomo difendere) che a loro volta segnano l’invalicabilità di altri confini: sociali (onde evitare le mésalliances) e dell’integrità del gruppo cui la donna appartiene. Nel momento della cessione, infatti, la donna deve recare necessari prerequisiti fisici (l’integrità o illibatezza, requisito fisico segreto che deve avere delle manifestazioni fisiche esterne quali il rossore e l’atteggiamento casto) e psicologici (l’analoga integrità mentale) atti a garantire la trasmissione patrilineare.

La violazione del confine del corpo femminile reca, ovviamente, delle sanzioni che mi sembra siano di duplice natura. Da un lato, la sanzione determinata dalla legge: un procedimento giudiziario e una pena come abbiamo visto nelle suppliche. Dall’altro una sanzione sociale che però, paradossalmente, ricade sul maschio che non ha saputo tutelare la propria donna, mentre l’uomo che ha violato il confine e il corpo femminile aumenta il proprio onore-fama.

Inoltre, ogni società reca il proprio concetto di onore, e nella società cetuale di Antico Regime ogni ceto ha il proprio concetto di onore. Più si sale nella scala sociale, più aumenta l’onore dei componenti del ceto. Nell’aristocrazia onore è precedenza e si esprime in un rapporto in cui sembrare è più importante di essere. Lo status permette di manipolare la propria virtù perché nessuno dei ceti sociali inferiori potrà mai accusare un nobile di mentire. Ad esempio, la donna aristocratica del Settecento può comandare un maschio di ceto inferiore, può anche avere un comportamneto sessuale diverso da quello previsto: nessun maschio di ceto inferiore può sanzionarla poiché ella gode del potere del suo status. C’è quindi una forte discrasia fra onore come status e onore come virtù, onore come apparire e onore come essere.

Re: Una questione di confini. di Diana Bonsignore – lunedì, 20 luglio 2009, 09:42

  Leggendo l’intervento del Prof. Povolo mi è tornata alla mente l’interessante teoria proposta da Mary Douglas circa la relazione fra corpo umano e corpo sociale: ogni società tenta di tutelare, ovviamente in modo diverso in base al tempo e al luogo, la propria “purezza” dal pericolo di possibili “contaminazioni”. Quindi, il corpo sociale viene inteso come un’unità precisa con chiari confini paragonabile al corpo umano.

Ovviamente, ai fini delle nostre ricerche, più che di corpo in genere, si può parlare di corpo femminile.

Come al corpo femminile sono attribuiti certi confini fra il suo interno e il suo esterno, nel medesimo modo alle società vengono assegnati dei margini…tutto ciò che si pone al di fuori di questi ultimi, tutto quello che è diverso e straniero, rappresenta una fonte di pericolo perchè rimanda all’idea di sporco.

Tirando le somme, il modello del controllo sul corpo femminile, in special modo l’esigenza quasi maniacale di tutelarne gli orfizi, è una metafora del controllo politico poichè lo sporco (concetto culturalmente definibile e, per questo, soggetto a variazione di cultura in cultura) è, in primis, disordine, un caos incompatibile con il cosmos che l’individuo e il gruppo cerca disperatamente.

Le idee di contaminazione, quindi, sono funzionali al potere, hanno il ruolo di controllo sociale: da un lato chi non segue le regole e corre il rischio di contaminazione è mal visto poichè infrange le norme del gruppo e dall’altro mette in pericolo i membri della sua stessa comunità.

Inoltre, in rapporto all’esigenza (come dicevo, quasi maniacale) di tutelare il corpo, credo che sia utile accennare brevemente alla variazione, nella storia, del modo di concepire il corpo stesso: l’età classica considerava il corpo come un’entità aperta che includeva in sè anche gli elementi emessi dagli orfizi presenti nella parte inferiore del corpo. In questo periodo, il corpo era “accettato” nella sua naturale sensualità e mutevolezza. Piani piano, a cominciare dal Medioevo e, soprattutto, in Età Moderna, si impone la concezione di un corpo corruttibile e separato dall’anima. La parte superiore, ovvero la testa, viene ritenuta più meritevole e nobile di ciò che si trova sotto, cioè gli orfizi, che vanno controllati, repressi e, almeno culturalmente, nascosti.

In questa prospettiva, a mio avviso, gioca un ruolo importante anche la Chiesa: ad un certo punto, un pò come è accaduto per le manifestazioni di fede, la gerarchia ecclesiastica ha tentato di imporre una forma di interiorizzazione a fronte di una vistosa esteriorizzazione. Così, come sono state condannate alcune forme di religione, come ad esempio la figura della prefica (il fatto che, a livello di molte culture tradizionali, quest’ultima è sopravvissuta per molto tempo dimostra come la Chiesa si sia voluta imporre su un sentimento spontaneo e popolare…oppure, se vogliamo, con tutte le opportune differenze, possiamo affermare che certi tratti rimangono ancora e si possono evincere osservando il carattere “esteriore”, contraddistinto da grida e gesti esasperati, che sopravvive ancora in certi funerali nel meridione italiano), allo stesso modo, anche in relazione al corpo, la Chiesa ha tentato di diffondere un modello di interiorizzazione, di chiusura verso l’esterno e di ripiegamento sul sè.

Re: Una questione di confini. di Claudio Povolo – lunedì, 20 luglio 2009, 18:01

Mi sembra che gli interventi di Valeria e Diana dimostrino come la discussione e le lezioni siano state proficue. Si tratta di temi di fondo che rinviano, come è facile constatare, alla discussione inziale sulla storia di genere: una storia in grado di cogliere aspetti che, di primo acchito, sembrano non aggredibili da questo versante. E’ evidente che la contestualizzazione storica è non solo necessaria, ma presuppone sempre, da parte di chi ricerca e indaga, una messa a punto costante rispetto alle fonti con cui entra in contatto. La stessa dualità del termine onore suggerisce alcune osservazioni interessanti per il nostro corso. L’onore come virù rinvia esplicitamente alla dimensione sessuale e al controllo del corpo. Ma esiste anche la dimensione dell’onore inteso come status e precedenza sociale: in questo caso i valori che sono connessi tradizionalmente all’onore sono inesorabilmente manipolati. In tal caso la gerarchia dell’onore coincide con la gerarchia sociale. Chi è posto ai gradi inferiori, deve accettare come un dato di fatto la struttura gerarchica esistente e riconoscere il suo status inferiore. Avviene così una discrasia tra un codice d’onore che è dato come supposto e già acquisito (dalla nascita, dalla posizione sociale, ecc.) e una concezione dell’onore individuale data dalla consapevolezza di disporre di determinate virtù o requisiti. Il codice d’onore diviene così la base della precedenza sociale (che si riflette nei rituali e nelle cerimonie pubbliche, ad esempio). C’è dunque una stretta relazione tra onore e potere. Questo dato è maggiormente comprensibile se si rapporta alla questione della violenza e del rapporto tra onore e legge. Molte delle suppliche riportate nel corso lamentano una sostanziale violazione dell’onore, sia familiare che femminile, di seguito ad un’azione violenta. Il ricorso alla legge è sostanzialmente estraneo al codice d’onore: per il semplice fatto che chi ricorre alla legge dimostra apertamente, e di fronte all’opinione pubblica, l’affronto che ha subito e, necessariamente, la propria vulnerabilità e debolezza. Come, ad esempio nel caso del ‘tutore’, ricordato da Valeria in un suo precedente intervento. La compensazione legale (ottenuta tramite una sentenza) difficilmente sana una questione d’onore. Se ottenuta da chi è posto ai gradi inferiori della società, difficilmente si estrinseca in una vera e propria pena (nei confronti di un membro insignito di onore precedenza), ma si realizza molto spesso in un risarcimento economico. In tal caso la pronuncia giudiziaria non fa che attestare la preminenza gerarchica dell’onore-precedenza, e la compensazione economica non fa che sottolineare il dovere di compensare la giovane cui è stata sottratto l’onore sessuale. E nel caso di membri della stessa aristocrazia (sia offensore che offeso), colui che ricorre alla legge dimostra chiaramente di non essere in grado di aderire al codice d’onore (che presuppone una ritorsione anche violenta). Non a caso le antiche formalità del processo penale miravano non a punire, ma ad agevolare la ricomposizione tra eguali. Ed ovviamente anche nel processo civile. Il caso di Euriemma è significativo. Euriemma conduce una battaglia per vedere pubblicamente conclamata la sua legittimità. Non così le sue sorellastre. L’onore sottratto da Piero Saraceno alla loro madre non poteva ottenere ‘onorevolmente’ in cambio se non una compensazione monetaria che avrebbe potuto reimmetterle sul cosiddetto ‘mercato matrimoniale’. Questo dato è confermato dalla diversa collocazione sociale e conseguentemente dalla diversa posizione sul piano dell’onore. Julian Pitt- Rivers sottolinea il caso emblematico di Don Giovanni (Tirso De Molina) che si dichiara senza mezzi termini uomo d’onore. Una definizione criticata dai critici moderni che hanno visto in Don Giovanni un personaggio moralmente negativo e dal comportamento non in sintonia con il codice cavalleresco. In realtà, come sottolinea Pitt-Rivers, Don Giovanni è il tipico rappresentante della teoria aggressiva dell’onore e delle sue manifestazioni predatorie collegate alla mascolinità e al diritto di precedenza. le sue vittime sono quattro fanciulle vergini (e non donne adultere). Don Giovanni è un vero ‘scalp hunter’, è colui che ha umiliato altri uomini (padri e fratelli delle giovani) e se le sue vittime sono vergini, ciò attesta in realtà che egli non è disponibile a concedere la precedenza ad altri uomini. Inoltre, le quattro giovani, conoscendo la preminente condizione sociale di Don Giovanni, avrebbero dovuto sapere il suo ‘diritto di mentire’ o, per meglio dire, il suo diritto a porsi al di fuori delle consuete norme dell’onore. Con la sottrazione della loro verginità egli si è appropriato simbolicamente dell’onore delle loro rispettive famiglie. La relazione tra onore e potere è determinante e definisce la stessa intensità delle violazioni dei confini che delimitano il corpo femminile. Va pure rilevata un’altra sostanziale diversità nell’ambito delle gerarchie di potere. Nell’aristocrazia il concetto d’onore (collegato a quello di precedenza) tende a disprezzare quello legale: in quanto ai vertici della società l’aristocrazia si ritiene arbitra di ogni situazione e non ‘arbitrata’ e perciò al di sopra della stessa legge. Nella società di eguali, laddove la violenza s’impone e spesso è il requisito essenziale (anche se non socialmente approvato) per acquisire onore, la pretesa/dovere di non ricorrere alla legge è pure conclamato, ma non perché i suoi membri siano al di sopra della legge, bensì perché si sono posti al di fuori di essa. In tal caso la violenza manipola pure confini, che non sembrano delinearsi per i tratti fisici non in consonanza con i consueti canoni di bellezza. Come nella supplica ‘La passione e l’interesse’. In questa vicenda le argomentazioni del supplicante assumono indirettamente un tono di comicità. La ‘bruttezza’ della donna rapita diviene argomento persuasivo per indicare la brutalità della violenza compiuta. Esempio ulteriore della complessità delle dinamiche collegate all’idioma dell’onore.


partecipazione al forum di Valeria Favretto – mercoledì, 15 luglio 2009, 19:02

  Volevo segnalare al Prof. Povolo e ai colleghi che fino a venerdì incluso non potrò partecipare al forum, ma da sabato ci sarò di nuovo, e per tutta l’estate. Non chiudetelo! Grazie Valeria Favretto

Re: partecipazione al forum di Claudio Povolo – mercoledì, 15 luglio 2009, 22:07

Cara Valeria, non dipende da me, ma da tutti voi mantenerlo in vita… Sarebbe anche interessante un coinvolgimento tra di voi.

Re: partecipazione al forum di Diana Bonsignore – lunedì, 20 luglio 2009, 11:39

  No, no…il forum deve restare in vita!!!

Spesso, non trovandomi a Venezia, mi collego dal cellulare e posso solo leggere senza replicare, però, vi seguo sempre perchè è molto interessante!!!


Antropologia giuridica-relazione “Testi e Testimonianze” di Roberto Folin – mercoledì, 8 luglio 2009, 18:26

 testi_e_testimonianze.pdf

cordialità roberto


La testimonianza processuale di Claudio Povolo – martedì, 19 maggio 2009, 01:02

La testimonianza processuale si costituisce come punto di riflessione interessante anche nell’ambito di vicende che interessano, più da vicino, la gender history. La distinzione tra penale e civile è evidentemente d’obbligo, anche se, va ricordato, pure le ritualità penali più severe sono comunque contraddistinte dalla presenza di testimoni esplicitamente nominati dalle parti per sostenere una loro visione della verità. La testimonianza processuale ha comunque una pluralità di dimensioni.

C’è una dimensione giuridica della testimonianza: i giuristi di diritto comune si preoccupano di definirne le tipologie e l’utilizzo processuale. Un aspetto interessante che definisce una sorta di catalogo che molto dice sugli stessi valori culturali di una determinata società. E da questo catalogo appare che la testimonianza femminile è teoricamente sottovalutata. Nella prassi si può comunque notare come essa sia ampiamente utilizzata. La testimonianza femminile, in questa dimensione, sembra accostarsi al pettegolezzo, alle voci di strada, a quella tipologia definita de auditu che i giuristi ritengono non possieda valore probatorio. Nella realtà è la voce cui il giudice presta spesso ascolto per indirizzare le sue indagini (nel penale). Di converso è ipotizzabile che gli avvocati fossero cauti nell’utilizzarla nei procedimenti civili, per non inficiare il valore dei capitoli presentati dalle parti.

C’è una dimensione sociale della testimonianza: in un processo essa disegna reti di relazioni e rapporti personali. Se non si ha il sostegno della comunità (o prestigio sociale) è difficile disporre delle testimonianze adeguate. Sotto questo profilo la testimonianza disegna pure lo spessore sociale del conflitto in corso (sia penale che civile). Un esempio di ciò è dato dal processo che vede come protagonista Caterina Corradazzo.

C’è una dimensione culturale e antropologica della testimonianza. Per quanto ingabbiata (soprattutto nel civile) dagli obbiettivi delle parti in conflitto, essa utilizza espressioni semantiche e rinvia a codici culturali diffusi. In questo senso è interessante valutare le specificità della testimonianza femminile. Nel conflitto in cui la protagonista è Euriemma Saraceno, le testimoniazna sono interessanti sotto questo profilo, in quanto vertono sul presunto matrimonio segreto di Trivulzaia Brazzoduro.

C’è una dimensione più squisitamente probatoria della testimonianza. Essa deve provare qualcosa che è avvenuto nel passato. Si distingue così dal documento scritto anche, se di per sè, gli intenti probatori sono analoghi. La testimonianza si rifà ad un evento del passato (indizio). Questo è un aspetto importante nel penale, dove è più evidente la ricerca di una verità. Nel civile l’elemento probatorio si costituisce soprattutto nella sua dimensione storiografica: rivela scelte, esclusioni, criteri di valutazione. Aspetto tanto più importante, in quanto il giudice non si attiva nel ricercare autonomamente una verità, ma deve muoversi alla luce di una ricostruzione storiografica che deve essere ovviamente accettabile e credibile. Si legga a questo proposito, nel processo Saraceno, le controrepliche degli avvocati di Euriemma alle obiezioni sollevate dagli avvocati di Ludovica Ghellini.

C’è, infine, una dimensione più propriamente processuale della testimonianza. Il processo civile si costituisce in capitoli (punti argomentativi) su cui i testi sono chiamati a deporre la loro verità. Di verità, teoricamente, deve trattarsi, ma come si diceva prima, frutto di una scelta. Si veda il famoso capitolo presentato da Euriemma (oppure quelli dei fratelli Corradazzo) e gli avvertimenti che i suoi avvocati rivolgono al giudice (il vicario pretorio). E’ dunque il capitolo a rivelare le scelte di campo e le strategie delle parti. In questi capitoli dimensione giuridica e dimensione processuale interagiscono strettamente. Ovviamente i capitoli devono interagire in accordo con le testimonianze. Nella seconda escussione dei testi presentati da Euriemma nel 1609 mi sembra che le testimonianze (anche perché sollecitate dal giudice) siano più frammentate nel racconto, di quanto non lo erano state nel 1604.

Ovviamente il discorso sulla testimonianza può essere ulteriormente approfondito (e complicato), ma questi punti mi sembrano, di per sè, già interessanti per la discussione.

Re: La testimonianza processuale di Valentina Dal Cin – martedì, 19 maggio 2009, 13:10

  La tematica della testimonianza processuale mi sembra sottolineare quanto diceva il professore come introduzione al corso circa le “rappresentazioni”. In effetti se la verità sullo svolgimento dei fatti è una, molteplici sono le versioni che ne vengono date dai testimoni chiamati a dire la loro su di una specifica questione.

Nel caso di Caterina poi la questione mi sembra ancor più importante dato che le testimonianze processuali vertono non soltanto sull’accertamento di questioni fattuali, ma anche sull’accertamento dell’effettiva prassi giudiziaria vigente in loco (che è un po’ il cuore di tutta la vicenda).

I testimoni citano infatti la controversia giuridica di un’altra ragazza portata davanti ai due consigli degli anziani di Forni di Sopra e di Sotto, e dunque ciò che riportano si configura come una sorta di “precedente”, che può far luce sulla prassi giudiziaria delle due comunità.

Un “precedente” la cui importanza è rivelata del tentativo dei testimoni delle due parti di volgerlo ciascuno a proprio favore, di darne la propria “rappresentazione”, ricordando un aspetto piuttosto che un altro, cosa facilitata dal carattere compromissorio della risoluzione del conflitto.

Re: La testimonianza processuale di Claudio Povolo – martedì, 19 maggio 2009, 23:23

Valentina ha colto nel segno: le testimonianze, pur considerate nelle varie dimensioni da me sommariamente indicate, si configurano soprattutto per le loro potenzialità nell’inserirsi nel campo delle rappresentazioni. I fatti, considerati empiricamente, sono rilevanti nella misura in cui i testimoni assegnano loro valori simbolici e culturali che li racchiudono. Si vedano, per questo, le testimonianze escusse nel 1609 sulla legittimità di Euriemma. Concordo anche per quanto concerne il processo Corradazzo, la cui complessità è insita nelle rappresentazioni veicolate, ma anche nella casistica utilizzata dai testimoni.

Re: La testimonianza processuale di Diana Bonsignore – giovedì, 21 maggio 2009, 12:34

  Trovo molto interessanti gli interventi del Prof. Povolo e di Valentina. La testimonianza, sicuramente, è un prodotto culturale e, come tale, viene “costruita” dall’individuo. Infatti, volendoci soffermare sul piano antropologico (se pure, alla fine, tutti i piani finiscono per fondersi insieme), possiamo osservare come un medesimo fatto, se osservato da diverse prospettive, non solo mostra significati differenti, ma, addirittura, sembra modificarsi proprio…il testimone, anche in buona fede, non potrà evitare di raccontare la “sua” storia. Questi, in maniera più o meno implicita, deciderà di soffermarsi su alcuni dettagli e, viceversa, di ometterne altri. Tutto ciò accade proprio perchè la testimonianza è un prodotto culturale, una determinata angolazione, fra le tante possibili, da cui si osserva il fatto. La realtà non è una sola ma vive nelle svariate rappresentazioni che creiamo (persino un video cela la scelta di un punto in cui si pone la telecamera).

Nel caso Corradazzo, inoltre, tutto questo è complicato dal fatto che, al di là delle rivendicazioni di Caterina, vengono chiamati in causa altri motivi che, ovviamente, incidono sulla sensibilità dei testimoni: prima ancora di capire se a Caterina spetti o meno quello che coraggiosamente chiede agli zii, bisognerebbe appunto analizzare lo scontro fra le consuetudini di Forni e “la legge ufficiale imposta dall’alto”. E’ facile, facilissimo, che un individuo “usi” la propria voce a favore di un altro se, nelle sue rivendicazioni, trovi un’espressione di ribellione a quella che considera una sorta di acculturazione forzata. Quindi, i testimoni scelti da Caterina argomentano le motivazioni della giovane (anche ricordando un altro caso), probabilmente, prima ancora che per senso di giustizia o affini, per ribadire il sentimento di rifiuto verso una cultura (quella dei giuristi dotti-ufficiali) sentita come estranea, lontana, altra…il testimone, a mio avviso, quando chiamato in causa, implicitamente, allontanerà momentaneamente dalla sua mente il singolo avvenimento e, nel suo racconto dei fatti, nel rispondere alle domende che gli si porgono, autonomamente, darà spazio a delle considerazioni che tenderanno a riallaccirsi, a livello più ampio e generale, alla sua visione del mondo. Nel caso Corradazzo, allo scontro fra tradizione/innovazione, cultura tradizionale/cultura ufficiale, ceti subalterni/ceti egemoni, campagna/città etc.

Re: La testimonianza processuale di Elisabetta Savarese – venerdì, 22 maggio 2009, 09:41

  per quanto riguarda le testimonianza processuali trovo molto interessante il loro carattere “culturale” ovvero portatore di determinati valori apparentemente contrapposti.

un chiaro esempio di questo mi sambra, come e’ stato già accennato, il caso di euriemma.

in questo processo si assiste, se così si può dire, a un vero e proprio gioco delle parti: da una parte infatti, quella di euriemma atta a provare la validità del matrimonio dei suoi genitori, assistiamo da parte dei testimoni chiamati a deporre alla messa in scena di una diversa sensibilità per quanto riguarda il tema del matrimonio segreto, in cui il ruolo del garante, del testimone e al tempo stesso del giudice spetta alla “pubblica voce”, al ruolo demandato alla comunità.

dall’ altra parte si assiste all’ altro gioco delle parti impersonato dal lignaggio saraceno, ancorato alla logica dell’ unità familiare e alla legge che questo principio dovrebbe difendere.

interessante infine notare l’ esito non scontato del processo: quale potrebbe essere stata la logica sottostante la decisione dell’ autorità veneziana?

Re: La testimonianza processuale di Roberto Folin – giovedì, 11 giugno 2009, 09:07

Vorrei riprendere il tema delle testimonianze con particolare riferimento alla testimonianza femminile. E’ fuori dubbio che, nel tempo, la distinzione di genere è stata applicata anche a questo ambito del processo sia civile che penale, ove appare più evidente, e la vastità anche temporale attraverso cui si esprime mi riconduce a produrre solo alcuni esempi sintomatici di come il valore della  la testimonianza femminile sia sempre stato costretto da leggi che rispecchiavano la forza di società maschiliste.

Curiosando tra queste ritengo interessante produrre all’attenzione del forum quanto recita al riguardo il cosìdetto “Codice di Manu” . Manu è l’equivalente indiano di Noè e il codice una raccolta di leggi Hindu risalenti all 100 d.c. e quindi contemporanee alla nostra età imperiale; esso contiene una meticolosa normativa sulla testimonianza (mi riservo di rintracciare l’intero codice e verificare anche altri aspetti confrontandoli con  le nostre legislazioni) dove risaltano i motivi di esclusione o di limitazione del valore delle deposizioni che erano ammesse solo se fatte da capi famiglia con figli maschi (prima esclusione delle donne). E’ pur vero che l’esclusione non colpisce solo la differenza di genere, recita infatti un passo del codice : “…NON un uomo soggetto altrui, non uno di cattiva fama, o colui che esercita una professione crudele, non colui che si dedica ad occupazioni proibite, non un vecchio non un fanciullo (curioso questo aspetto che proibiva al fanciullo la testimonianza solo per la sua incapacità legale a proferire giuramento non perchè inaffidabile), non un uomo appartenente ad una classe mista, non colui i cui organi sono indeboliti, non un pazzo, non un uomo che soffra  la fame ed il freddo, non uno spossato dalla fatica, non un innamorato, non un collerico, non un ladro.” quindi motivi di esclusione dove nonconta il genere; ma, poi,  per quanto ci riguarda il codice prevede “che le donne debbano testimoniare solo per le donne”   e, ancora più significativamente,  “…che  la testimonianza unica di un uomo esente da cupidigia è ammissibile in certi casi, mentre quella di un gran numero di donne, anche oneste non lo è a cagione dell’incostanza del loro spirito, non più di quella degli uomini che abbiano commesso delitti,,; si esclude la testimonianza della donna alla pari di quella dell’uomo delittuoso, è sufficiente l’appartenenza al genere per essere parificate ad assasssini o ladri!!!

facciamo ora un salto di una una decina di secoli e toriniamo in Europa per verificare come le cose non siano molto dissimili dall’India del primo secolo d.c. prendendo atto dell’affermazione canonica che segue: “varium et mutabilem testimonium semper foemina producit “; e ancora il nosto salto in lungo temporale ci conduce al XVI secolo ed  alle riflessioni di Farinacio, uno dei più importanti giuristi dell’epoca : “foeminam mendacem, fallacem, periuram, dolosam, mutabilem, fragilem, variam, corruptibilem et his similiam et antiqui et moderni humanarum et legalium litterarum interpretes, undique communiter exlamant”, SIAMO USCITI DALLA GIURISPRUDENZA ED ENTRATI NELLA MISOGINIA A QUANTO PARE!!. Neanche la svolta illuministica risolverà il problema e dovremo attendere il XX° secolo per poter garantire in questo ed altri campi alla donna una qualche forma di parificazione.

A questo punto però, calandomi nelle vicende del corso , mi corre una riflessione in controtendenza: leggendo le testimonianze offerte nella vicenda di Euriemma da uomini e donne al vicario podestarile di Vicenza, non riesco (e vorrei sottoporre questo aspetto al contributo del professore e dei colleghi del forum) a trovare momenti di disparità patenti.

L’esaminatore formula le domande in termini identici, le risposte, talora, come ovvio, diversificate sul piano dei contenuti, risultano discretamente omogenee sul piano formale e la sensazione che ho avuto, con uno sforzo di fantasia, è che il livello di credibilità non variasse in funzione del genere, ma di ben altre variabili (parentela, amicizia profonda, “de auditu”, ecc).

Non siamo storicamente distantissimi dall’espressione misogina di Farinacio eppure…………avrei piacere di sentire il parere del forum al riguardo

grazie e saluti Roberto

Re: La testimonianza processuale di Claudio Povolo – martedì, 16 giugno 2009, 23:32

Cerco di rispondere ai dubbi di Roberto in merito alla testimonianza femminile.

La testimonianza femminile ha di certo una dimensione giuridica peculiare, che trae i suoi significati da stereotipi e valori culturali diffusi. I giuristi sottolineano senza esitazioni il minore valore della testimonianza femminile. Se, come si è già osservato, la testimonianza è la prova tramite cui si ricrea nel presente l’indizio, appare evidente che al genere femminile, quantomeno sul piano formale, viene assegnata una minore capacità probatoria. Stereotipi diffusi accompagnavano la valutazione dei giuristi: il cosiddetto sesso debole era caratterizzato dalla superficialità e soprattutto dall’estrema volubilità di carattere.

Ma era questa la realtà, o per meglio dire la prassi? C’è un’effettiva differenza tra la testimonianza maschile e quella femminile? Se ci atteniamo alla documentazione riprodotta nel sito (mi riferisco alla vicenda di Euriemma), colpisce innanzitutto come la testimonianza femminile svolga un ruolo non indifferente e pari a quella maschile. Nel senso cioè che le donne sono chiamate a testimoniare sul capitolo presentato dagli avvocati di Euriemma senza alcun problema. Verrebbe da dire, anzi, che su alcune questioni sono meglio informate. Più inserita nelle reti di relazioni connesse al vicinato la donna per lo più disponeva di una serie di informazioni precluse al mondo maschile.

Dipende forse da ciò il minor valore giuridico assegnato alla testimonianza femminile (nel senso cioè che il gossip la rendeva meno attendibile)? Non direi, nel momento soprattutto in cui si coglie come nella prassi giudiziaria sia ampiamente utilizzata. Lo scarto sul piano giuridico riflette probabilmente i più diffusi pregiudizi sociali e nel contempo tende a contenere l’incidenza della dimensione femminile sul piano probatorio in contesti in cui la stessa dimensione giuridica si avvaleva di un linguaggio impostato secondo i criteri della patrilinearità, dell’agnazione e della preminenza del lignaggio maschile. E’ come dire che la realtà formale era colta secondo una rappresentazione culturale che rifletteva, più che gli stessi pregiudizi maschili, la necessità di mantenere coese determinate strutture sociali, come la famiglia, incentrate su una visione del mondo (per motivi economici, politici) essenzialmente percepita dagli occhi maschili.

Re: La testimonianza processuale di Roberto Folin – mercoledì, 8 luglio 2009, 18:23

 testi_e_testimonianze.doc

Inserisco la mia relazione su “Testi e Testimonianzze” con qualche ritardo dovuto al fatto che opero “in trasferta ” da un Internet Point ove ho avuto qualche problema.

Cerco ora diinserirla anche come argomento a parte e gradirei le osservazionie critiche dei colleghi di corso per affinare l’argomento (la risposta non sarà immediata dipende dalla disponibilità dall’IPoint)

Ringrazio il prof. Povolo e tutti i compagni per la bella espierienza ed auguro a tutti buone vacanze (tra un intervento e l’altro)

Roberto


antropologia giuridica relazione di Elisabetta Savarese – lunedì, 6 luglio 2009, 09:31

 POVOLO.doc

vi mando in allegato la mia tesina come gentilmente richiesto dal professore. spero non troverete troppi errori!


La contaminazione di Claudio Povolo – martedì, 30 giugno 2009, 00:45

Nel punto 13 inserito di recente, la documentazione, pur nella varietà delle storie raccontate, è contraddistinta dal tema dell’onore. Si tratta dell’onore della famiglia, del marito, del padre, del tutore, ecc., ma sempre comunque ‘depositato’ simbolicamente nella figura, o meglio potremmo dire, nel corpo della donna. La donna incarna in sè un onore che potremmo definire ‘sociale’, in quanto la sua rappresentazione non è mai semplicemente individuale, ma si rapporta significativamente nel contesto esterno. Corpo individuale femminile e corpo sociale sembrano essere strettamente in relazione. La documentazione è però interessante anche perché le storie raccontate lo sono secondo una percezione maschile. Le donne sono protagoniste – sembrerebbero passive – ma la percezione della contaminazione che avviene nei confronti del loro corpo è essenzialmente maschile. Il tema della contaminazione esprime il fallimento della custodia da parte del maschio nei confronti della donna ‘protetta’. Si tratta di una contaminazione fisica che ovviamente si esprime però in tutta la sua rilevanza per la contaminazione simbolica che assume di fronte al corpo sociale. Potremmo pure dire che la contaminazione della persona fisica (considerata sacra nella dimensione dell’onore) assume rilevanza solo se rappresentata pubblicamente. Se mantenuta nella segretezza essa non è socialmente deflagrante. Nelle società dominate dall’idioma dell’onore esiste infatti un’ossessione nei confronti del nascosto. E non a caso l’onore femminile è contrassegnato sia dall’integrità fisica (la verginità), ma anche dai segni esteriori che devono convalidarla all’esterno (pudore, rossore, comportamento modesto, ecc.).

Re: La contaminazione di Valeria Favretto – mercoledì, 1 luglio 2009, 18:02

  Da queste suppliche si nota chiaramente che l’onore-disonore passano attraverso il corpo della donna ed acquistano una dimensione corporea: si trasmettono al gruppo e lo contaminano.

Ne LA DONNA IMPUDICA la vedova ha un atteggiamneto manifestatamente impudico e il supplicante sottolinea che, di conseguenza, l’educazione dei figli non può che essere analoga.

Ne L’ONORE DELLA FAMIGLIA il disonore subito dalla ragazza si diffonde a tutta la Casa, in particolare ai maschi, anche se parenti acquisiti. In questo caso il disonore è ulteriormente insostenibile perché si tratta di due nobili che esigono maggiore rispetto.

Allo stesso modo ne L’INGANNO è lo zio della ragazza che si ritiene “ingannato, disonorato e violentato” attraverso il corpo della nipote: è per la sua fama violata che chiede aiuto alla XL.

A tal proposito mi sembra particolarmente interessante la supplica IL TUTORE, specie la seconda parte mi sembra ricca di parole pregne di significato. Metello non è stato in grado di tutelare l’onore delle cognate. Il gruppo del marito di Hieronima entra nelle sue terre e si prende i frutti del suo lavoro, entra addirittura in casa sua con un notaio per fare l’inventario di ciò che spetta a Hieronima, beni che il marito tratta come cosa sua. Metello è trattato senza alcun rispetto né onore: il disonore subito dalle cognate a causa della sua incapacità di tutelarle, ricade su di lui e ciò autorizza i rivali ad attaccarlo costantemente e a dissacrarlo pubblicamente.

Re: La contaminazione di Claudio Povolo – sabato, 4 luglio 2009, 01:45

Valeria ha sottolineato il punto essenziale che emerge da quasi tutte le suppliche: la contaminazione è veicolata esclusivamente tramite il corpo della donna. I casi riportati, pur filtrati dei toni volutamente drammatici elaborati dagli avvocati, esprimono comunque come la donna non convenientemente protetta scateni tensioni e conflitti. C’è da chiedersi come la società dell’epoca potesse tollerare simili evenienze. Appare evidente che la ‘normalità’ era altra e garantita probabilmente da una serie di equilibri sociali incentrati sulla parentela. Se si osserva bene, difatti, in molte delle suppliche la violazione nei confronti del corpo o della persona della donna avviene in contesti familiari e parentali che hanno subito delle fratture e sono tendenzialmente deboli rispetto all’attacco esterno. Altro aspetto da rilevare è inoltre che l’onore sottratto al maschio tramite la contaminazione del corpo femminile si costituisce come capitale simbolico che accresce l’onore della parentela autrice dell’intrusione o della violazione.


Palazzo delle trombe di Claudio Povolo – lunedì, 8 giugno 2009, 23:26

Il sopralluogo compiuto sabato 6 giugno, con l’aiuto competente del prof. Guido Beltramini, che ringraziamo vivamente, ci ha portato direttamente a contatto con i luoghi in cui si svolge la tormentata vicenda di Euriemma Saraceno e Trivulzia Braccioduro. In particolare la visione di Palazzo delle trombe spinge ad alcune osservazioni. Come osservava Guido Beltramini, il modulo del palazzo è decisamente cittadino (potrebbe essere raffrontato con alcuni analoghi palazzi cittadini). Ne è indice, la sua imponenza, un certo stile ricercato, ma soprattutto il linguaggio simbolico che è sotteso alla sua architettura. Esso rivela al massimo grado l’espressione del lignaggio che l’ha costruito. Un palazzo però che emerge per il suo isolamento, che ne sottolinea a dismisura l’imponenza; ma anche per i più contenuti fabbricati annessi che lo delimitano  a semicerchio. Si tratta dunque di un palazzo che non intendeva di certo nascondere la provenienza sociale dei suoi proprietari, anzi la enfatizzava al massimo grado in un territorio caratterizzato da un sistema fondiario accentuatamente nobiliare. Mentre i fabbricati annessi sottolineavano contraddittoriamente come il palazzo stesso si costituisse come nucleo di una vasta azienda agricola. Sappiamo dalle vicende di Euriemma, che il suo proprietario di fine Cinquecento vi abitava quasi costantemente. Pietro Saraceno vi poteva condurre una vita di certo non irreprensibile nemmeno per i moduli culturali del suo tempo. E’ il mondo della campagna, come avviene anche per casi analoghi, a sottolineare il suo carattere di ‘uomo terirbile’. Un uomo che poteva comunque gestire una vita famigliare, alquanto desueta in città: oltre alla sfortunata  Trivulzia Braccioduro, con la figlia Euriemma, nel palazzo convivono anche una sua ‘concubina’ con le rispettive figlie. Probabilmente un vero rapporto d’amore, quest’ultimo. Palazzo delle trombe sembra trasudare, anche dalle sembianze che sono giunte sino a noi, quel mondo lontano e i suoi stessi protagonisti che abbiamo imparato  conoscere dalle carte d’archivio.

Diversamente la villa palladiana di Biagio Saraceno iunior ha un’impronta cittadina che sembra rivendicare la sua estraneità al mondo rurale circostante. O, per meglio dire, sembra dominarlo dall’alto dei suoi moduli culturali e architettonici, senza venire a patti. Essa rappresenta, di certo, i nuovi valori ideologici della nobiltà che rivendica l’appartenenza cittadina, la superiorità dello status sociale, privo di qualsiasi commistione col mondo rurale circostante. Permette di viverci senza subirne la contaminazione che traspare invece da Palazzo delle trombe. E’ pure isolata, la villa palladiana, ma la sua estraneità al mondo circostante ricorda palesemente non tanto la preminenza del lignaggio (che invece incalza dietro ai moduli architettonici di Palazzo delle trombe), ma di quella del mondo cittadino, di cui la famiglia aristocratica è ora espressione élitaria.

Re: Palazzo delle trombe di Andrea Busato – giovedì, 11 giugno 2009, 13:02

Premetto che sono un profano assoluto di storia dell’architettura e quindi mi sto imbattendo in un campo a me ostico. Ma con la stupenda spiegazione del professor Beltramini sono riuscito a comprendere in parte il valore dei palazzi che abbiamo visitato. Entrambi molto interessanti, ma quello che mi ha colpito di più, per le sue forme e magnificenza è stata villa Saraceno. Una villa imponente che, come ha bene scritto il professor Povolo, è estranea al contesto rurale circostante di cui sembrerebbe non volerne fare parte. Costruita per rivendicare la superiorità del mondo che rappresentava sul mondo contadino, il quale, come ha detto Beltramini quel giorno, poteva porre la villa come punto di riferimento, laddove in caso di problemi poteva trovare in questa sede un aiuto, una soluzione. Mi ricordo che è stato anche avanzata l’ipotesi che villa Saraceno potesse essere solo un simbolo per la famiglia Saraceno, una residenza di rappresentanza, quindi secondo me rappresenta uno sfizio di famiglia, tanto per far vedere chi comanda, chi ha il denaro e il potere. Forse questa villa si potrebbe collegare alle ville costruite dai nobili veneziani lungo la Riviera del Brenta, anch’esse simbolo di potere e prestigio, oppure questo è un paragone che non s’ha da fare tenendo conto delle diverse caratteristiche dei rispettivi proprietari, nobili veneziani da una parte e nobili di terraferma dall’altra. Concludo questo mio intervento ringraziando tutti per la magnifica giornata passata insieme.

Re: Palazzo delle trombe di Claudio Povolo – giovedì, 11 giugno 2009, 19:37

Credo che il confronto ipotizzato da Andrea sia perfettamente legittimo, anche se, nel caso del patriziato veneziano, dobbiamo considerare alcune altre variabili. Le ville patrizie, incontestabilmente, rivelano (si ricordava la Riviera del Brenta) il loro timbro di villeggiatura. E così sono vissute dai loro proprietari nel corso del Settecento. Mi sembra però che sia diverso il rapporto che si instaura tra città e campagna nel mondo della Terraferma. Ancora oggi per i veneziani, attraversare il ponte della libertà, viene spesso accompagnato dall’espressione ‘andare in campagna’. E’ il mondo della Terraferma nel suo complesso a costituire una sterminata e uniforme campagna. Rappresentazione di quella città dominante che si poneva nei confronti del resto dello stato con un atteggiamento di superiorità, ma anche di distacco culturale e sentimentale: quasi a voler sottolineare la specificità veneziana e le sue origini marinare. E che altro può essere la Terraferma, per il patrizio, se non un luogo di villeggiatura? E la sua villa in fondo costituiva il riconoscimento di questa superiorità, intrisa di paternalismo e di distacco. Ben diverso il rapporto della villa del nobile di terraferma, di cui l’aristocrazia vicentina costituisce un esempio alquanto peculiare. La villa rappresenta qualcosa di più della semplice villeggiatura. Nel palazzo delle trombe i moduli culturali sembrano essere più tradizionali, in quanto il predominio che viene esplicitato è innanzitutto quello del lignaggio: un lignaggio che individua il suo potere nella superiorità cittadina (sancita sin dal Basso Medioevo, dalla preminenza dei suoi statuti e da un controllo istituzionale del territorio tramite i vicariati), ma che trae le sue origini e parte stessa della sua identità e della sua cultura dal mondo rurale. E’ la casa domenicale, che pure in palazzo delle trombe sembra esplicitare chiaramente la superiorità del lignaggio Saraceno e la dimensione del suo potere sancito dalla città. Nelle ville palladiane non sembra neppure essere il tema della villeggiatura quello predominante; e pure non mi sembra che nella stessa villa palladiana si voglia esprimere, di per sè, l’emblema stesso del lignaggio. Direi piuttosto che si esplicita nei progetti palladiani una dimensione classica, che ingloba in sè, necessariamente una dimensione culturale che è ben più ampia di quella del lignaggio e dei suoi più che evidenti legami con il territorio. E’ la città, nel senso più ampio del termine, a sovrastare ideologicamente dietro il modulo palladiano. Una città che rappresenta al massimo livello una superiorità nei confronti del contado e che si individua bene nei nuovi criteri di nobiltà che si stanno affermando in tutta Italia. Una superiorità che, a ben vedere, suggerisce però anche una distanziazione che proviene dal fatto che il contado non si identifica più con quella campagna così rassicurante su cui i lignaggi potevano tranquillamente estendere il loro predominio e un concreto esercizio dle potere. Ora il contado è assai meno rassicurante: l’emergere di famiglie economicamente visibili, di homines novi che tendono a riprodurre i paradigmi culturali dell’onore e che non sono così disponibili ad accettare i tradizionali rapporti  di clientela. La villa palladiana esprime così una superiorità, ma anche il distacco culturale che si vuole sempre più marcare rispetto al contado. Essa vuole rappresentare il distacco incolmabile (sul piano culturale e politico) rispetto a chi, nel contado, non è più così prono ad accettare i tradizionali rapporti di forza.

Re: Palazzo delle trombe di Valentina Dal Cin – venerdì, 12 giugno 2009, 16:04

Anch’io vorrei ringraziare tutti per la visita del 6 giugno, e vorrei aggiungere qualche considerazione sulle abitazioni protagoniste delle vicende da noi esaminate.

Soprattutto mi sembra interessante il legame che si instaura tra il lignaggio e la sua dimora, intesa come un veicolo tramite cui proporre una determinata rappresentazione di sé verso l’esterno.

Proprio questa necessità della “rappresentazione”, mi sembra un aspetto dominante nella logica delle famiglie nobiliari.

Credo che questo possa essere messo in rapporto con il fatto che nel ‘500 la nobiltà inizia a fissarsi sempre di più come un ceto chiuso e ben definito. Non che non lo fosse anche in precedenza, ma in quest’epoca inizia ad esserlo in modo codificato: basti pensare alle leggi che regolano l’accesso ai vari Consigli cittadini (mi riferisco qui a quanto contenuto nel volume di A.Ventura “Nobiltà e popolo”). Se in precedenza si diceva che fosse la virtù dell’individuo a determinarne la nobiltà, ora i teorici affermano come sia la nobiltà stessa ad essere intrinsecamente portatrice di virtù. Dunque, una piena legittimazione del principio ereditario, secondo cui la nobiltà sta nel sangue.

Da qui l’importanza crescente della famiglia e delle relative dinamiche matrimoniali e successorie, come mezzo di trasmissione del sangue (e dunque, come si è visto, la diffusione di istituti quali federcommessi e maggior nati).

E da qui anche l’importanza degli ascendenti, oltre che dei discendenti, con la conseguente diffusione delle cronache familiari e delle genealogie, in cui il culto degli antenati (spesso anche fantasiosi) risponde ad una precisa esigenza di tutela del rango.

A mio avviso, il caso della genealogia, così come quello della costruzione di una determinata dimora, sono entrambi parte di questa esigenza di auto-rappresentazione da parte delle famiglie nobiliari.

Un’auto-rappresentazione che ha un valore politico.

Infatti, se ci si trova in un’epoca in cui i criteri di appartenenza all’aristocrazia cominciano a diventare più rigidi, escludendo coloro che hanno professato “arti vili e meccaniche” (non c’è al contrario esclusione per censo, che nei Consigli cittadini risale a inizio XVIII secolo, anche se nel XVI secolo la ricchezza è comunque un requisito importante) mantenere il proprio rango diventa fondamentale. Il rango, e tutto ciò che ad esso è legato, è infatti fondamentale in una società in cui il potere politico è ancora legato ad una gerarchia dell’onore.

Re: Palazzo delle trombe di Claudio Povolo – sabato, 13 giugno 2009, 01:39

Non posso che essere pienamente d’accordo con Valentina. Se il procedimento di analisi è il lignaggio in tutte le sue forme di rappresentazione, gli spunti di analisi sono molteplici e suggeriscono le forti interrelazioni tra le diverse discipline. E in fondo, a ben guardare, il lignaggio è un aspetto importante di quella storia di genere di cui parlavamo nella prima fase del forum. Pensate al tema della ‘fama’ (elemento maschile) della riproduzione del sangue (elemento femminile), dei patronimici, delle varie forme di parentela, del suo onore e del suo retroterra economico…

Re: Palazzo delle trombe di Paola Caldognetto – mercoledì, 17 giugno 2009, 11:12

  Credo si possa considerare un’altra prova dell’importanza della rappresentazione per i lignaggi, quanto detto dal Prof. Guido Beltramini riguardo i materiali usati per la costruzione di villa Saraceno.

Villa Saraceno è una delle opere giovanili di Palladio, il quale sperimenta l’utilizzo non di pietre preziose ma materiali poveri quali mattoni e intonaco. L’intonaco veniva quindi segnato con un chiodo per dare l’impressione che si trattasse di pietre sovrapposte.

Questo consentì un notevole risparmio per i committenti, oltre che per il costo della pietra, anche per la sua lavorazione. Palladio fu capace di conferire dignità e magnificenza alla facciata usando semplicemente un’orchestrazione di finestre, frontoni e logge arcuate.

Con questo non voglio certo “fare i conti” a Biagio Saraceno, ma credo sia sintomo dell’importanza dell’apparenza e del suo linguaggio simbolico: si desiderava un forte impatto indipendentemente da come esso venisse ottenuto.

Azzardo inoltre un’ipotesi balenatami grazie al confronto con le ville di villeggiatura dei nobili veneziani discussa da Andrea e il professore.

Le ville dei vicentini non erano propriamente di villeggiatura, rappresentavano l’ostentazione del loro status insieme alla funzionalità di curare vasti possedimenti fuori città. E’ per questo che generalmente un nobile possedeva un palazzo in città e una villa in campagna… anche Biagio Saraceno aveva un palazzo in città e una villa in campagna, Palazzo delle Trombe, vicino alcuni dei suoi possedimenti. Perché costruirne una seconda così vicino?

Ebbene:

· forse voleva dare un’identità maggiore alla sua figura, posando una nuova pietra miliare nel corso del suo lignaggio;

· … o forse, più semplicemente, Palazzo delle trombe non rappresentava abbastanza il lignaggio e la carica di spessore raggiunta in città.

Ma non si trattò di un progetto ex-novo, Andrea Palladio è chiamato da Biagio Saraceno ad intervenire a Finale di Agugliaro su una corte agricola preesistente, da tempo di proprietà della famiglia. È possibile che il progetto prevedesse una ristrutturazione complessiva dell’insieme: nei Quattro Libri Palladio presenta l’edificio serrato fra due grandi barchesse ad angolo retto. Sta di fatto che una risistemazione globale non fu mai effettuata e l’intervento palladiano è circoscritto al corpo padronale: sul lato destro della corte gli edifici sono ancora quattrocenteschi, mentre la barchessa viene costruita all’inizio dell’Ottocento.

Vuoi vedere te che quando Biagio vide il risultato della villa padronale non gli piacque (esteticamente?, funzionalmente?…) e fu per questo che non vi andò ad abitare??? La ristrutturazione richiesta ad un architetto innovativo, noto ma ancora non famoso e richiesto come lo sarebbe stato anni dopo, lo aveva forse deluso?

Re: Palazzo delle trombe di Guido Beltramini – giovedì, 18 giugno 2009, 18:06

  rispondo a Paola Caldognetto.

Non ricordo precisamente la storia delle due ville Saraceno ma mi sembra che fossero due distinti rami della famiglia. Vorrei mettere in guardia sull’uso delle fonti nello studio di Palladio, e in particolare sull’uso dei Quattro Libri. A partire da Bertotti Scamozzi, autore di una sistematica campagna di rilievo delle fabbriche palladiane nella seconda metà del 700, si è affermata l’idea che i 4L contenessero il vero pensiero di Palladio, e che la realtà dei monumenti costruiti fosse una forzatura del suo pensiero (causata da un committente poco disposto a spendere, o da vincoli insormontabili del sito ecc.). Questa tradizione, unita alla critica idealistica di primo Novecento ha prodotto mostri, come l’abbassamento del piano di calpestio di piazza dei Signori a Vicenza (realizzato nel 1954!) per realizzare tre gradini mai esistiti nella realtà ma visibili nella rappresentazione della Basilica nel 4L: si è così perduto il rapporto fluido dei percorsi fra piazza scoperta e piazza coperta (basilica in senso romano antico) che ancora è percepibile a Padova, nel palazzo della Ragione.

Va ricordato che i 4L sono stampati oltre 20 anni dopo la progettazione di villa Saraceno e NULLA ci dice che rispondessero al programma originario. Quindi è improduttivo paragonare il costruito con una idealizzazione postuma. L’architettura richiede tempo e soldi. I cantieri duravano a lungo, quello della Basilica palladiana quasi 70 anni. Forse Biagio ha costruito la casa, di cui aveva bisogno, continuando a usare la vecchia barchessa, che non aveva senso demolire. Tra l’altro raramente Palladio costruisce ex novo: nella maggior parte dei casi ristruttura edifici preesistenti, vestendo con panni all’antica corpi gotici.

Re: Palazzo delle trombe di Eleonora Stabile – venerdì, 26 giugno 2009, 10:15

  Ciò che mi ha colpito maggiormente in Villa Saraceno è, come ha fatto notare durante la visita il prof. Beltramini, il carattere “astratto” dell’edificio. Mi ha ricordato per certi versi Villa Savoye di Le Corbusier. Un edificio che io trovo altrettanto separato dall’ambiente, diverso dalle commistioni visive e di materiali ad esempio di Wright.

Ho trovato etremamente interessante la volontà di razionallizzare mediante un modulo una struttura che finisce inevitabilmente a contrastare con l’ambiente circostante, contrasto che probabilmente in un contesto cittadino sarebbe meno visibile. Quasi una volontà di estraniarsi dal caos della campagnia e dell’imprevedibilità della natura. Probabilmente anche gli individui non abituati a un tale rigore formale ne restavano affascinati e sconcertati al tempo stesso.

Mi unisco anche io al coro di ringraziamenti per la bellissima giornata!

Re: Palazzo delle trombe di Roberto Folin – martedì, 30 giugno 2009, 17:28

Vorrei ritornare ancora brevemente sulla visita compiuta in area vicentina, con particolare riferimento al palazzo delle Trombe ed alle sue caratteristiche architettoniche di forte connotazione cittadina. Un paio di riflessioni mi sono venute alla mente nel leggere il saggio di Stefano Boccato “Un territorio conteso” inserito in Chiodi-Povolo “L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII).

La prima discende dalla considerazione della città (il riferimento lo intendo alle città di terraferma in particolare, anche per le valutazioni successive), come centro dell’onore: l’occupazione fisica degli spazi cittadini, il vagare per le vie centrali, aumentano la “fama” e l'”onore”, ci si mostra ovunque nelle vie, con palazzi sempre più maestosi e persino nelle chiese costruendo grandiose cappelle una vicina all’altra. La stessa configurazione dell’estendersi delle dimore patrizie di proprietà delle varie casate dà spesso l’idea dell’assedio dell’una rispetto alle altre: si circondano gli avversari, si soffocano per dimostrate la propria potenza. Ecco forse una prima chiave di lettura delle motivazioni della costruzione, da parte del Saraceno, di un palazzo dalle carattersitiche architettoniche così diverse dall’area in cui insiste: si vuole migrare il potere dalla città alla campagna anche attraverso la mimesi degli edifici stessi.

Altro momento di riflessione sta nella differenza , rilevata dall’estensore del saggio, nelle motivazioni del costruire dimore magnificenti tra la nobiltà terrafermiera (riferimento preciso a quella vicentina), e quella della Dominante. A Venezia tra 4 e 500 si costruisce la maggior parte dei palazzi sul Canal Grande come momento di ostentazione della propria ricchezza, una ricchezza che sino ad allora era prevalentemente mobiliare, frutto dei lucrosi commerci; quindi nessun interesse a dimostrazioni di potere tramite occupazione dello spazio fisico, del resto ben tutelato dalle norme successorie con relativi accessori che la plutocratica società veneziana ben utilizzava. Solo dal 16° secolo in poi, a seguito del calo dei traffici cominceranno le estese costruzioni delle ville dominicali lungo il Terraglio e la Brenta come diversificazione delle forme investitorie, prediligendo quelle immobiliari maggiormente tutelate, a quelle mobiliari, minacciate dalla concorrenza inglese e olandese. Non è più  affermazione di un potere che aveva forse cominciato la parabola discendente.


Protagonisti secondari di Claudio Povolo – giovedì, 25 giugno 2009, 00:49

Sottopongo alla vostra attenzione un argomento interessante. Ogni vicenda è incentrata su un personaggio femminile. Se si trattasse di una rappresentazione teatrale esso avrebbe evidentemente un ruolo preminente. Ogni vicenda, inoltre, racchiude temi e problemi di vario genere che s’incentrano in particolare sul matrimonio o sulla successione. Un filo rosso è costituito certamente dall’istituto della dote, inscindibile dal ruolo della protagonista femminile. Ma vorrei qui concentrarmi sui cosiddetti personaggi secondari. Sono molti, maschi e femmine, che hanno un ruolo non da poco. Nella vicenda di Euriemma sono individuabili in Pietro Saraceno, Trivulzia Braccioduro, Ludovica Ghellini. Altri personaggi sono di contorno anche se importanti. Sempre nella stessa vicenda, ad esempio, il conte da Porto che ha un ruolo non secondario nel matrimonio di Trivulzia, nella fuga di Euriemma e nel suo stesso, affrettato, matrimonio. Ancora, altri personaggi possiamo considerarli di sfondo, quasi un coro che interviene a seconda delle scene rappresentate. Ad esempio i testi citati da Euriemma, oppure le figlie di Biagio senior, ricordate nel suo testamento del 1502. Nell’insieme si tratta di personaggi che disegnano quelle che sono state definite reti di relazioni, le quali possono suggerire la dimensione sociale della protagonista. Diciamo che tramite i personaggi secondari possiamo meglio mettere a fuoco il ruolo effettivo svolto dal personaggio femminile centrale. Se, come ha notato qualche antropologo, il conflitto disegna meglio (e fa emergere) la posta in gioco sottesa nei rapporti sociali quotidiani, la qualità, quantità e disposizione dei protagonisti, a sua volta, qualificano l’effettivo spessore culturale di questi rapporti. L’immagine della parentela esce così dallo stereotipo della pura definizione teorica per assumere l’effettiva incidenza sul ruolo femminile.

Re: Protagonisti secondari di Valentina Dal Cin – giovedì, 25 giugno 2009, 21:40

  Le reti di relazioni di cui parla il prof. Povolo sono presenti indubbiamente in tutte le vicende che si è deciso di prendere in esame. Ed è vero che possono aiutarci a delineare in modo più chiaro il ruolo della donna protagonista.

Il saggio di Gianna Pomata indicatomi dal professore contiene un’interessante indicazione a proposito, sottolineando quanto l’esame della rete informale di relazioni sia importante per lo studio della storia delle donne (la cui influenza si è sempre manifestata infatti più nella sfera informale e privata, che in quella pubblica).

Tantopiù che le donne non sono totalmente incorporabili nel sistema patrilineare, ma al contrario mantengono anche legami con la parentela d’origine. (Il conte da Porto infatti non è un membro del clan patrilineare, ma un parente per via materna di Euriemma).

Nel saggio vengono citati i casi di testamenti di patrizi veneziani tra 1300 e 1450 in cui emerge come, mentre i lasciti degli uomini fossero distribuiti soltanto all’interno del loro lignaggio, quelli delle donne fossero equamente distribuiti tra il lignaggio d’origine e quello acquisito. Dalla stessa fonte emerge come tra le reti di relazioni femminili non comparissero solo legami d’affetto, ma anche di rapporti di patronage, come attestano i lasciti alle balie.

Come considerazione generale vorrei sottolineare l’interessante scenario che apre l’esame di una rete di relazioni, piuttosto che di un individuo isolato, poichè mi sembra irrealistico isolare un individuo dal suo contesto, quando sono le relazioni reciproche, la coincidenza o la conflittualità dei reciproci interessi, a costituire il tessuto di ogni vicenda umana.

Re: Protagonisti secondari di Claudio Povolo – venerdì, 26 giugno 2009, 00:41

Sì, come osserva Valentina, le reti di relazione sono importanti e, se la discussione proseguirà, vorrei ritronare sul tema. Ovviamente le reti di relazione si estendono anche al mondo maschile, ma in questa dimensione mi sembra che sia presente un aspetto che si coglie in misura molto minore nel mondo femminile. Mi riferisco a quelle che si possono definire vere e proprie ‘unità di solidarietà’ tra i membri agnati e cognati, ma anche incorporando membri di lignaggi che hanno degli interessi in comune su un determinato spazio. Questo si può ad esempio cogliere nella gestione della faida, sia nella sua quotidianità (contese per le risorse) sia nei suoi aspetti violenti. Queste unità generalmente indicano unità parentali estese (agnazione e cognazione e parentela spirituale). Nel nostro sito, per la peculiare natura della documentazione, si coglie solo il primo aspetto. Ma per chi fosse curioso basti che dia un’occhiata al sito dedicato a Zanzanù. Potremmo dire che la violenza è una componente essenziale delle unità di solidarietà maschili, soprattutto quando sono dislocate su un preciso territorio. Nelle reti di relazioni femminili sono ovviamente individuabili altre componenti interessanti (si veda la vicenda di Euriemma o quella delle due Ferramosca).

Re: Protagonisti secondari di Valeria Favretto – sabato, 27 giugno 2009, 10:01

  Mi sembra che la secondarietà dei personaggi sia del tutto funzionale alla centralità della donna, assunta in quanto sposa ed erede. Tuttavia questi personaggi secondari sono spesso “molla” che innesca il conflitto e che ne esplicita il vero interesse.

Accanto alla protagionista femminile, si può notare muoversi tutta la parentela la cui collocazione rispetto la protagonista femminile è in realtà funzionale al ruolo di erede di quest’ultima: nei casi di Euriemma e Polissena, le ragazze si trovano ad essere punto di confluenza di un enorme patrimonio e quindi degli interessi di tutta la famiglia.

Inoltre,nella società di Antico Regime, ciascun individuo aveva senso se inserito nel gruppo, sociale e giuridico, di appartenenza. L’individuo era unidirezionale al gruppo senza al quale non aveva significato: contano le relazioni in cui il soggetto è collocato.

In questo contesto, la parentela aveva poco a che fare col “mondo degli affetti”: la famiglia era un centro di potere prima che di affettività e il potere si regolamentava anche attraverso la cessione della donna per il suo ruolo di confluenza fra lignaggi e patrimoni.

Re: Protagonisti secondari di Claudio Povolo – sabato, 27 giugno 2009, 22:23

L’intervento di Valeria ripropone il drammatico contrasto che esisteva tra famiglia e individuo, tra interessi ed emozioni, tra logica del gruppo e aspirazioni individuali. Indubbiamente nella società di antico regime ogni individuo si rapportava con il gruppo di appartenenza. Si era tali in quanto membri di un gruppo collocato in una determinata scala sociale. E le vicende successorie fanno emergere questi forti contrasti. Ovviamente le ribellioni individuali non erano rare, anche se molto spesso destinate a fallire di fronte agli interessi del gruppo di appartenenza (si pensi ad Anna Mascarello Ferramosca). Siamo ben lontani dall’ampia e, comunque spesso tormentata sfera, oggi goduta dall’individuo: il quale si rapporta nei confronti di una società dai contorni indefiniti. Il nesso tra individui e gruppo presupponeva comunque una sfera di solidarietà che incontrava generalmente un punto di raccordo nel lignaggio. Ovviamente le tensioni insorgevano molto spesso; così come i contrasti con i gruppi che operavano sul medesimo territorio e nei confronti dei quali si applicava un meccanismo di reciprocità incentrato sullo scambio (che includeva l’idioma dell’onore e il linguaggio della violenza). E’ interessante osservare come questo aspetto della reciprocità si definisse soprattutto tramite la donna: la quale veniva ceduta, in cambio evidentemente di forti valori simbolici. Se lo scambio era alla pari, la cessione presupponeva una forte alleanza dai risvolti politici ed economici che potevano modificare gli equilibri esistenti e suscitare ulteriori tensioni con gli altri lignaggi. Se la cessione della donna presupponeva un rapporto di disparaggio (nel senso cioé che chi cedeva la donna con la sua dote era di condizione sociale inferiore) il valore simbolico si accentrava nella sfera della ‘protezione’ e dell’ascesa sociale. Proprio per questo motivo il rapimento violento di una donna era considerato un fatto traumatico, che poteva rompere equilibri consolidati.

L’intervento di Valeria comunque mi suggerisce di inserire alcuni documenti in cui la donna si costituisce come punto di tensioni dentro e all’esterno del gruppo.


Procedimenti storiografici (lo storico, l’antropologo, il giudice) di Claudio Povolo – martedì, 9 giugno 2009, 15:13

Sottopongo alla discussione un tema interessante che sta, si potrebbe dire, a monte di ogni ricerca storica e antropologica (di qualsiasi genere), ma anche dei conflitti giudiziari che caratterizzano le nostre vicende. Ogni ricostruzione storica procede sia sul filo della memoria che dei documenti. Oggi si parla di storia orale; i giuristi e gli antropologi preferiscono parlare di consuetudine (collegata all’oralità). Il documento invece (accertatone filologicamente la veridicità) fissa un particolare momento del passato riproducendolo teoricamente all’attenzione del presente (che non sempre però lo individua, o per meglio dire ‘lo vede’, nel senso che ne percepisce l’importanza o comunque il valore). Potremmo comunque dire che sia la testimonianza orale, che il documento si costruiscono sul filo della memoria, anche se sono di natura diversa. Ma la memoria non è mai neutra: si costruisce in base a determinate scelte, a valori, a pregiudizi ed ovviamente agli obbiettivi di chi la veicola. Un paragone interessante è ad esempio la ricostruzione che un giudice opera (quando procede per accertare una determinata verità, come nei processi penali) in base ad indizi e prove. Possiamo dire che tutto è costituito da indizi: segni del passato giunti sino a noi che attendono di essere interpretati. La prova invece è la messa a punto nel presente di questi ‘eventi’ del passato. Come potrebbe essere la dichiarazione di un teste che afferma di aver visto una persona compiere un determinato atto. L’atto (nel passato), di per sè, è un indizio; l’affermazione (nel presente) di quella persona è una prova. Appare evidente che possono esistere indizi forti/deboli, così come prove forti/deboli. La chiave interpretativa risiede nella prova ovviamente, anche se però non esaurisce le dinamiche dell’accertamento della verità. Possiamo, ad esempio, avere una prova forte, perché il testimone che la veicola è di provata fede, attendibilità, dà tutte le garanzie che ci si potrebbe aspettare da un testimone imparziale. Ma tale prova, ad esempio, potrebbe riferirsi ad un indizio debole. Questo si potrebbe verificare, ad esempio in un processo penale, qualora un teste che ha tutti i requisiti auspicabili, affermasse di aver visto tracce di sangue in un determinato luogo, ma quelle tracce non esistono più e non sono riproducibili nemmeno con i più sofisticati procedimenti scientifici. All’incontrario si possono avere prove deboli e indizi forti. Prova debole è ad esempio un teste poco affidabile, ma che attestasse però un indizio forte come ad esempio la presenza di una determinata persona sul luogo del delitto. Ci sono poi indizi che, di per sè, hanno una loro presunta oggettività, nel senso che possono essere rilevati tramite prove scientifiche (ad esempio il DNA), ma comunque anche questi devono essere interpretati alla luce di una ricostruzione storiografica complessiva che mette in relazione tutti gli indizi esistenti. In un certo senso anche i documenti si costituiscono (una volta accertatane la veridicità) come indizi; il carattere di prova viene loro fornito dall’interpretazione dello storico. Così come l’antropologo può disporre di oggetti materiali che veicolano apertamente la cultura su cui indaga.

Le relazioni essenziali si costituiscono dunque tra fatti, prove e interpretazioni. L’interpretazione assegna valore alle prove che vogliono accertare i fatti (indizi). Si tratta di relazioni da cui non si può prescindere per la ricostruzione della verità del passato, ma anche per la delineazione che un antropologo fa di una determinata cultura.

Un settore importante dell’interpretazione è però dato pure dai procedimenti adottati per mettere in relazione le prove con i fatti. E’ importante, ad esempio, come l’antropologo procede nella sua ricerca sul campo; è importante come lo storico si pone di fronte ai documenti; è importante come il giudice ricerca la verità. Ovviamente tutti sono d’accordo nell’affermare la necessità di sgomberare la mente di chi ricerca la verità da ogni pregiudizio. In realtà il procedimento utilizzato si costituisce pure come un filtro importante dell’interpretazione. Clifford Geertz sostiene che l’antropologo deve porsi come colui che pone attenzione (ed interpreta conseguentemente) al processo di interpretazione di colui che gli fornisce le informazioni. Lo storico deve chiedersi, pure, come è costruito il documento che gli presenta i nessi tra indizi e prove. Il processo di costruzione del documento è essenziale. Una fonte importante è data dai procedimenti giudiziari che, applicati in una determinata epoca per esigenze di ordine, legalità, repressione e quanto altro, si costituiscono come un serbatoio di imformazioni importantissime per noi. Una vera e propria ricerca sul campo che finisce per accostare lo storico all’antropologo.

Nei casi da noi esaminati, ricostruiti sul filo di biografie, come ci giungono i dati del passato? Tramite vertenze giudiziarie (per lo più) in cui soggetti (maschili e femminili) si confrontano cercando di affermare i propri obbiettivi. Si tratta di vertenze civili e quindi, lo possiamo costatare da subito, il giudice si pone essenzialmente come terzo che non vuole imporsi alle parti, ma ne deve semplicemente valutare le proposizioni per poi convalidare la più convincente tramite una sentenza. I fascicoli processuali sono variamente costruiti in base alle procedure previste. Nel caso di Caterina Corradazzo, entrambe le parti puntano ad obbiettivi diversi (gli zii di Caterina mantenere in sè il patrimonio del fratello; mentre Caterina vuole ottenere la propra quota di legittima sul patrimoniio paterno). Per raggiungere i loro obbiettivi le parti costruiscono una loro verità, la cui intelaiatura è data dai capitoli e dai relativi testimoni che devono sostenerne la veridicità. Teoricamente dovrebbe affermarsi chi è più convincente. Ma non è tanto questo il punto da accertare. La questione più rilevante è data dalle scelte attuate da ciascuna delle parti. Si tratta di scelte che potremmo definire vere e proprie operazioni storiografiche, in quanto esse sono costruite in base a scelte, esclusioni, reticenze. E’ comunque un procedimento che sembra veicolare uno scontro provvisto di diversi procedimenti storiografici. La verità (se così possiamo definirla) la possiamo cogliere solo se individuiamo tali procedimenti. Sullo sfondo i fatti e le prove (i testimoni) che li riproducono nel presente (ed anche a noi).

Nel caso di Euriemma uno scontro simile si ebbe nella vera e propria causa successoria tra la stessa Euriemma e il lignaggio Saraceno. Una causa che noi abbiamo necessariamente riassunto. Ci siamo invece soffermati molto di più sulla questione della legittimità di Euriemma. E’ interessante notare come l’avvocato punti su una strategia (procedimento) alquanto particolare: la presentazione di un solo capitolo su cui far interrogare molti testimoni. Inizialmente l’avvocato aveva invece in mente di presentare molti capitoli. Quest’ultima scelta avrebbe favorito la parte contraria, che con capitoli che contraddicevano avrebbe potuto più agevolmente riproporre una diversa visione dei fatti (rapporto indizi/prove). La più debole posizione di Euriemma (il matrimonio della madre era di dubbia validità) consiglia invece di puntare su un solo capitolo. Un capitolo, dunque, necessariamente generico e che quindi riproduceva un fatto tendenzialmente debole (indizio debole). Con testi però importanti (perché per lo più erano in grado di attestare quanto sostenuto) e quindi prove certe. Evidentemente il procedimento utilizzato non è di poco conto.

In fondo la ricerca storica e antropologica è data essenzialmente da fatti, prove e interpretazioni, anche quando, per entrambi i fatti suggeriscono processi mentali e culturali (rappresentazioni) ben più ampie.

Re: Procedimenti storiografici (lo storico, l’antropologo, il giudice) di Roberto Folin – venerdì, 12 giugno 2009, 17:39

Vorrei riprendere quanto illustrato dal prof. Povolo in  merito al collegamento tra indizio. fatto e prova e le diverse direttirci che lo storico, l’antropologo ed il giudice percorrono per pervenire ad una “verità”.

Senza dubbio lo storico si avvarrà di fonti primarie o secondarie con diversa valutazione, l’antropologo preferirà l’osservazione sul campo, ma il giudice di età moderna non poteva, a mio parere esimersi da applicare quella specie di algoritmo giudiziario che i giuristi dell’epoca avevano costruito e denominato come “sistema di prove legali”; in questo ambito il rapporto della prova (forte o debole) con il riscontro oggettivo o con l’avallo del testimone (più o meno coartato) diventa quasi aritmetico. Ma una variabile, a mio parere importante nata in ambito rivoluzionario francese, è l’attacco al sistema della prove portato dall’introduzione del  libero convincimento del giudice nel valutarle e nell’emanare la successiva sentenza; variabile sicuramente importante sul piano delgiinteressi e degli equilibri sociali nel civile,ma decisiva in campo penale quando induce a comminare pene fisiche o afflittive.

la domanda che mi pongo allora è la seguente: nel valutare ex post gli esiti di un processo civile o penale che sia, l’equità della sentenza, gli effetti sull’imputato, ma anche sull’ambiente che lo circonda,  inteso come società civile, quale metro usare nel misurare l’efficacia delle prove e delle testimonianze se queste poi sono in qualche modo assoggettate al libero, qualcuno dice arbitrio, io uso ancora il termine “convincimento” del giudice? Diventa più affidabile l’analisi che dei fatti fa lo storico o l’antropologo, come dicevo prima su fonti primarie o sul campo, o quella che deduce chi alla fine decide le sorti una persona o di un intero lignaggio? Non occorre,  credo, molta fantasia per comprendere come questo tema sia di strettissima attualità in ordine all’attività ordinaria della magistratura ed allo scontro, che la vede protagonista, con il potere politico.

 (°)Ferrajoli(Diritto e Ragione  pagg. 117-119) ,considera l’inserimento del libero convincimento nelprocesso penale un “mostro giuridico” che ha dato vita a quella procedura di tipo “misto” ,inquisitoria in fase istruttoria ed accusatoria nella fase dibattimentale e  che connota il procedimento ancora in atto nelle nostre aule giudiziarie (anche se un serie di garanzie a favore del presunto imputato ne hanno attenuato la rigidità)

Re: Procedimenti storiografici (lo storico, l’antropologo, il giudice) di Claudio Povolo – sabato, 13 giugno 2009, 01:32

Rispondo intanto al secondo intervento di Roberto. Sul piano teorico il procedimento di accertamento della verità è analogo sia per lo storico, sia per l’antropologo che per il giudice- Per tutti esiste un procedimento logico (sempre comunque probabilistico, mai definitivo) che mette in relazione i fatti (indizi), le prove e le interpretazioni (rinvio al mio primo intervento). La posizione del giudice è ovviamente peculiare, in quanto incardinata in sistema sociale di potere che può limitarne o ampliarne le possibilità d’azione, anche se sul piano teorico permane una sostanziale affinità tra le tre ‘professioni’. Il sistema di prove legali era estemamente convenzionale, come del resto tutti i sistemi di prova che non si affidino ad un procedimento logico induttivo/deduttivo/abduttivo (per tutto questo consiglio la lettura di U. Eco, Il segno dei tre). Il sistema di prove legali aveva l’obbiettivo essenziale di contenere la discrezionalità del giudice. In assenza di prove legali (come si diceva positive) il giudice era teoricamente tenuto ad ingliggere una pena straordinaria che si allontanava spesso sensibilmente da quella più severa prevista dagli statuti. La storia della prova legale è complessa e si caratterizza tra 4-500 per una sorta di frammentazione interna che la porta a distinguere in semiprove, quarti di prove, ecc. che potevano sommarsi quantitativamente, ampliando i poteri del giudice. Gli indizi venivano dunque letti secondo la quantificazione data dal tipo prova che li evidenziava. E’ a partire dal ‘600 che si comincia ad affermare la cosiddetta prova morale, una prova che si viene a delineare non in base ad un sistema deduttivo stabilito a priori, ma all’interpretazione che il giudice dà degli indizi in base al suo convincimento. Sarà però nel corso dell’Ottocento che il libero convincimento si affermerà, nell’ambito di un sistema gerarchico e burocratico. Teoricamente il sistema incentrato sulla prova morale e sul libero convincimento non si allontana dai criteri di analisi dello storico. Ferrajoli è scettico sul libero convincimento perché ne vede le degenerazioni che, a suo giudizio, verrebbero a cadere di fronte ad un sistema incentrato sul contraddittorio. Anche qui ci sarebbe da aggiungere molto… Attenzione però: in ambito giudiziario civile la ricerca della verità si muove in una diversa direzione e non è teoricamente sottoposta ad un processo di falsificazione che si avvale delle interrelazioni tra fatti, prove e interpretazione. I suoi intenti sono spesso volti a rintracciare le mediazioni più opportune per sanare il conflitto (si veda il caso di Caterina Corradazzo, ma anche la stessa vicenda di Euriemma). Le procedure complesse e costose del processo civile, in ogni epoca, tendono a porre in rilievo il ruolo delle parti, la loro determinazione e le loro potenzialità conflittuali. Non così per il processo penale… Nel penale è la società a costituirsi come parte lesa (anche quando ovvviamente c’è una vittima ben precisa). Il giudice che opera si raffronta con i valori della società cui appartiene, tendendo a riprodurne i valori e le aspettative. Con il sistema di prove legali il giudice si calava in una società cetuale in cui la testimonianza aveva un valore molto forte e veniva regolamentata in base a criteri che di certo non coincidevano essenzialmente con la mera attendibilità del testimone (donna, servitore, prostituta, ecc.). Successivamente il teste rappresenta inequivocabilmente le potenzialità di riprodurre il passato (gli indizi). Il compito difficile del giudice (ma non solo del giudice) è di valutare i nessi tra indizi e prove e di creare un paradigma indiziario convincente (mettendo insieme tutti gli indizi). Un esempio tratto da Popper. Un filo non può reggere un peso superiore ad un kilogrammo. Se lo ritroviamo spezzato, in base ad un sistema meramente deduttivo, diremo che ciò è avvenuto in quanto esso ha dovuto sopportare un peso superiore. Se procediamo con un sistema che mette costantemente in relazione l’induzione con la deduzione (abduzione) le cose si complicano. Quel filo è spezzato (indizio). Cerchiamo altre ipotesi (deduzioni). Un filo si può rompere se ha subito un processo di usura, e verificheremo questa ipotesi. Ma non ci accontentiamo. Altra ipotesi: quel filo potrebbe essere stato artatamente indebolito con un piccolo taglio. E verificheremo. Se la seconda e terza ipotesi non sono convalidate, diremo che la prima è la più probabile. Non quella vera perché nulla esclude che ci siano altre ipotesi che per ora non siamo in grado di considerare. In un processo civile tutto questo è ben difficilmente raggiungibile, in quanto la ricerca del verità passa in subordine rispetto ad altre esigenze. Ed è una parte, non la società nel suo complesso a costituirsi come parte lesa.

Re: Procedimenti storiografici (lo storico, l’antropologo, il giudice) di Valeria Favretto – mercoledì, 24 giugno 2009, 10:23

  A proposito di questa discussione, mi è venuto in mente un argomento di cui abbiamo parlato in una delle prime lezioni (post-modernismo), tirando in ballo l’opera “In difesa della storia” di Richard Evans che reca un discorso metodologico utile all’antropologo, allo storico e al giudice.

I fatti esistono: non possono essere messi in discussione; ma possono essere interpretati. Tutte le discipline sono date da fatti, prove, interpretazioni, ma spesso ingenuamente chi se ne occupa parte dai fatti: inizia a raccogliere i dati, credendo di farne una raccolta oggettiva. Questa in realtà non lo è affatto: è veicolata dai pregiudizi di chi raccoglie i dati e dalla falsa prospettiva di chi li concede. Si tratta di un errore di metodo: in qualsiasi indagine si deve partire dalle interpretazioni.Se non le si conosce non si sa nulla. Bisogna inoltre che il ricercatore sia consapevole dei propri parametri interpretativi per dare il giusto valore ai fatti, che sono chiamati in causa solo per ultimi.

Il Prof. Povolo dice inoltre che lo storico deve porsi come punto essenziale il processo di costruzione del documento. L’importanza di questo procedimento si nota ad es. nel caso di Caterina Corradazzo. Le domende da farsi ogni volta di fronte al documento sono: da dove viene? Chi lo produce? Cosa manca?

L’esempio di Popper del filo spezzato è metafora del procedimento abduttivo che ritiene che le verità funzionino sempre a livello probabilistico. Ciò non significa che non sia possibile avvicinarsi alla realtà, ma che la maggiore o minore vicinanza ad essa dipende dai livelli interpretativi di chi indaga.

Re: Procedimenti storiografici (lo storico, l’antropologo, il giudice) di Claudio Povolo – mercoledì, 24 giugno 2009, 19:58

L’intervento di Valeria introduce ad uno dei problemi centrali in ogni tipo di ricerca. Poiché la nostra si svolge nel passato, appare evidente che i fatti sono eventi descritti in documenti conservati per lo più negli archivi pubblici (di stato, ma non solo). Questi eventi, sostanzialmente, si costituiscono come informazioni messe a disposizione del ricercatore. In linea teorica possiamo dire che più informazioni si possiedono più si arricchisce il piano interpretativo. Ma è più corretto affermare che, in linea generale, è solo di seguito alle potenzialità interpretative del ricercatore che il campo degli eventi si può ampliare (nel senso cioè che se ci si pone determinate domande si va anche alla ricerca di altri eventi). Il documento che riporta l’evento è meglio definibile come prova. E’ il documento, difatti, che testimonia l’esistenza di un evento. Saper muoversi all’interno degli archivi è dunque importante, anche se molto spesso, il caso ha un ruolo non indifferente. Il documento non ha quasi mai una sua identità neutra (ovviamente diamo per scontato l’attendibilità del documento, nel senso cioè che non si tratta di un falso). La sua collocazione istituzionale ne determina la stessa identità. Facciamo un esempio tratto dal sito. Il testamento di Vincenzo Scroffa si costituisce originariamente come documento notarile ed è oggi conservato presso l’archivio di stato di Vicenza, nel fondo notarile ivi depositato. Ma esistono almeno altre due identità del testamento stesso. Lo possiamo infatti ritrovare come allegato nei dispacci dei rettori di Vicenza diretti ai Capi del Consiglio dei dieci. Alla morte dello Scroffa, in base alle sue disposizioni testamentarie, essi furono costretti ad inviarlo alla suprema magistratura veneziana. Appare evidente che questa seconda copia del testamento ha una sua diversa identità, che è data dalla sua diversa collocazione archivistica (Archivio di stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci, Dispacci dei rettori), ma anche dalla sua diversa collocazione cronologica e dai suoi diversi obbiettivi. Infine lo stesso testamento, insieme ai consulti di fra Paolo Sarpi, è parte integrante ed importante di un fascicolo istruito di seguito alle complesse scelte di Polissena. E’ una terza identità che ridefinisce la natura stessa del testamento.

Che cosa possiamo dunque dire? Un medesimo evento (Vincenzo Scroffa dettò il suo testamento al notaio Medoro Rigotto) appare in ben tre documenti diversi (non si tratta della semplice copia, perché diversa è la sua collocazione istituzionale ed archivistica). Lo stesso fatto (indiscutibile) è attestato da tre prove-documenti di diversa natura. L’indizio (evento del passato) si arricchisce di prove molteplici. Attenzione però: ad assegnare a questa relazione tra evento-indizio e documenti-prova sta solo l’interpretazione del ricercatore. E’ solo il ricercatore, difatti, a conoscere la complessa intelaiatura delle magistrature dell’epoca, ma sua deve essere pure la consapevolezza della molteplicità delle identità che lo stesso documento assume. Sarebbe errore grave se egli si raffrontasse allo stesso documento senza questa consapevolezza: si troverebbe in tal caso di fronte ad unica prova, e non a tre prove. La prima prova ci introduce nella personalità dello Scroffa, nella complessità delle sue scelte, nel suo contesto sociale). La seconda prova è data dal fatto della trasmissione del testamento a Venezia. Le ultime volontà dello Scroffa, hanno un valore non solo perché costituite di determinate scelte, ma perché mettono in rapporto istituzioni del centro dominante con le istituzione di una città della Terraferma. Una trasmissione che implica decontestualizzazione e ricontestualizzazione, attese, timori, interrogativi. La terza prova allarga il campo e si riflette sulle prime due: definisce la complessità delle scelte iniziali, le forze che entrano in gioco, l’interpretazione dei consultori, ecc.). Ciascuna delle tre prove si rapporta ad eventi-indizi diversi.

Fondamentale è dunque il piano interpretativo: è da questo che dipendono gli altri due. Il ricercatore abitualmente giunge in archivio con un problema ben preciso (lo studiare un determinato tema). Ha bisogno di informazioni ovviamente e va alla ricerca di queste. Si informa, si guarda attorno, cerca. Sarà fortunato se la documentazione è ancora esistente. Molte cose infatti possono essere sparite. Di certo rintraccia determinati eventi (fatti-indizi) che sono rappresentati in documenti-prove. Ma è solo il suo livello interpretativo che gli permette da un lato di assegnare al documento stesso un livello X di prova e dall’altro (e soprattutto) di fiutare l’esistenza di altre prove-documenti. In ogni caso è fondamentale il suo procedimento nel rapportare gli indizi con le prove. Il ricercatore può infatti disporre di prove deboli che attestano indizi forti. Ad esempio un documento che accenna per via indiretta che un evento importante (una rivolta) è avvenuto. Oppure, all’incontrario ha un evento debole attestato da una prova forte. Ad esempio una sentenza di un tribunale che procede però per un fatto collaterale alla rivolta stessa (inquietudine sociale precedente al fatto) e che comunque non ne suggerisce la complessità e le dimensioni. Il procedere della ricerca potrà avvenire e non arenarsi solo di fronte alla maggiore o minore complessità interpretativa del ricercatore (la sua esperienza, le sue letture, la sua sensibilità, ecc.). I nessi tra fatti-prove-interpretazioni non sono a senso unico, in quanto gli eventi pongono domande, le prove tendono ad attestare il valore effettivo di queste domande e l’interpretazione è non solo in grado di mettere in connessione eventi e prove, ma anche di spingere il ricercatore a ritornare sui suoi passi, a cercare altri eventi e alte prove.

La risposta definitiva è sempre probabilistica e la sua efficacia dipende da molti fattori che non sempre sono intrinseci alla relazione tra i diversi elementi esaminati. Tale risposta definitiva si rapporta difatti a quella che possiamo definire struttura scientifica: che dispone di una serie di valori, pregiudizi e soprattutto di una scala gerarchica. Questo vale sia per lo storico, che per il giudice, che per l’antropologo. Un antropologo che si recasse a studiare una lontana comunità aborigena e cogliesse aspetti culturali inediti e che di fatto rivoluzionerebbero il sapere scientifico che si è consolidato, difficilmente vedrebbe accolte le sue idee se non fosse sostenuto adeguatamente dall’establishment scientifico. E un giudice che determinasse una certa verità processuale (procedendo come sopra) in un contesto politico poco ricettivo difficilmente potrebbe affermare questa stessa verità. Non diversamente lo storico. Appare evidente che il maggior inserimento gerarchico nell’establishment scientifico può agevolare la nuova scoperta, ma di per sé, se la sua irruenza innovata è tale da scompaginare assetti accademici consolidati, farà comunque fatica ad imporsi. Dobbiamo dunque arenarci di fronte a questa visione pessimistica? Non direi. La ricerca della verità è comunque un risultato che si connota anche per le sue qualità potenziali di affermazione (e sul piano individuale se non viene vissuto come una frustrazione, non è cosa da poco, non vi pare?). Ed infine, non sappiamo che anche Galileo, infine, ha visto trionfare la sua verità?


L’anello al dito e le belle parole di Claudio Povolo – giovedì, 18 giugno 2009, 16:35

I documenti che Silvano Fornasa ci ha gentilmente messi a disposizione (forum, Passione ed interesse…, 28 maggio 2009) sono di estremo interesse, in quanto ci presentano alcuni casi di matrimoni celebrati ricorrendo ai riti pretridentini. E’ di certo di straordinario interesse il caso dei due nubendi di Valdagno che nel 1569 (post Trento, dunque) pur avendo fatto le classiche tre pubblicazioni (previste dal decreto Tametsi come elemento essenziale per la legittimità del matrimonio, ma non per la sua validità), si rifiutano però di perfezionare l’unione per verba de praesenti scambiandosi il reciproco consenso in chiesa davanti al parroco.

E che dire del matrimonio celebrato da Giovanni Piovene e Cecilia da Brogliano su quel tavolo pensile? Qui i requisiti della validità ci sono tutti (siamo nel 1559, prima dell’emanazione del decreto Tametsi): i due testi, la scambio dei consensi tramite la formula di rito (le belle parole) e l’inanellamento della sposa. Il consenso dei genitori non era considerato fattore essenziale per la validità del matrimonio, ma comunque i parenti di Cecilia intervennero trasferendo la giovane in casa dello zio. Il Piovene avviò la causa giudiziaria per dimostrare l’avvenuto matrimonio. La vicenda ci suggerisce dunque come, prima di Trento, le più flessibili ritualità previste per la validità del matrimonio fossero comunque inscrivibili nella dimensione della parentela. Potremmo sostanzialmente affermare che la clandestinità del matrimonio era essenzialmente data dall’assenza di quest’ultimo fattore sostanziale (e non formale). La clandestinità, sul piano formale, era infatti data dal fatto che lo scambio del consenso interveniva senza la presenza di testimoni che potessero attestare lo scambio delle parole di rito o il tocco della mano (e l’inanellamento della sposa): tutti segni che avrebbero dovuto testimoniare inequivocabilmente la volontà dei due nubendi. Va però aggiunto come questi segni fossero abitualmente manifestati in un contesto rituale in cui le parentele dei due sposi intervenivano sancendo con la loro approvazione la sostanziale validità del matrimonio. L’ambiguità dei riti tridentini consisteva proprio nella dimensione parentale di un’unione che comunque si svolgeva all’insegna dell’effettiva volontà dei due sposi. Perché il Concilio di Trento non accolse come elemento di validità il consenso dei genitori, che pure tanta parte svolgeva nell’effettiva prassi matrimoniale?

Cerchiamo di esaminare la questione alla luce delle penetranti osservazioni avanzate da John Bossy nel suo Christianity in the West (trad. it. L’occidente cristiano). Bossy ha notato come nel matrimonio si scontrassero elementi del sacro e del profano. L’alleanza matrimoniale era il modo migliore per stabilire la pace tra le famiglie e riconciliare le faide in corso. La sacralità insita nella dimensione della parentela si scontrava però con le dimensioni irriducibilmente profane della sessualità e della successione. Il matrimonio era dunque soprattutto un’operazione sociale, dotata di una sacramentalità in cui la presenza del sacerdote non era necessaria. Il diritto canonico sostenne però fin dal secolo XII come lo scambio del consenso tra due individui maturi fisicamente fosse comunque un matrimonio sacramentale indipendentemente dal consenso dei genitori. E da questa constatazione era dunque possibile che un matrimonio fosse celebrato con tutti i crismi della validità anche senza il consenso dei parenti e senza la sequenza dei riti sociali. John Bossy nota come tale dottrina fosse legata all’idea del libero accesso alla grazia sacramentale e al diritto per i figli di seguire la vocazione religiosa (tesi sostanzialmente sostenuta pure da Jack Goody). E da qui la sostanziale ostilità da parte dei laici che nella scelta individuale vedevano un’incentivazione all’anarchia e la difficoltà a tutelare le eredità. Un’interpretazione che presuppone però un sostanziale scollamento tra società e istituzioni ecclesiastiche (che di quella erano certamente espressione). E più probabile però che la sottolineatura del consenso dei due nubendi come requisito essenziale del matrimonio derivasse dalla cultura diffusa nella stessa società. E nell’ambito di questa cultura l’idioma dell’onore si costituiva come parte essenziale e determinante. James Casey, riprendendo l’analisi di Julian Pitt-Rivers, ha notato come il concetto d’onore che informava la diffusa pratica dei rapimenti (ratti) richiedesse una certa flessibilità, incompatibile con il previo consenso dei genitori. La pratica dei rapimenti agevolava difatti le commistioni (e le alleanze) tra le due gerarchie dell’onore e della ricchezza). Ma pur senza respingere quest’ipotesi, appare evidente che le disposizioni canoniche in materia matrimoniale traessero comunque origine dalla cultura sociale più diffusa. Pensiamo ad esempio alle vere e proprie pratiche sociali gestite dai gruppi giovanili ed insignite indubbiamente di una dimensione giuridica rilevante. Il mondo dei celibi si muoveva in un’area di valori culturali che aveva una notevole autonomia rispetto al mondo degli sposati (si veda il saggio di  N. Schindler, «I tutori del disordine: rituali della cultura giovanile agli inizi dell’età moderna», in Storia dei giovani, a cura di G. Levi e J.-C. Schmitt). Ovviamente le interrelazioni esistevano (basti pensare alle riprese di alleanze di cui ho parlato in uno dei miei interventi nel forum), ma di certo il mondo giovanile si riservava spazi notevoli. Il tema del consenso individuava un suo fondamento di legittimità proprio nello spazio giovanile e nella sua dimensione sociale e giuridico-consuetudinaria. Se il Concilio di Trento avesse incluso nella nuova normativa matrimoniale pure l’elemento del consenso dei genitori, avrebbe certamente interferito con pratiche sociali consolidate e dotate di una forte valenza giuridica. Ovviamente in settori specifici della società, come quelli aristocratici, nel matrimonio si sottolineava soprattutto il valore di alleanza e, di conseguenza, della parentela e di conseguenza la libera scelta giovanile era fortemente avversata. In altri termini potremmo pure dire che le tensioni tra passione ed interesse era costante, ma di certo non era così facilmente risolvibile a favore di quest’ultimo. La soluzione tridentina fu un sostanziale compromesso tra gerarchia dell’onore e gerarchia della ricchezza e tra mondo dei celibi e mondo degli sposati. Il baricentro poteva spostarsi tra gli uni e gli altri a seconda delle forze e degli interessi in gioco. Va comunque detto che la nuova normativa ridusse gli spazi di ambiguità e di incertezza che potevano essere manipolati soprattutto dalle famiglie che avevano un certo peso sociale (si pensi alla situazione di Trivulzia Braccioduro e Pietro Saraceno). Vorrei ricordare la famosa frase di John Bossy a proposito della nuova normativa matrimoniale tridentina: “Cancellando la dottrina canonistica in base alla quale il contratto di sponsali seguito dalla copula carnis costituiva matrimonio cristiano, spazzando via il vasto corpus di riti e assetti consuetudinari in quanto privo di potenza sacramentale, si trasformava il matrimonio da processo sociale garantito dalla Chiesa a processo ecclesiastico dalla Chiesa amministrato”.

Re: L’anello al dito e le belle parole di Valeria Favretto – lunedì, 22 giugno 2009, 12:41

  Leggendo questo intervento del Prof. Povolo mi sono venute in mente alcune osservazioni:

1. Nel matrimonio pre tridentino di Cecilia e Giovanni (saggio Fornasa) mi sembra interessante (e anche divertente) vedere come Giovanni “arruolò” il testimone Rocco. Mi sembra che queste battute mettano in rilievo l’elemento principale nel matrimonio pre tridentino: il consenso degli sposi, mentre al testimone si chiedeva di sentire le parole e vedere i gesti che manifestano il mutuo consenso. Infatti, V. Hunecke (Il patriziato veneziano….)sottolinea che prima del concilio di Trento il sacramento del matrimonio si perfezionava solamente in virtù del libero scambio del consenso degli sposi: le altre formalità richieste dalla Chiesa, come anche la presenza dei testimoni, erano auspicate ma non essenziali per la validità del matrimonio stesso.

2. A cavallo fra il periodo pre e post tridentino, il matrimonio conosce una trasformazione, come dice J. Bossy nella citazione poco sopra riportata: questa trasformazione avviene giocoforza attraverso un periodo di transizione. Infatti, i grandi cambiamenti avvengono sempre in maniera fluida e diluita e la società stessa, in questi frangenti, si rivela allo stesso modo fluida e magmatica. Non si può ritenere di poter cambiare una pratica sociale secolare dall’oggi al domani.

A tal proposito, più volte abbiamo avuto occasione di dire e di vedere come il diritto canonico fosse un diritto molto pratico: esso affrontava questo periodo di trasformazione con consapevolezza rispetto alla complessità dello stesso cambiamneto in atto. Su questo tema, mi è venuta in mente una considerzione fatta dagli avvocati di Euriemma sull’ambiguità del matrimonio dei genitori della ragazza (Le conseguenze del matrimonio di Trivulzia Brazzoduro. Informazione del fatto). Essi, ancora nel 1604, sottolineavano che anche la Chiesa, consapevole che nel 1577 si fosse in un momento di transizione, “dovesse mitius interpretari”, cioè ritenesse d’obbligo dare un’interpretazione meno rigida della celebrazione del matrimonio specifico.

3. Il concilio di Trento non accolse come elemento di validità del matrimonio il consenso dei genitori. Questo avrebbe favorito piuttosto gli Stati Nazionali che si rapportavano ad individui e non a lignaggi. I lignaggi del sud Europa furono: a) favoriti da questa disposizione. Essi sostituirono al consenso dei genitori il rapimento che consentiva il dialogo fra la gerarchia dell’onore e quella del denaro, consentendo allenanze altrimenti non accettate dalle regole dell’onore; b) penalizzati: se il consenso dei genitori fosse stato ritenuto necessario per la validità del matrimonio,avrebbe permesso alla parentela, che già controllava la successione patrimoniale, di condizionare in toto la scelta matrimoniale dei giovani. Cosa che la Chiesa non voleva: infatti, J. Bossy nella citazione poco sopra riportata conclude dicendo che il matrimonio dal concilio di Trento diventò un processo ecclesiastico amministrato dalla Chiesa.

Re: L’anello al dito e le belle parole di Claudio Povolo – martedì, 23 giugno 2009, 01:39

Valeria ha colto l’interessante riferimento degli avvocati di Euriemma: la transizione da una normativa all’altra e la necessità da parte dei tribunali ecclesiastici di agevolare l’applicazione del matrimonio tridentino senza eccessive rigidità e severità. C’è poi un altro aspetto interessante che ho definito: l’emergere della tradizione. Il matrimonio tridentino, incentrato sullo scambio dei consensi tra i due nubenti (i testi erano essenziali per la legittimità, ma non per la validità del matrimonio) fece inevitabilmente emergere pratiche sociali più o meno diffuse, che la società accoglieva e declinava anche in virtù dello status sociale dei contraenti. E’ il caso del matrimonio segreto oppure la pratica assai diffusa del concubinato, in particolare di quello ancillare. D’altro lato la normativa tridentina mise progressivamente in ombra altre pratiche sociali innervate nella tradizione e nella cultura della parentela: come i riti nuziali e gli sponsali (fidanzamento). Cambiò anche la fisionomia del matrimonio clandestino: prima di Trento era il matrimonio che si risolveva senza testimoni; dopo Trento è invece il matrimonio che si svolge senza le necessarie pubblicazioni. La clandestinità non è data dalla rottura di un patto sociale (in cui i due nubendi avrebbero dovuto incardinarsi), ma dal mancato rispetto di una regolamentazione che delineava un diverso scenario sociale. La pubblicazione alle porte della chiesa (per tre domeniche consecutive) sanciva dopo Trento il rapporto tra i due nubendi e la società intesa nel suo complesso. Prima di Trento inoltre possiamo individuare una sorta di sovrapposizione tra matrimonio clandestino e rapimento volontario (i testimoni erano spesso gli stessi alleati del rapitore). La fuitina che avveniva con il consenso della giovane coincideva sostanzialmente con il successivo scambio di consenso (belle parole e tocco della mano). Dopo Trento il rapimento (o fuitina) non coincide con il matrimonio clandestino, il quale prevede comunque la presenza del parroco (anche se non consenziente: vi ricordate don Abbondio?). Ovviamente qui è dato di cogliere una tensione molto forte tra l’idioma dell’onore e la normativa matrimoniale. Una ragazza ‘rapita’ perdeva inesorabilmente il proprio onore se non veniva sposata dal rapitore. Proprio per evitare il pericoloso svilupparsi di queste tensioni i prelati riuniti a Trento avevano previsto che il matrimonio avrebbe potuto svolgersi solo dopo che la ragazza fosse stata restituita alla casa paterna. Un modo per non contrastare la pratica dei rapimenti volontari, ma anche per assicurarsi che non si svolgessero contro un palese dissenso dei genitori. Il dissenso si sarebbe tramutato in decisa opposizione solo se si fosse realizzata una mésaillance. In questo caso la famiglia avrebbe preferito tenersi la ragazza ‘disonorata’.


Polissena Scroffa vista da Paolo Sarpi di Roberto Sartore – sabato, 13 giugno 2009, 09:51

Dal consulto del 20 luglio 1620, Paolo Sarpi fa trasparire una nuova donna che, nonostante la sua giovane età, non ha timore a scrivere e riscrivere al consiglio dei dieci chiedendo di veder esaudito il diritto a poter scegliere la propria vita.

E’ pur vero che intorno a questa quindicenne ruotano chissà quanti personaggi interessati all’immensa fortuna del nonno Vincenzo, (ben consigliata da altri dice nel suo consulto Fra Paolo) ma della pulzella salta subito agli occhi la sua decisa volontà .

Polissena, donna erede, ma anche precorritrice dei tempi, sembra una donna del 1700 perchè anche se nell’altro argomento del corso troviamo due donne, attrici principali della contesa:  Auriemma è coadiuvata dal Caldogno, suo marito, e la zia spalleggiata da tutti i Saraceno, lei è sola contro un mondo maschilista e potentissimo.

Fra Paolo interviene in sua difesa, il temporaneo inconventamento da lui consigliato, suona come una difesa per la giovinetta  dal mondo esterno.

 Il consiglio dei dieci, adottando il sistema del far finta di non sentire cioè non rispondendo più alle missive continue della Polissena,  fa  ritornare la giovinetta sui suoi passi ed acconsentire in toto al voler del nonno.

Dalla vicenda esce una donna forte, che tenta di imporre le proprie ragioni, non ricorrendo al potente per chiedere  ma bensì esponendo la propria volontà.

Re: Polissena Scroffa vista da Paolo Sarpi di Claudio Povolo – sabato, 13 giugno 2009, 16:53

Sì, Polissena sembra una giovane decisa che sa quel che vuole, anche se è difficile ovviamente discernere quanto abbiano contato le pressioni esterne; ma non dimentichiamo che resiste nel monastero in cui è rinchiusa per circa un anno. Cede infine di fronte alla consapevolezza che non ha altre scelte. Diciamo che in questa vicenda, gli avvenimenti si snodano al di fuori del discorso prettamente giudiziario che sembra invece caratterizzare la storia di Euriemma e di altre donne considerate nel sito. E la figura della giovane traspare meglio di quella di altre donne che sono soprattutto il referente giuridico di una più ampia contesa. E non dimentichiamo, inoltre, che tutto si incentra su di una scelta che lei dovrà fare. Nelle parole di Sarpi si coglie in particolar modo una sensibilità e un’attenzione nei confronti della giovane che si è probabilmente ritrovata inserita in un gioco più grande di lei.

Re: Polissena Scroffa vista da Paolo Sarpi di Cristina Setti – sabato, 13 giugno 2009, 23:24

  C’è un aspetto che, quando si parla di “forza” o “determinazione” di queste donne d’altri tempi, mi lascia un po’ perplessa. In generale si è portati a credere, anche a ragione, che queste signore, inserite in conflitti e logiche di appropriazione del potere completamente maschili, siano in qualche modo manipolate dai rappresentanti (palesi e occulti) di tali logiche. Vero è che le caratteristiche di genere sono, per quanto relative, storicamente e culturalmente determinate, almeno per il tipo di società che stiamo studiando. Vero è che l’oggettivo squilibrio sociale e politico che vigeva tra uomini e donne condizionava pesantemente non solo le (poche) possibilità di scelta femminili, ma anche la loro stessa psicologia, secondo canoni di rispetto e pudicizia tesi a comprimere la loro personalità ai fini di un evidente desiderio di controllo della sfera maschile su quella femminile: il riserbo, il senso del pudore, una socialità ristretta perlopiù all’ambito famigliare, nonché lo stesso istituto della dote (intesa sia come compensazione sia come valore di scambio), sono solo alcuni dei meccanismi con cui il potere patriarcale di molte società europee (e non) ha secolarmente impedito l’accesso femminile alla gestione del potere, e di conseguenza alla formazione delle sue leggi, dei suoi linguaggi e delle sue ritualità.

A maggior ragione quindi, sono notevoli d’osservazione quelle personalità femminili che, all’interno di siffatti contesti culturali, ovvero all’interno di contesti in cui la norma extragiuridica (il linguaggio dell’onore) conta spesso più della legge o della stessa consuetudine, riescono a volgere a loro favore quegli istituti (come il matrimonio) che, rientrando nella sfera dell’onore-virtù, praticano nei fatti una sorta di “irregimentazione” della componente femminile: proprio il matrimonio, che sembra ridurre la donna a mera “merce di scambio” tra differenti lignaggi, le conferisce invero una forma di legittimità, quasi un’aura di dignità, espressa nel suo status di “moglie” e di “madre”, di intima custode del nucleo famigliare. In un contesto aristocratico, ove il potere femminile si situa nella capacità di perpetuare la dimensione del lignaggio in ragione di un atteggiamento “virtuoso”, tale ruolo secondo me può consentirle di riproporre le proprie rivendicazioni successorie con più incisività di una fanciulla minorenne: sia Euriemma Saraceno che Caterina Corradazzo affrontano le rispettive liti giudiziarie dopo essersi sposate; Euriemma, forse proprio in virtù della ricca dote che la madre prima di morire è riuscita a garantirle, riesce a divincolarsi dalle pretese dei Saraceno sposando un membro esterno a quel lignaggio, perdipiù avendo resistito alle pressioni che la famiglia d’origine le aveva fatto tenendola in casa della zia, e cercando di avviarla a un matrimonio di tipo endogamico; Caterina d’altra parte, se non ho capito male, in base alle costituzioni della Patria del Friuli può rivendicare dagli zii una quota legittima corrispondente alla propria dote. Polissena invece, che pure in quanto erede designata sembra avere una posizione privilegiata rispetto ad altre sue contemporanee, risulta in realtà indebolita dalle condizioni cui è vincolata la sua eredità: come dice anche Roberto, la sua tenacia lascia però intravedere, aldilà dei probabili suggerimenti di attori occulti e interessati, una personalità non da poco per una ragazza così giovane. Ella secondo me in questa vicenda alla fine sconta, oltre che la presenza di fattori politici e simbolici determinanti, anche la debolezza di una categoria sociale marginale e ininfluente, qual era quella dei figli rispetto ai loro padri o tutori.

Posto quindi che queste figure femminili riescano, o tentino di riuscire, a sfruttare bene o male sia le loro prerogative sia le sottili ambiguità derivanti dal loro status giuridico e familiare; posto anche che ciò le faccia apparire ai nostri occhi delle persone di carattere, magari perchè è proprio la nostra emancipazione mentale a costituire il nostro principale filtro ideologico (la psicologia di chi vive in funzione di un gruppo compatto e ristretto può risultare davvero sfuggente a noi liberi individui in libera società!), o magari perchè difatto lo erano, mi chiedo come questo tipo di rivendicazioni femminili potessero essere percepite dai loro contemporanei. Ovverosia: le questioni successorie sollevate da soggetti femminili, dal punto di vista aristocratico, erano un fatto meramente strategico (ed economico) o anche un evento destabilizzante? Quanto c’era di “eversivo” nell’esposizione, in sede processuale, di figure normalmente relegate nella dimensione privata/domestica? Che conseguenze poteva avere l’azione giudiziaria (civile) di una moglie o promessa sposa sulla sua qualifica di “donna virtuosa”, sul suo onore? In fondo la dimensione dell’onore-virtù costituisce “l’altra dote”, l’altro valore di scambio che una donna (di qualunque ceto) poteva spendere a livello sociale…una sua sovraesposizione, magari accentuata dal “gossip”, non rischiava di compromettere anche tale dimensione?

Re: Polissena Scroffa vista da Paolo Sarpi di Claudio Povolo – domenica, 14 giugno 2009, 15:17

Cristina esplicita il suo scetticismo nei confronti dell’esistenza di una dimensione femminile che potesse esprimersi adeguatamente al di fuori di quella privilegiata che la cultura dell’epoca assegnava alla donna in forza di una concezione dell’onore (onore virtù) che comunque le concedeva taluni spazi, ma solo nell’ambito famigliare. E la ricerca di spazi alternativi rifletterebbe, molto spesso, aspettative e valori che appartengono alla cultura odierna (come ha spesso suggerito una certa storiografia femminista). E’ di certo difficile individuare dietro alle molte cause successorie che agitarono le famiglie aristocratiche (e non) in età moderna, e che oggi riempiono gli scaffali degli archivi, un’autonoma inziativa femminile. Come suggerisce Cristina la concezione dell’onore femminile comportava l’esclusione dalla competizione materiale (politica, economica, ma non solo). Ma se pensiamo che la famiglia (lignaggio) in età medeievale e moderna era la vera struttura portante della società e che in molti casi possedeva anche una dimensione politica, è d’obbligo il dubbio sull’effettivo ruolo femminile nella società dell’epoca. Altre fonti, come ad esempio quelle penali, in particolare i processi, rivelano come lo spazio femminile in molti casi non fosse poi così esiguo, anche se circoscritto. Io direi che si tratta pure di un problema di narrazione che è essenzialmente legata alla natura delle fonti. Una fonte, qualsiasi sia, è significativa per quello che esplicita direttamente, ma anche per quello che omette. Questa riflessione è stata ben esplicitata da un noto romanziere moderno:

“Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora…”

Le cosiddette fonti sono l’ordito di fatti, non sempre concatenati razionalmente, che nascondono la trama di una narrazione. Non è sempre possibile o facile coglierla, soprattutto se il nostro interesse è rivolto a delineare il profilo biografico femminile. La storiografia femminista (ne discutavamo all’inizio del forum) si è chiesta se esistesse una individual agency femminile, una possibilità di scelta del soggetto femminile in un contesto decisamente declinato in base ai valori maschili predominanti (lignaggio, patrilinearità, agnazione, ecc.). Penso che la risposta sia positiva. Un fattore importantissimo è dato ad esempio dalla cultura dell’onore. L’onore femminile, lo sappiamo, non poteva essere accresciuto (assenza di competizione), ma solo difeso. Ma l’onore maschile, è indubitabile, dipendeva strattamente dal comportamento femminile: un potere non indifferente che poteva essere giocato in molti modi. Ma anche la ricchezza, che così spesso le vicende biologiche non prederminate, facevano affluire in mani femminili, giocavano un peso non indifferente. Per non parlare di fattori collegati più strettamente al ruolo tradizionale della donna, ma che potevano giocare a suo favore (riproduzione, controllo diretto sui figli, ecc.).

Infine, credo si tratti di una questione di narrazione, che nelle cause successorie si coniuga con quella che ho definito storiografica. Dalla causa Saraceno emerge, ad esempio, il profilo di una donna, Trivulzia Brazzoduro, che si trova ad agire in uno stato di completa inferiorità, ma che fino all’ultimo tenta di giocare le sue carte. E che dire di Anna Mascarello Ferramosca o della sua opposta seicentesca Anna Ferramosca? La molteplicità delle fonti caratterizza invece il profilo biografico di Laura Ghellini: ne esce una figura di donna complessa e contraddittoria, ma che sembra infine scegliere la sua strada.


Essere donna di fronte alla giustizia di Cristina Bagarotto – domenica, 7 giugno 2009, 22:01

L’oggetto principale delle vicende raccolte in questo sito sono le donne, e al di là delle pressioni e i condizionamenti di componenti maschi della famiglia che in qualche modo potevano averle spinte ad intraprendere una causa legale per difendere i loro interessi ritenuti legittimi e sacrosanti, alla fine sono loro, le donne, a ricorrere e a porsi in prima persona – seppure attraverso i loro avvocati – dinanzi alla giustizia.

Ma la giustizia a quel tempo non era una istituzione neutrale e asessuata, bensì amministrata e composta esclusivamente da uomini, da maschi intendo.  Maschi erano gli avvocati e, soprattutto, maschi erano i giudici che – appartenenti loro stessi alla classe del patriziato veneziano o della nobiltà locale – sicuramente comprendevano e condividevano le strategie economiche e di potere e i mezzi (non sempre improntati alla legalità) utilizzati dai lignaggi aristocratici nelle successioni ereditarie.

Ora io mi chiedo, quali erano – o forse meglio chiedersi se effettivamente c’erano – le garanzie di imparzialità super partes, e quindi di giustizia, da parte di coloro che dovevano applicare la legge, di fronte ad un procedimento legale intentato da una donna – nei secoli scorsi ritenuta una persona fragile e incapace di provvedere a sé stessa – rispetto a medesime istanze rivendicate da uomini.

Re: Essere donna di fronte alla giustizia di Claudio Povolo – lunedì, 8 giugno 2009, 22:59

Cristina solleva un problema che, in qualche punto del sito, avevo prospettato. Di certo la vertenza giudiziaria, quando concerne diritti che ricadono su un personaggio femminile (figlia, moglie, madre, vedova) è indubbiamente declinata al femminile. Il soggetto femminile sembra parlare in prima persona, anche se talvolta, come nel caso di Euriemma, il marito Scipione Caldogno fa capolino tra le carte stese dagli avvocati. La dimensione giudiziaria al femminile è dunque d’obbligo in quanto riguarda diritti che sono oggettivamente (o soggettivamente) rivendicati da donne. Ma, come osserva Cristina, i veri protagonisti sembrano gli uomini, che possono ben rivendicare il loro ruolo predominante alla luce di una visione della famiglia e della parentela informata dall’agnazione, dalla consanguineità e dalla patrilinearità. Dunque le donne hanno un ruolo secondario? Non direi, al di là ovviamente di una dimensione culturale in cui la competizione materiale è riservata esclusivamente agli uomini. Il fatto stesso che la causa debba essere declinata ‘al femminile’ costringe innanzitutto gli uomini (direttamente coinvolti nella vertenza) a prendere atto di una realtà materiale, culturale e simbolica che non è di loro esclusiva pertinenza. Ad esempio il soggetto femminile che rivendica i suoi diritti ereditari contro una concezione del lignaggio incentrata sui fedecommessi, frammenta il discorso complessivo, introducendo variabili femminili importanti come la dote, la legittima, le relazioni tra madre e figlia. La parte maschile coinvolta (che sappiamo che molto spesso è quella che si muove attivamente nella vertenza), deve utilizzare un discorso al femminile che non può rimanere essenzialmente strumentale. Così facendo il maschio spezza la sua stessa identità e diviene consapevole dell’essere padre, marito, figlio. Non dimentichiamo, inoltre, un altro, non meno rilevante, aspetto. I beni materiali declinati al femminile, conservano una valenza giuridica che di certo non sembra essere quella neutra, solitamente appannaggio dei maschi (quella possessione è tale in quanto proveniente dagli avi…). Riversata nell’ambito della famiglia nuovamente costituita amplifica inevitabilmente il ruolo femminile, porta a riconsiderare i rapporti tra marito e moglie, tra padre e figlia. Non parliamo della vedova che può ben rivendicare un ruolo attivo, soprattutto se a disposizione ha dei beni provenienti dalla linea paterna. E può persino scendere nella stessa competizione materiale, che solitamente è di pertinenza maschile (emblematico il caso di Anna Ferramosca). Ed infine, si può pure osservare, che in fondo le potenzialità del mondo femminile sono date pure dalla stessa pluralità (spesso conflittuale) che inevitabilmente caratterizza il mondo maschile, che è lungi dall’essere o dal rappresentarsi in maniera monolitica. E così la dimensione femminile può essere strategicamente declinata nel modo che lo stesso linguaggio della parentela non può interamente racchiudere, soprattutto se essa si apre alle relazioni che inevitabilmente investono il mondo famigliare. E così si può essere madre, ma anche vedova e matrigna; figlia, ma anche fidanzata o pretendente; moglie, ma anche amante, oppure semplicemente madre e donna pia o, all’incontrario, donna salottiera.

Diciamo che le vertenze giudiziarie si costituiscono come uno spettro in cui la dimensione al femminile è costretta ad emergere in tutte le sue contraddizioni, svelando la complessità del suo essere.


Matrimonio e successione: i risvolti del medesimo problema. di Claudio Povolo – lunedì, 1 giugno 2009, 01:03

In una sintesi di grande rilievo André Burguière ha messo in rilievo le strette connessioni esistenti tra strategie matrimoniali e pratiche successorie, sottolineando pure i tratti che le contraddistinguono nella società europea dell’età medievale e moderna. Cerchiamo di puntualizzare i punti più significativi di una sintesi che ha tentato di cogliere i meccanismi di riproduzione di valori e della ricchezza in una società che pure si caratterizza per un estremo polimorfismo economico e culturale. Non è difficile calare molte di queste osservazioni nelle vicende da noi esaminate, in cui pratiche matrimoniali e pratiche successorie sono strettamente interconnesse:

a) le consuetudini ereditarie che regolamentano la trasmissione dei beni tramite la successione (testamenti e ab intestato) oppure in via anticipata (tramite i matrimoni) assicurano la riproduzione in due modi: sia nella loro materialità (spartizione dei patrimoni), che nei loro principi (classificazione degli individui: primogeniti/cadetti, maschi/femmine, moglie/marito), secondo un ordine gerarchico che tende a riprodurre il sistema sociale. Alcune consuetudini privilegiano il principio di equità, altre fanno circolare i beni rispettivamente lungo la linea maschile e femminile; altre ancora privilegiano la continuità del casato e del lignaggio.

b) Pur tratteggiando la famosa tripartizione individuata da Le Roy Ladurie per la Francia in base al diritto che presiedeva alle consuetudini ereditarie (si veda per questo il saggio di Caterina Corradazzo), Burguière osserva però come tutte le famiglie, da quelle dell’aristocrazia fondaria a quelle dei modesti coltivatori, ispiravano tramite l’educazione (cultura potremmo definirla) una serie di pratiche sociali complesse (educazione, alleanze di matrimonio, scelta dei padrini, gestione del patrimonio, trasmissione dei beni). Un gioco sociale che aveva l’obbiettivo di agevolare i destini individuali e di preservare le fortune e le ricchezze del gruppo di appartenenza.

c) Tra consuetudini e pratiche esiste di regola un forte distacco. Sono molte le cause di questa divergenza. Fattori oggettivi legati alle crisi demografiche ed economiche. Ma anche scelte soggettive che dipendono da decisioni personali dei genitori (valori affettivi, morali, ecc.). E non a caso abbiamo parlato di emozioni e di interessi. E si può affermare che regole e consuetudini non egualitarie non corrispondono necessariamente a un desiderio di diseguaglianza, ma desiderano difendere l’unità di un possedimento o di una casata, compensando in altro modo gli esclusi (doti, esercizio alla professione, legittima). Sono le condizioni economiche e demografiche a dettare spesso l’ineguaglianza. Burguière ricorda come le consuetudini in materia di primogenitura e di esclusione in Francia e in Inghilterra si siano sviluppate nel XV secolo perché la terra era abbondante, ed un escluso, adeguatamente risarcito, poteva trovare fortuna altrove. E la posizione di quest’ultimo non era affatto sentita come inferiore rispetto a quella del prescelto che spesso cadeva sotto l’autorità dei genitori e dei parenti. Agli inizi del Cinquecento (pressione demografica) i figli dotati preferiscono non correre il rischio di allontanarsi dalla casa paterna e la dote è meno vantaggiosa. E rimangono anche al costo di non sposarsi. Nelle congiunture del ‘6-‘700, con la crescita demografica e il rialzo della rendita fondiaria, il privilegio dell’erede ancora non è invidiabile, poiché la sicurezza data dal restare vicino al padre (infatti la terra disponibile è rara) significa il subirne l’autorità e la tirannia. E insieme alla terra l’erede ereditava pure i debiti del padre con i pesanti legati (per dotare sorelle e fratelli). La preoccupazione di equità verso i figli, anche laddove, come nelle aristocrazie, le strategie di esclusione erano più marcate, si nota sia in forme di compensazione (educazione) o in esplicite dichiarazioni di giustificazione. Le strategie di esclusione dovevano in realtà scendere a patti con un bisogno latente di eguaglianza che appartiene al cristianesimo o più propriamente allo spirito di parentela europeo (ne abbiamo parlato nel corso del forum, soprattutto alla luce delle osservazioni di Julian Pitt-Rivers). Si può dire che ogni consuetudine successoria è una forma di compromesso tra ricerca di equità e preoccupazione di assicurare la continuità del patrimonio. E’ difficile quindi equiparare diverse formule giuridiche in materia successoria. In realtà tutte le regole si adattano alle fluttuazioni economiche e demografiche. Le scelte diverse rispetto alla medesima congiuntura economica si spiegano molto spesso con i rapporti di forza esistenti tra i vari gruppi sociali e con l’influenza delle istituzioni politiche. Ad esempio le pratiche di esclusione hanno potuto meglio radicarsi in contesti sociali politicamente privilegiati, laddove si riteneva importante opporsi allo spezzettamento del patrimonio famigliare.

d) Le pratiche di esclusione sono solo una caratteristica dell’aristocrazia? E’ indubbio che, diversamente chiamate (mayorazagos in Spagna, fedecommessi in Italia, strict settlements in Inghilterra, sostituzioni o fedecommessi in Francia) esse si siano diffuse per difendere il patrimonio. Dove la monarchia era più forte, come in Inghilterra, le pratiche di esclusione hanno però subito una forte limitazione (come ha dimostrato J.P. Cooper nel suo grande saggio sull’aristocrazia europea). E in Francia la monarchia ha tentato pure di contenerle. Ovviamente l’intervento dello stato si commisurava al potere goduto dalle aristocrazie al suo interno. Nel caso veneziano, la struttura repubblicana ed aristocratica dello stato favoriva teoricamente l’adozione di tali pratiche. Ma ad esempio non è sempre possibile scorgere un analogo atteggiamento dei tribunali veneziani nei confronti delle grandi aristocrazie di terraferma. Come si è già ripetutamente notato nel corso del forum, le pratiche di esclusione non erano scevre di contraddizioni. Le figlie costituivano l’ostacolo maggiore alle concentrazioni dei patrimoni, ma erano pure il trait d’union di grandi e prestigiose alleanze, che richiedevano l’ampliamento delle doti. Le doti aumentano vertiginosamente in tutta Europa. E le doti, insieme alle quote di legittima pretese dagli esclusi minacciavano costantemente le strategie di esclusione (si veda il caso dei Saraceno). Quale efficacia avevano dunque queste strategie di esclusione? Si sa che esse ebbero un effetto di blocco sull’economia (anche se la valvola di sicurezza dei conflitti denota che non si trattò di un movimento a senso unico); ed inoltre condussero all’estinzione di molti lignaggi (emblematico il caso dei Ferramosca). Si è osservato che le polemiche contro i fedecommessi che sorge nel Settecento è espressione di una critica di origine borghese, ma che riflette pure la preoccupazione da parte di alcuni settori della stessa nobiltà per le diffuse ingiustizie e per il clima di decadenza che ha colpito lo stesso ceto sociale. In realtà le ricerche condotte hanno dimostrato che le pratiche di esclusione erano diffuse notevolmente anche tra la borghesia e altri ceti sociali. Anche nel mondo contadino, laddove si era costituito un certo patrimonio, si è inclini a ricorrere a pratiche di esclusione. Lo sforzo è in questo caso nel calibrare i matrimoni cercando di non far uscire doti consistenti, sia in beni che in denaro (un esempio è costituito dai cosiddetti matrimoni doppi: matrimoni che uniscono due fratelli a due sorelle). Ma la circolazione delle doti avviene anche su due o più generazioni (ripresa di alleanze).

e) Si può affermare che esista una stretta correlazione tra strategie di riproduzione economica e logica delle parentele nelle strategie matrimoniali. Un fenomeno così diffuso anche in contesti sociali e regionali assai diversi. Questo avviene, come si è detto di sopra attraverso i matrimoni doppi o le riprese di alleanza (scambio di doti su più generazioni) tra parentele che già sono imparentate (ponendosi sia al di qua che al di là della parentela proibita). I matrimoni doppi permettono di evitare il trasferimento di doti e di legittime. La ripresa di alleanza serve per riunire parti di proprietà indivisa su una casa o su un terreno.

f) Il tema della parentela si gioca anche sul piano della consanguineità e dell’endogamia. Per sposare un consanguineo era necessaria una dispensa ecclesiastica che doveva essere preceduta da una richiesta motivata. Tali richieste nelle aristocrazie erano spesso motivate per trasferire a un ramo cadetto il patrimonio (poiché il ramo principale non aveva eredi maschi). Ma la consanguineità era altrettanto frequente nel mondo contadino e le richieste di dispensa erano motivate spesso dalla ristrettezza degli isolati in cui si viveva. Ma in realtà l’endogamia (il matrimonio contratto all’interno dello stesso gruppo sociale o della stessa comunità) nelle campagne non è sempre collegata all’isolamento geografico delle popolazioni (come in montagna o nelle isole). Essa è infatti diffusa anche in pianura. Si tratta quindi di un comportamento voluto e non subito. La necessità di sposarsi quanto più vicino possibile (entro la propria parrocchia o contrada) era dovuta al fatto di ricostituire sul medesimo territorio una base vitale di risorse mediante la riunione di due frammenti di un podere che in passato era stato suddiviso. La pratica dell’endogamia consiste nello spostarsi appena oltre la parentela proibita, nel vicinato, nella contrada, nella comunità. Le forti rivalità tra gruppi giovanili di contrade o comunità diverse era essenzialmente dovuta all’esisgenza di difendere queste strategie matrimoniali. La tendenza è dunque di far coincidere la consanguineità con le relazioni di affinità. Non si cerca il consanguineo di per sé, ma si ricerca la ripresa di alleanza che legittima il rapporto di vicinato. Il meccanismo della ripresa legittima i legami di consanguineità, ma li confonde con quelli di affinità.

g) Nel mondo contadino ci si sposa quindi quanto più vicino è possibile. Un’endogamia che crea stabilità e che spiega come in molte comunità si ripresentino gli stessi cognomi anche a distanza di secoli. Omogamia (matrimonio contratto tra stessi ceti sociali) e endogamia sono dunque i risvolti di un medesimo fenomeno. Ma l’omogamia è diffusa anche tra la nobiltà (ci si sposa per lo più solo tra nobili) o la ricca borghesia. Ma l’omogamia è diffusa soprattutto laddove la diversità delle attività o della condizione sociale è ben individuabile, come in città. Si attinge così a un mercato matrimoniale non ristretto al vicinato. Quanto più è elevato il rango sociale tanto più si cerca fuori. Nelle campagne dove ci si sposa con qualcuno del posto o del vicinato i criteri di scelta possono variare, ma l’obbiettivo è la ricostituzione del patrimonio che deve rimanere indiviso.

h) Si è parlato a proposito delle scelte contadine incentrate sul vicinato di strategie di cooperazione. Nelle classi superiori, ma anche nel mondo contadino dove la successione si accentra su una casa, si parla di strategie di conquista. In quest’ultime lo sfondo è spesso costituito dal conflitto e dalla faida. Un matrimonio può sancire spesso una pace (un esempio significativo nel mio L’intrigo dell’onore). In seno alle classi elevate un matrimonio ingenera un clima di tensioni e di rivalità. Il punto di riferimento delle strategie matrimoniali è di tipo gerarchico, ma i cui criteri di classificazione sono per lo più imprecisi. Nessuna famiglia è perfettamente eguale ad un’altra (per patrimonio, reputazione, status). Il clima è agonistico e si gioca molto spesso sul piano dell’onore.

i) a questo clima di tensioni, si contrappongono le strategie di cooperazione di quelle comunità contadine in cui le solidarietà sociali assicurano un potere di regolamentazione sia sul piano matrimoniale che sul piano successorio. E’ compito dei gruppi giovanili assicurare che queste strategie possano intercorrere senza intrusioni esterne e uniformando le scelte all’interno della comunità (pratica degli charivaris). In queste comunità la consanguineità non è percepita come tale. La moltiplicazione degli scambi tra coniugi fra gruppi di discendenza disposti su una medesima e ristretta area territoriale (spesso una stessa contrada) avviene in modo spontaneo. Consanguinei e affini non sono radicalmente separati: in queste comunità il matrimonio li fonde e il matrimonio è lo strumento tramite cui socialità ed obblighi si realizzano. Entrambe le strategie non si ritrovano allo stato puro, ma esse svolsero un ruolo importante nelle società di antico regime, collocandosi, in maniera più o meno intensa, nelle diverse fasce sociali.

Re: Matrimonio e successione: i risvolti del medesimo problema. di Elisabetta Savarese – giovedì, 4 giugno 2009, 18:02

Come risposta del tema proposto dal professore vorrei citare un passo dello studio di casey,la famiglia della storia, che mi sembra riprendere le problematiche proposte:

“….Uno degli esponebti dell’ approccio antistrutturalista,Pierre Bourdieu, avverte che le regole del matrimonio e dell’ eredità possono risultare una sorta di illusione ottica per l’ osservatore. la vita dell’ individuo viene adattata con una ceta flessibilità alle esigenze della comunità locale……le strutture familiari, però, non sono istituzioni indipendenti; esse costituiscono, piuttosto, una serie di adattamenti imperfetti e mutevoli della psiche umana alla cultura e all’ ecologia di una determinata aerea. A rivestire interesse non sono tanto le strutture…., bensì il modo in cui lenorme comportamentali si evolovono e si adattano ai bisogni individuali…

Re: Matrimonio e successione: i risvolti del medesimo problema. di Claudio Povolo – giovedì, 4 giugno 2009, 19:34

Sì, il passo di Pierre Bourdieu, ricordato da Elisabetta, si accorda molto bene alle osservazioni avanzate nel mio messaggio precedente. Nelle questioni successorie il dato giuridico si costituisce, nonostante i giuristi tentino di definirne con certezza i confini e le caratteristiche, come un terreno magmatico, in continua via di trasformazione. Aspetti economici, demografici, ma anche scelte individuali o famigliari, ne modellano costantemente la disposizione. Il dato politico e giudiziario, poi, influisce di certo, almeno nei conflitti che concernono grandi patrimoni, nell’imprimere alla dimensione giuridica una vocazione che, di primo acchito, possiamo definire volubile. L’importante in queste ricerche (su cui c’è ancora molto da fare), è cogliere le dinamiche che mettono in costante relazione i discorsi con le pratiche e le rappresentazioni. Il mio intervento intendeva comunque mettere in rilievo come il dato di fondo che possiamo rintracciare nell’estrema predisposizione all’equità dei sistemi successori vigenti all’epoca, possa essere forzato in virtù di una concezione specifica della famiglia o della comunità (o persino della contrada), ma che comunque difficilmente si possano suddividere i sistemi successori in base a criteri rigidamente predeterminati (come fece lo storico francese Le Roy Ladurie per la Francia). Differenze apparantemente marcate, in realtà non sussistono se esaminate alla luce del contesto specifico, oppure delle variazioni economiche; mentre similitudini, altrettanto apparenti, nascondono divergenza non da poco. Di certo una variabile è rintracciabile ovunque: il tentativo, da parte di ogni nucleo familiare, di mantenere integro il proprio patrimonio, pur di fronte al grande problema della cessione delle donne (problema ancor più rilevante trattandosi di un’anticipazione di eredità) e al costituirsi di unità di solidarietà non necessariamente collegate al vincoli di consanguineità (come ad esempio è invece la classica fraterna). Un fattore di coesione era costituito dall’idioma dell’onore (paradigmatica in questo senso la vicenda di Euriemma Saraceno) o dai vincoli politici (nel senso più ampio del termine) di solidarietà esistenti tra lignaggi, che spingeva ciascuno di essi a contenere i conflitti in una dimensione accettabile e a mantenere rapporti di scambio e di reciprocità.


Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Paola Caldognetto – mercoledì, 27 maggio 2009, 14:28

  Cari compagni di corso, con l’autorizzazione del professore chiedo ad ognuno adesione certa o assenza qualora la gita a Finale di Agugliaro sospesa per sabato 30 maggio si realizzasse sabato 6 giugno.

Vi prego entro venerdì p.v. di dare la risposta a lezione (venerdì 29/05) oppure rispondendo a questo messaggio nel forum.

Il professore valuterà in seguito al numero delle adesioni se confermare la gita per sabato 6 giugno.

Grazie, Paola Caldognetto

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Claudio Povolo – mercoledì, 27 maggio 2009, 14:32

Aggiungo alcune informazioni al messaggio di Paola. Ho sentito il prof. Beltramini (direttore del Centro studi Palladio), sarebbe disponibile ad accompagnarci nella visita del sei, ma nel pomeriggio. Si potrebbe dunque fare così: Ritrovarci come previsto, proseguire per Orgiano e dopo il pranzo inoltrarci a Finale (diciamo intorno alle 15.30). Dove ritroveremmo la nostrra guida.

Attendo comunque la vostra conferma.

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Elisabetta Savarese – venerdì, 29 maggio 2009, 09:34

  scusate il ritardo, il 6 giugno per me va benissimo

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Roberto Sartore – mercoledì, 27 maggio 2009, 17:18

ok per me va bene, non potendo presenziare alla lezione del 29/5, ma restando sempre disponibile a fornire un passaggio a qualcuno da Venezia, vorrete avvisarmi sull’ora di partenza-

roberto sartore

roberto_sartore@hotmail.com

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Diana Bonsignore – giovedì, 28 maggio 2009, 09:37

  A malincuore vi comunico che non sarò dei vostri il 6, però, vi auguro di trascorrere una giornata interessante e lietasorridente

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Marta Chiaradia – giovedì, 28 maggio 2009, 11:53

  Purtroppo neanch’io il 6 giugno potrò rendermi disponibile. Lo dico a malincuore, ma sarò impegnata ai seggi nel mio comune. Mi dispiace davvero molto!

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Roberto Folin – giovedì, 28 maggio 2009, 18:27

Ciao Paola,

mi scuso con tutti per il ritardo ma ho avuto accesso al pc solo oggi (ero ai monti). Senz’altro confermo la mia adesione (e anche quella di Eleonora che mi ha autorizzato in tal senso) alla visita prevista per il giorno 6 Giugno.

Prego Roberto di tenerci i soliti due posti  come già previsto per la prima ipotesi.

Grazie per l’interessamento e speriamno bene……….ci terrei

Saluti e …a domani

Roberto

: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Valeria Favretto – giovedì, 28 maggio 2009, 19:14

  Mi dispiace, purtroppo non posso nemmeno il sei; sono testimone a un matrimonio ad Assisi… Valeria Favretto

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Andrea Busato – giovedì, 28 maggio 2009, 20:41

Io per il 6 giugno ci sono.

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Antonio Borrelli – venerdì, 29 maggio 2009, 09:53

Non posso venire perchè lavoro, mi dispiace.

Re: Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno? di Paola Caldognetto – venerdì, 29 maggio 2009, 18:09

  Questa mattina a lezione abbiamo raccolto le seguenti adesioni:

1.Valentina Dal Cin

2.Elisabetta Savarese

3. Eleonora Stabile

4. Roberto Folin

5. Andrea Busato

6. Roberto Sartore

7. Paola Caldognetto

8. Alessio Filippi (persona esterna al corso di laurea)

Se qualcuno non vede il suo nome (o quello di altri che sa che intendono venire) nella lista o semplicemente vuole iscriversi basta che invii una mail nel forum entro martedì p.v.

Qualora il sopralluogo venga confermato dal docente, l’appuntamento sarà al casello autostradale di Vicenza Est alle ore 9.30 sabato 6 giugno.

Per chi provenisse da Venezia in treno e prendesse il regionale che parte da Venezia alle 7.34 e ferma a Lerino alle 8.42 (fermata vicinissima al casello dell’autostrada di Vicenza Est e per me facile da raggiungere) mi rendo disponibile a passare a prendervi.

Incrociando le dita perchè si iscrivano altre persone e così venga confermata la visita, saluto tutti cordialmente.

Paola Caldognetto

paolacaldognetto@gmail.com

CONFERMA Sopralluogo ad Agugliaro sabato 6 giugno! di Paola Caldognetto – giovedì, 4 giugno 2009, 17:51

  Cari compagni,

è confermato il sopralluogo ad Orgiano e Agugliaro sabato 6 giugno. Ricordo che l’appuntamento è per le ore 9.30 al casello autostradale di Vicenza EST.

Ricordo anche la mia disponibilità a raccogliere le persone che scendessero con il treno a Lerino (fermata prima di Vicenza della linea Venezia-Milano).

Evviva! A sabato.

Paola


Successioni: tra passato e presente. di Claudio Povolo – domenica, 31 maggio 2009, 15:55

In alcuni degli interventi sul forum il tema successorio si è definito sia alla luce di alcune intuizioni di Lévi-Strauss (visioni verticale e orizzontale della famiglia e della società) che di alcune delineazioni di Pitt-Rivers sul rapporto tra famiglia ed istituzioni nel mondo mediterraneo. Riprendendo le osservazioni di Lévi-Strauss, Norbert Rouland osserva come nelle nostre società la concezione verticale sia ancora predominante (una relazione, lo si ricorda, che privilegia il rapporto tra genitori e figli), nonostante le reti di relazioni incentrate sull’affinità (anche per la forza giocata dal tabù dell’incesto) costituiscano la struttura portante della società (una famiglia si crea comunque tramite lo scambio). Si tratta di un apparente paradosso, che è possibile ad esempio scorgere nella tendenza del diritto a favorire i diritti del coniuge, anche tramite donazioni (si pensi alla vedova) a scapito dei diritti dei discendenti. Un paradosso apparente, osserva Rouland, e ciò si rileva da una serie di aspetti di estremo interesse che conviene riprendere, anche alla luce di un confronto con quanto avveniva nei secoli scorsi:

a) la visione verticale privilegia la famiglia in quanto tale: sono valorizzati quindi i legami affettivi più che quelli sociali.

b) la disposizione generazionale favorisce quindi i legami affettivi tra ascendenti e discendenti, “in catene i cui anelli si aprono all’avvenire”.

c) l’alleanza matrimoniale con gli strappi che inevitabilmente essa crea divengono perciò più sfumati.

d) le relazioni biologiche sono preferite a quelle di ordine sociale. Anche l’adozione è per lo più considerata l’utima spiaggia.

e) i collaterali sono lasciati in ombra nei gradi di successione. L’alleanza che dapprima ha spezzato poi si ricompone nella famiglia nucleare.

f) allo strappo dovuto all’alleanza matrimoniale si preferisce la successione delle generazioni, anche perché in tal modo si cerca di risolvere l’angoscia della morte.

E’ dunque utile un confronto con le pratiche di successione diffuse in età moderna. Fedecommessi, pratiche di esclusione, maggiorati sembrano da un lato favorire il lignaggio inteso nella sua dimensione più ampia in cui si valorizzano i collaterali e gli ascendenti (anche lontani). Ma alla base del diritto successorio ineguaglitario, diffuso soprattutto tra le aristocrazie, non c’è dubbio che esista l’ansia di perpetuare la linea di filiazione (ovviamente artificale e connotata ideologicamente), rispetto ai valori emozionali ed affettivi costituiti dalla famiglia coniugale. Anche qui, verrebbe da dire, si può scorgere un apparente paradosso che è costituito dal fatto che la dimensione del lignaggio non si può concretamente concepire se non nel senso del tentativo di superare i limiti imposti alla vita umana dalla morte. E questo spiegherebbe ad esempio il tentativo di contemperare il fedecommesso all’istituto della primogenitura. Ma in quale misura lo strappo (che si verifica ad ogni generazione) costituito dall’alleanza matrimoniale era in grado di indebolire in profondità i legami affettivi ed emozionali della famiglia coniugale? E si potrebbe pure ipotizzare che la figura della donna, in definitiva, si costituisca pure come una sorta di trait d’union tra le visioni opposte dell’alleanza e del lignaggio, da un lato, e quelle delle emozioni e degli affetti, dall’altro. Agnate, ma non in grado di trasmettere, di per sé, la dimensione del lignaggio, la donna costituisce pure la liason che porta all’alleanza e alla nuova famiglia…

Re: Successioni: tra passato e presente. di Valentina Dal Cin – martedì, 2 giugno 2009, 21:56

Il professore parla di uno “strappo” che si verificherebbe a ogni matrimonio. Questo, suppongo, a causa dell’inserimento di un elemento esterno (femminile) per quanto riguarda la famiglia dello sposo, e della perdita di un’agnate per quanto riguarda la famiglia di provenienza della sposa.

Quest’ultimo aspetto è forse stato determinante nel definire le scelte di molte famiglie aristocratiche che hanno costantemente preferito unire in matrimonio due giovani provenienti da rami collaterali dello stesso ceppo parentale. Infatti, se fare della donna il trait d’union con un altro lignaggio comporterebbe dei vantaggi in termini di alleanze, è altrettanto certo che la sua cessione comporterebbe delle “perdite” per il lignaggio d’origine (ad esempio la dote).

In una logica di prosperità del lignaggio, in cui si cerca di far sì che fuoriescano meno beni possibili, mi sembra che spesso sia la seconda considerazione a prevalere. Soprattutto se la “perdita” in questione riguarda gran parte del patrimonio, come è il caso per donne “ereditiere” (e si è visto nei casi esaminati che le donne ereditano).

Ad esempio la volontà del vicentino Vincenzo Scroffa di far sposare a tutti i costi la nipotina con uno o l’altro dei rami collaterali della casata Scroffa mi sembra un chiaro esempio di questa volontà dei lignaggi di conservare il proprio patrimonio e di perpetuarsi nel tempo.

In questo caso la giovane Polissena, più che strumento di liaison con qualche altro lignaggio vicentino, diventa lo strumento della volontà del nonno (che aveva dimenticato come egli stesso avesse ottenuto gran parte del patrimonio grazie al matrimonio con Violante, erede del mercante Gaspare Ribeira) di riunire i rami della casata e dunque di puntare su di una concezione verticale (Polissena, il marito Scroffa ed i loro eredi), piuttosto che su di una rete orizzontale di alleanze diversificate.

Re: Successioni: tra passato e presente. di Claudio Povolo – giovedì, 4 giugno 2009, 00:04

Le osservazioni di Valentina sono interessanti. Quali erano gli obbiettivi di Vincenzo Scroffa, così almeno come si possono intuire dal suo testamento? La sua situazione è, indubbiamente, alquanto originale. E’ il nonno che si trova a decidere del destino della nipote (ancora in tenera età). Intorno a lui, apparentemente, il vuoto, quantomeno se consideriamo la famiglia intesa nella sua dimensione emozionale ed affettiva. Violante Ribeira è morta, insieme ai membri della sua famiglia, il figlio pure; la moglie di quest’ultimo, una Martinengo, si è allontanata (molto probabilmente i rapporti non erano dei migliori). Vincenzo Scroffa, intorno a sè, ha solo il suo passato, in tutta la sua componente emozionale ed affettiva. E’ la piccola nipote a costituire  la rappresentazione visibile di tutto questo: Polissena riunisce in sé il sangue dei Ribeira, del figlio, e ovviamente di se stesso. Non avrebbe mai potuto utilizzarla come una sorta di pedina per allacciare alleanze, in un gioco orizzontale. Questo avrebbe significato reintrodurre la parentela della madre di Polissena (i Martinengo) e sostanzialmente vanificare la memoria stessa del suo passato. La sua proposta, che vincola le scelte matrimoniali di Polissena, in realtà, come osserva Valentina, privilegiano la sfera emozionale ed affettiva (in senso verticale). La sua in realtà non è una cessione. Il lignaggio di orgine gli consente di procrastinare la sua memoria personale, ricostituendo un percorso (quello da cui egli proveniva) che si era bruscamente interrotto a causa di vicende che l’avevano travolto. Non mi sembra che la stessa logica si possa intravedere nelle scelte che il lignaggio Ferramosca attua, recuperando la piccola Anna, figlia naturale di un altro naturale Ferramosca. In questo caso il rifiuto della cessione si gioca sul puro piano del potere, al di fuori di ogni valutazione emotiva ed affettiva. Ed Anna, in un certo qual senso, è il prodotto di questa scelta e nella sua vita ripropone gli stessi moduli culturali e ideologici che stavano a monte delle scelte che avevano influito così profondamente nella sua vita. Diverso è ancora il caso di Pietro Saraceno. Questo aristocratico, che da anni viveva in campagna, muovendosi in una sfera sessuale ed affettiva non vincolata dalle strategie politiche del lignaggio, rinuncia, infine, a decidere sul destino della figlia, lasciandola in mano alla sua parentela e alle scelte che questa avrebbe effettuato. Il destino di Euriemma subirà una svolta improvvisa ed inaspettata in quanto agiranno altre forme di solidarietà, che non coincidono con gli interessi di un lignaggio, il quale, del resto, se si esclude la figura di Ludovica Saraceno Ghellini, è sul piano verticale (e quindi emozionale ed affettico) alquanto lontano. Poteva bene Biagio Saraceno, nel 1502, avere previsto quella strana figura giuridica (il maggiornato): ma poco avrebbe contato di fronte ad altre forme di solidarietà (come abbiamo rilevato in un altro intervento in questo forum). Le forme di esclusione e di alleanza, si giocavano ad ogni generazione, influenzate  da fattori economici e demografici, ma anche da forme di solidarietà che i vincoli di consanguineità non riuscivano sempre a contenere e a dirigere secondo le proprie strategie.


Ferramosca2 di Sergio Lavarda – venerdì, 29 maggio 2009, 15:47

 Ferramosca_a_Sossano.pdf

Allego un testo concernente le vicende dei Ferramosca di Sossano (Vicenza) che comprende un allargamento di indagine documentaria circa le due Anne del saggio Percorsi genealogici di Claudio Povolo.

Con riferimento a questioni successorie aventi come protagoniste rilevanti figure di donne rinvio anche ad altri due miei studi:

Ca’ del Diavolo, “Archivio veneto” CLVII (2001), pp. 4-48;

Sempre Parati a combatter, originariamente pubblicato su “Studi veneziani” ma scaricabile dalla rete al sito StoriadiVenezia.it

Un caro saluto a tutti,

Sergio Lavarda

(Modificato da Giovanni Mometto – giovedì, 28 maggio 2009, 10:13)

Re: Ferramosca2 di Cristina Bagarotto – giovedì, 28 maggio 2009, 22:25

Non so se succede a tutti, ma io non riesco ad aprire il file allegato. Il messaggio che appare è di “file danneggiato”.

Saluti

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Re: Ferramosca2 di Antonio Borrelli – venerdì, 29 maggio 2009, 00:45

Confermo il problema di Cristina, nemmeno a me apre il file: stesso messaggio di errore.

Se si può uploadare una nuova versione pdf e una versione light in word.

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Re: Ferramosca2 di Giovanni Mometto – venerdì, 29 maggio 2009, 15:49

Ciao a tutti ho sostituito il vecchio file con uno non corrotto. Adesso si dovrebbe aprire senza problemi.

Re: Ferramosca2 di Antonio Borrelli – lunedì, 1 giugno 2009, 18:55

Adesso funziona. Grazie.


Documentazione di antico regime. di Claudio Povolo – domenica, 31 maggio 2009, 13:49

Si avvisa che sia tramite il forum, che con un nuovo punto del sito (12) è stata aggiunta una nuova documentazione concernente questioni matrimoniali e successorie. Metto in rilievo, per ora, l’estrema varietà e complessità della documentazione di antico regime in tali materie. Magistrature secolari e foro ecclesiastico si prestano ad offrire una ricca casistica la cui complessità è inanzitutto data si

a dall’individuazione  di un discorso complessivo, che ne conferisca la logica sottostante, che dalla puntualizzazione dei momenti di cambiamento e di svolta dei processi sociali in corso.


Passione ed interesse. Emozioni e ideologia del passato. di Claudio Povolo – martedì, 26 maggio 2009, 17:09

Alcuni dei temi affrontati nel forum possono essere ulteriormente aggrediti anche alla luce di alcune osservazioni avanzate molti anni orsono da Julian Pitt-Rivers (The moral foundation of family) in merito alle caratteristiche e ai rapporti tra famiglia e parentela nel mondo Mediterraneo del Novecento. La famiglia nucleare costituisce un’unità morale e residenziale, diffusa in moltissime società e si spiega con la divisione del lavoro e la procreazione dei figli. Gli antropologi ovviamente hanno posto come tema centrale quello di definire il ruolo della famiglia nell’ambito dei sistemi di parentela: poiché è proprio questo dato che differenzia una cultura dall’altra. La domanda potrebbe pure essere posta nel modo seguente: la parentela è un’estensione della famiglia o la famiglia, all’incontrario, è da considerarsi come una funzione della parentela più estesa?

Le relazioni tra famiglia (si parla sempre di famiglia coniugale) e parentela ha un determinato significato laddove le persone decidono da sé nella scelta dello sposo; ne ha un altro laddove a decidere sono i genitori o i parenti in base a regole determinate e prescrittive. Pitt-Rivers osserva come il mondo Mediterraneo si caratterizzi per la prima forma: relativa autonomia della famiglia nucleare e assenza di regole precise in materia matrimoniale (nella scelta del coniuge). I legami familiari e individuali sono profondamente caratterizzati nell’area mediterranea dalla natura bilaterale della parentela che riconosce il predominio della patrilinearità nell’assegnazione del cognome, ma non nella terminologia della parentela e nemmeno nella successione ereditaria. La parentela è dunque tangenziale rispetto alla solidarietà tra gruppi. E perciò la famiglia coniugale ha scarse connessioni con il rimanente della società e con i meccanismi del potere politico, come se la sfera domestica e la sfera pubblica fossero due cose nettamente distinte. Chi non tiene conto di queste due sfere (sovrapponendole) può essere accusato di nepotismo (un termine privo di significato laddove esiste invece un’obbligazione morale ad aiutare i propri parenti nella vita politica). In definitiva la parentela non si presta a fornire le basi per regolare le relazioni sociali e deve perciò essere tenuta da parte o nascosta dalla sfera pubblica.

In definitiva nel mondo Mediterraneo il matrimonio non è fatto per amore della parentela, ma piuttosto per il contrario: la parentela è derivata dai legami matrimoniali, che sono contratti per amore, sesso, amicizia, denaro, mobilità sociale, ecc.

Per questa ragione la famiglia coniugale nucleare deve essere posta in una struttura diversa da quella che tradizionalmente gli antropologi considerano (e individuano in altre realtà, come ad esempio quella africana).

Appare evidente che le osservazioni di Pitt-Rivers si attagliano notevolmente alla società borghese che si afferma nel corso dell’Ottocento e in cui spazi familiari e spazi pubblici sono nettamente distinti. Il rapporto privilegiato è tra individui e stato.

Ma che cosa si può dire delle società dei secoli precedenti?

La questione non è così semplice da definire, soprattutto se si considerano elementi che sono significativi sul piano sociale più generale (e non nell’ambito dei singoli gruppi o ceti sociali).

La dottrina matrimoniale (diritto canonico) incentrata sul libero scambio del consenso (e non sulla scelta dei genitori) sembra sottolineare il valore morale e sociale della famiglia coniugale. Al di là del fatto che i genitori possano interferire comunque sulle scelte matrimoniali dei figli. La diffusione dell’istituto giuridico del ratto sembra rappresentare una conferma di questo. Un istituto che si costituiva in un certo qual senso a difesa della libera scelta dei giovani (così come il matrimonio clandestino). Ma si veda quanto scrive Piero Franceschi su tale istituto.

Sul piano successorio la dottrina di diritto comune è inequivocabilmente a vocazione egualitaria ( lo dicono chiaramente anche gli avvocati di Euriemma, si veda Un oceano di scritture). Tant’è che spesso si è parlato di successione bilineare in quanto i beni passano anche tramite le figlie. Le divergenze tra Jack Goody e Diane Owen Hughes (cfr, quanto riportato nel caso di Caterina Corradazzo) in realtà vertono sul peso giocato dalle aristocrazie nel limitare questa bilateralità. Ed in effetti gli statuti delle città italiane sottolineano l’istituto della dote congrua ed evidenziano in materia successoria il peso della parentela.

Il peso della parentela è d’altronde predominante in tutta la società di antico regime e si evidenza sia per la vasta diffusione della faida, la tipologia dei conflitti e la frequenza delle paci. Così come è pure evidente una commistione tra parentele ed istituzioni locali (dimensione del pubblico in età medievale e moderna). Se però si esaminano le interrelazioni tra strutture parentali e potere politico si può notare come nell’ambito delle istituzioni dell’epoca (sia veneziane che di Terraferma) fossero previsti correttivi, anche minuziosi, per limitare la presenza di membri della stessa parentela (ad esempio non potevano essere presenti più di uno o due membri della stessa parentela all’interno di un consiglio).

E se ci si addentra nelle dinamiche dei conflitti si può notare come la solidarietà nell’ambito di gruppi fosse segnata non solo dalla presenza di consanguinei ed affini (con relative clientele), ma anche persone che vi partecipavano per comunanza di interessi. Questo aspetto è ad esempio percettibile nei gruppi di consorti nobiliari che operavano nell’ambito di un territorio o di una comunità dove veniva condivisa una proprietà.

L’aristocrazia agì sensibilmente nell’ambito matrimoniale e successorio: nel primo limitando le scelte individuali a detrimento di quelle incentrate sulla passione; nelle seconde contenendo i diritti individuali, tramite istituti come il fedecommesso che concedevano agli aventi diritto l’uso, ma non la possibilità di alienare i beni del testatore. E la stessa dote congrua segnala la forte incidenza del lignaggio sui diritti femminili.

In definitiva il lignaggio aristocratico tentò di introdurre una concezione della famiglia intesa in funzione della parentela. Ma la sua ideologia dovette scontrarsi con le inevitabili complicazioni genealogiche e biologiche (assenza di figli maschi, pretesa delle donne cedute a lignaggi esterni). Un ottimo esempio è costituito dal destino della famiglia Ferramosca. Inoltre, nonostante la forte incidenza della cultura parentale, che poteva essere percepita dai singoli individui nel culto degli avi, nel rassicurante idioma dell’onore che conferiva prestigio e precedenza, il fatto che la solidarietà dei gruppi si addensasse su fattori esterni alla parentela, agì, infine, come elemento destabilizzante nella trasmissione di valori che avrebbero dovuto convincere l’individuo a privilegiare la parentela rispetto ai fattori emotivi e passionali, che egli individuava piuttosto nella nuova unità famigliare.

Era dunque una battaglia destinata ad essere persa in partenza quella dei lignaggi protesi a rivendicare i valori della parentela? Probabilmente sì, soprattutto se si considerano le tumultuanti trasformazioni economiche che si registrano in età moderna. Di certo il venir meno degli antichi assetti costituzionali repubblicani (in cui interagivano, ance se con i limiti poco sopra ricordati, parentela e dimensione politica) fu il fattore che impedì all’aristocrazia di interagire attivamente nei fenomeni di trasformazione. Il processo fu assai più lungo e tormentato nell’ambito dell’aristocrazia veneziana, in cui la dimensione del lignaggio si coniugò sino alla fine con quella del potere politico. Ma era la società europea, nel suo complesso, ad essersi ormai modificata e anche per l’aristocrazia veneziana la spallata definitiva sarebbe infatti giunta dall’esterno.

Re: Passione ed interesse. Emozioni e ideologia del passato. di Diana Bonsignore – mercoledì, 27 maggio 2009, 10:44

Leggendo l’intervento del Prof. Povolo, mi è venute alla mente una riflessione.

Premesso che la diversità nel rapporto famiglia (coppia coniugale)/parentela esistente fra il mondo mediterraneo ed altre realtà (ad esempio, il Prof. cita le società africane) dipenda dai diversi percorsi storici: sicuramente, nel mondo Occidentale, si risente molto del modello di coppia uomo-donna che la Chiesa, specie dal IV secolo in poi (e magari spesso più per ragioni di ordine pratico, come il movente economico, che per questioni squisitamente di fede) , ha tentato di affermare legiferando (spesso creando una spaccatura fra legge secolare e legge temporale) in relazione alle unioni accettate e a quelle proibile o, quanto meno, disaprovate. Inoltre, nella nostra cultura, la coppia coniugale, nella sua autonomia ed esclusività, non è “lesa” da comportamenti quali la poligamia (il fatto che un uomo, o raramente una donna, abbia più patner, necessariamente, rende la coppia meno forte come cellula, anzi, a mio avviso, annulla proprio il concetto di cellula!!!).

Premesso tutto ciò, però, credo che sia necessario sottolineare un altro aspetto: le vicende esaminate durante il corso ci dimostrano che determinati fattori (che noi, oggi, diamo per scontati), quali ad esempio la scelta libera del coniuge, le ragioni della passione, il privilegiamento del binomio uomo-donna, non sempre si sono potuti imporre con facilità dinanzi alle posizioni “dispotiche” assunte da lignaggi, clan, comunità locali etc.

In un certo senso, la società, rappresentata in primo luogo dal gruppo parentale e poi da entità associative sempre più ampie, ha ostacolato le decisioni dei singoli. Eppure, nonostante questo scontro, gli individui, spesso con enormi difficlotà, si sono battuti per opporsi a tale status quo. Certamente, a spingerli verso certi atteggiamenti troviamo il movente economico (è ovvio che la successione e tutte le controversie connesse siano motivate la dato economico), però non si esauriscono in esso: come non vedere, nella vicenda di Polissena, il desiderio di rivendicare, oltre all’eredità, la possibilità di decidere autonomamente circa le proprie nozze?!? O, ancora, come non pensare che il riconoscimento della legittimità del matrimonio dei propri genitori, per Eurimma, significasse anche, e soprattutto, la volontà di restituire dignità alla figura della madre?!?

A questo punto credo che sia pertinente all’argomento la riflessione di un famoso studioso della parentela, ovvero Schneider. Quest’ultimo ci parla del simbolo dell’affetto. L’introduzione, anche piuttosto recente, nell’ambito degli studi sulla parentela, del ruolo svolto dalle emozioni e dai sentimenti è stato un importante traguardo: sicuramente, la preminenza delle ragioni della coppia o del più vasto sistema di parentela, con tutte le differenze riscontrabili da scocietà a società, è un dato “storicamente articolato”, però, i casi delle donne da noi studiati mettono in luce come, al di là delle costrizioni sociali, la parentela sia sempre e comunque soggetta ad elementi più intimi, come appunto la passione, i rancori, le preferenze etc., che non sono comprensibili se riduciamo questo istituto (come un pò ha fatto Lévi-Strauss) ad un sistema dominato da rigide norme.

Re: Passione ed interesse. Emozioni e ideologia del passato. di Claudio Povolo – giovedì, 28 maggio 2009, 01:51

Avanzo solo alcune considerazioni a quanto osservato da Diana. Nelle nostre vicende il linguaggio si esplicita soprattutto nella dimensione eminentemente giuridica e la cosa non ci stupisce considerando che si tratta di conflitti che si svolgono su questioni successorie. E così pure gli interessi economici sono evidenti. Emozioni, passioni, pulsioni affettive sono sottaciute, anche se si possono scorgere. Un ottimo esempio è costituito proprio dal matrimonio e successivo testamento di Trivulzia Brazzoduro. Ci sono elementi per arricchire lo scenario della vicenda. In altri casi l’elemento passionale è più evidente e si contrappone platealmente agli interessi in gioco. La vicenda di Laura Ghellini è emblematica a tale proposito. E quando i due aspetti sono visibilmente contrapposti si può esaminare la successione degli eventi cercando di coglierne le implicazioni. Ad esempio la fuga di Laura (con l’improvviso matrimonio clandestino) in realtà si gioca in un contesto di interessi contrassegnato dalle tensioni insorte dopo il divorzio della giovane (non ancora del tutto risolto). Con il nuovo matrimonio (valido anche se non legittimo) viene respinta ogni ulteriore molestia da parte della famiglia Colocci.

In definitiva si può osservare come la tensione tra emozioni/passioni e interessi, che spesso si gioca pure sulla concomitante opposizione giovani/adulti, celibi/sposati, riveli la complessità delle dinamiche conflittuali e metta pure in gioco l’apparente perentorietà delle norme giuridiche.

Re: Passione ed interesse. Emozioni e ideologia del passato. di Silvano Fornasa – giovedì, 28 maggio 2009, 18:09

 Allegato.pdf

La ricerca condotta nelle buste del fondo archivistico Actorum dell’Archivio Diocesano di Vicenza, relativa ad alcune comunità della Valle dell’Agno, mi ha permesso di constatare l’importanza della documentazione riferibile al decennio 1560/1570 (gli anni a cavallo del decreto tridentino sul matrimonio), per comprendere le dinamiche che informavano il matrimonio, la volontà della Chiesa di rimarcarne definitivamente il valore sacramentale, ma anche la tenace resistenza che incontrava ancora in una società che vedeva in questo fondamentale rito il terreno dove si costruivano o si consolidavano alleanze, amicizie e parentele. Riporto un esempio, fra i tanti, per capire come la promessa per verba de futuro continuasse ad essere ritenuta fondamentale dalle famiglie, anche dopo che il Concilio aveva spostato decisamente l’importanza solo o in modo assolutamente prevalente sulla celebrazione de presenti (1) e un altro che indica la difficoltà della Chiesa di far applicare la nuova normativa, spostando decisamente l’attenzione dalla trattativa familiare alla cerimonia religiosa pubblica, con presenza del sacerdote (2). Un terzo esempio (3), che si riporta in allegato in forma narrativa e circostanziata, illustra molti degli aspetti che caratterizzavano il matrimonio clandestino, la contrapposizione fra gli interessi delle famiglie coinvolte, soprattutto se di ceto sociale diverso, ma anche la passione e le scelte individuali che si potrebbero in questo caso ipotizzare. Le decisioni del tribunale ecclesiastico oscillano tra le istanze delle parentele e l’esigenza del ministero pastorale.

(1) I comportamenti e le consuetudini non mutano in tempi brevi e, com’era prevedibile, i decreti tridentini in materia matrimoniale incontrarono non poche resistenze. Quasi trent’anni dopo che le nuove direttive ecclesiastiche erano state pubblicate anche nelle parrocchie più decentrate, il vicario vescovile inoltrò una direttiva al parroco di Brogliano su istanza di Andrea Merzaro da San Pietro Mussolino. Questi aveva poco giorni prima contratto promessa di matrimonio con Anna Perana di Brogliano, con «tocco della mano»; essendo venuto a sapere che ora lei intendeva sposarsi a Brogliano con uno di Roncà andò su tutte le furie e chiese, per via giudiziaria, che gli fosse «servata la promissione et fede data». Il vicario ordinò al parroco di Brogliano di non celebrare tale matrimonio. Il valore tradizionale della promessa per verba de futuro e il tocco della mano mantenevano quasi immutato il loro peso, tanto da indurre i parroci a tenerne adeguatamente conto.

(2) Giovanni Dalle Fosse e Domenica Tanfurini da Valdagno, con la mediazione di Bernardino Marigo, decisero di sposarsi nell’estate del 1569: don Battista Munari, parroco di Valdagno, fece le tre pubblicazioni canoniche nella chiesa del paese e li invitò a recarsi in chiesa per la cerimonia, «secondo la forma del sacro concilio». Fin qui venne seguita la normativa recentemente introdotta, ma non era facile – come s’è detto – modificare consuetudini radicate e togliere spazio al tradizionale ruolo della famiglia: i parenti della sposa disattesero l’ordine del parroco e si predisposero a celebrare il matrimonio in casa, comportamento tranquillamente ritenuto ancora legittimo nella mentalità collettiva. Erano anche disposti ad accettare la presenza del parroco, ma restarono fermi nell’idea di celebrare le nozze in casa propria. Nel braccio di ferro che si instaurò nessuno volle recedere dalla propria posizione e il parroco «non li volse andar, dicendo che andassero alla chiesa». I familiari della sposa non cedettero ed il rito ebbe luogo a casa loro, officiante il mediatore. Gli sposi confermarono la validità del contratto andando a vivere insieme. Il parroco, che aveva prontamente recepito il decreto conciliare ed intendeva applicarlo integralmente, stigmatizzò duramente il fatto: lo fece ripetutamente e pubblicamente, tanto che «naque fama che questo matrimonio fosse nullo, de nessun valore, come non fosse fatto». Sorpresa ed amareggiata, ma soprattutto non aspettandosi una reazione del genere ad un comportamento tradizionalmente ritenuto normale, la sposa si allontanò di casa. Verso la fine del 1569, era a Vicenza da una cugina, rimase incinta e nel gennaio successivo corse ai ripari sposando l’uomo che aveva conosciuto. Ad agosto partorì ed ebbe inizio l’iter giudiziario, essendosi palesemente profilata per lei una condizione di bigamia: c’era stato un primo matrimonio celebrato a Valdagno in parte secondo le nuove norme della chiesa e in parte secondo la prassi consuetudinaria, e un secondo celebrato a Vicenza nella parrocchia di San Marco, da un sacerdote che – a causa anche di registrazioni canoniche ancora incomplete ed in fase di rodaggio – non sapeva nulla delle prime nozze della donna. A questo punto, anche il primo marito ritenne conveniente lo scioglimento del vincolo matrimoniale; presentò istanza al tribunale del vescovo ed il giudice ecclesiastico emise sentenza di annullamento, per «matrimonio contracto non servata forma sancti concilii tridentini».

(3) [vedi allegato in PDF]


Avviso (27 maggio 2009) di Claudio Povolo – mercoledì, 27 maggio 2009, 16:44

Si avvisa che venerdì 29 maggio si svolgerà, nell’orario consueto, la lezione di recupero.


Doppia natura della famiglia di Claudio Povolo – venerdì, 15 maggio 2009, 00:10

Introducendo il primo volume dell’Histoire de la famille (trad. it. Storia universale della famiglia, cfr. estremi in bibliografia) Claude Lévi-Strauss osserva ironicamente come da molti anni gli antropologi e i sociologi si dividano in due sette rivali: i verticali e gli orizzontali. Per i primi la società è costituita da un’aggregazione di famiglie elementari formate da una coppia e dai loro figli. Essi sottolineano il dato biologico e di natura (attrazione sessuale, allattamento, ecc.). La famiglia elementare costituisce il dato di base su cui si riconducono tutti gli altri legami sociali. La filiazione ne è il dato essenziale, in quanto ad essere privilegiato è il rapporto tra i genitori e i figli. Le filiazioni, disposte l’una dopo l’altra costituiscono delle linee di discendenza, e la realtà della famiglia è data dalla sua continuità nel tempo. In quanto istituzione la famiglia esprime questa successione lineare, ma al contempo è il luogo privilegiato delle emozioni. In questo senso, Lévi-Strauss osserva come le famiglie possano essere paragonate a dei fili che la natura ordisce sul telaio (ordito).

Per gli orizzontali la famiglia è innanzitutto il derivato dell’unione di due altre famiglie, di una loro scissione. Le famiglie ristrette durano solo per un periodo di tempo limitato, ma sempre gli individui che le compongono devono essere ceduti all’esterno (ed esistono delle proibizioni matrimoniali che impongono questo). La continua disgregazione intesse delle trame trasversali di alleanze che costituiscono il vero e proprio nerbo della società.

Si può in realtà sostenere, osserva Lévi-Strauss, che esista una doppia natura della famiglia che da un lato si fonda su necessità biologiche (mettere al mondo dei figli e farli crescere) e dall’altro però è pure soggetta ad obblighi sociali. E in effetti la società permette alle famiglie di perpetuarsi solo in un contesto di proibizioni e di costrizioni. Ogni unità biologica deve rinunciare a rimanere ripiegata su se stessa (una tentazione che potrebbe sorgere per mantenere la compattezza del patrimonio e il potere acquisito), e deve sottoporsi “al grande gioco delle alleanze familiari”. Altrimenti essa sarebbe insidiata dall’ostilità esterna e sarebbe costretta a vivere un’esistenza precaria ossessionata dalla paura. Tramite il matrimonio il nemico è così trasformato in alleato.

La distinzione operata da Lévi-Strauss e la definizione di doppia natura della famiglia spiegano molto bene le strategie famigliari e le pratiche successorie di ogni epoca. In realtà, questa stretta relazione tra ordito e trama si svolge poi alla luce di molti fattori, tra i quali hanno certamente un peso rilevante i fattori economici e la dimensione politica. Laddove potere economico e potere politico s’innervano strettamente, i sistemi di filiazione tendono ad essere coordinati da oculate strategie famigliari e da pratiche successorie esclusive. Tutto questo comportava che la cessione dei membri femminili del lignaggio costituisse, ad un tempo, una possibile perdita oppure, all’incontrario, l’acquisizione di un indubbio vantaggio. L’espansione dei patrimoni aristocratici (che si nota soprattutto nel momento in cui si accende un conflitto) era probabilmente dovuta ad una strategia familiare incentrata sul sacrificio. L’importanza assegnata al patrimonio famigliare accentuò probabilmente le tensioni tra le due dimensioni culturali e sociali della famiglia (trama e ordito, per dirla con Lévi-Strauss). Di certo l’ossessione per difendere (ed aumentare) la proprietà pagò un prezzo elevato alla linea di discendenza, che divenne assai più fragile (in quanto sottoposta ai rischi dell’estinzione). Dobbiamo inoltre chiederci quale timbro assumessero i rapporti tra parenti agnati e affini (cioé acquisiti tramite il matrimonio). Probabilmente interagivano positivamente se potevano svolgersi nel medesimo spazio economico e politico. Ed in questa direzione la figura femminile non rappresentava il detonatore di conflitti. E lo spazio delle emozioni, degli affetti? Nel Settecento molti membri (maschili e femminili della stessa aristocrazia veneziana) sembrano meno propensi a sacrificare questo spazio individuale in nome della grandezza del lignaggio. Il matrimonio segreto, come illustra bene il consultore Piero Franceschi, alla fine del Settecento, era sempre stato uno strumento tramite cui la famiglia aristocratica aveva cercato di contemperare lo spazio delle emozioni con quello della ragion di famiglia. Ad un certo punto questo istituto comincia però ad essere percepito come fomite di disordini sociali. Che cosa era avvenuto? In fondo quel matrimonio segreto di Pietro Saraceno, a ben vedere, era stato contratto mal volentieri. E’ interessante notare come a spingere perché si realizzasse non fosse stata tanto la preoccupazione di Trivulzia Brazzoduro, ma le pressioni di parenti affini. Un’occhiata alla genealogia Saraceno sembra suggerire che, in fin dei conti, la filiazione del ramo di cui Piero Saraceno era espressione, contasse ben di più di maggiorati e fedecommessi che rinviavano invece ad una parentela assai più estesa, ma lontana.

Re: Doppia natura della famiglia di Valeria Favretto – domenica, 17 maggio 2009, 17:38

  A me sembra che il ruolo di detonatore di conflitti ed interessi sia toccato anche a Polissena, collocata fra due fuochi: da un lato le volontà del nonno e il suo desiderio di proseguire l’antichità e il prestigio della casa da cui egli stesso si era allontanato in modo traumatico; dall’altro le pretese su parte del patrimonio di chi, evidentemente, la sobillava a rifiutare il matrimonio con uno dei due Scroffa.

Inoltre, l’intervento del professor Povolo si conclude con una riflessione generale sui sentimenti dei giovani aristocratici, spesso sacrificati in nome delle strategie di famiglia, ma che talvolta trovavano soddisfazione nel matrimonio segreto.

Anche se probabilmente non è proprio possibile capirlo, non ho potuto non chiedermi quali fossero veramente i sentimenti di Polissena, fra tanti pretendenti. Anche se il nostro interesse non riguarda tanto l’esito della vicenda, quanto piuttosto i meccanismi che l’hanno messa in moto e le simbologie che sottendeva, mi è venuto in mente che il professor Povolo, a lezione, disse che alla fine Polissena, sposato uno dei due Scroffa, ebbe un matrimonio felice. Ma allora “vissero tutti felici e contenti”?

Re: Doppia natura della famiglia di Claudio Povolo – domenica, 17 maggio 2009, 23:43

Rispondo a Valeria. Nelle mie riflessioni mi chiedevo quali erano i meccanismi che, di volta in volta, in una struttura così complessa come il lignaggio aristocratio, la figura femminile (al di là di chi poteva strumentalizzarne l’interesse) poteese costituirsi come detonotare di conflitti, oppure no. Nel caso di Caterina Corradazzo, come abbiamo supposto, la pretesa nei confronti del patrimonio paterno si enuclea on la rottura della fraterna degli zii. Nel caso di Polissena è il nonno a ritrovarsi in una situazione delicata da gestire e in cui intravede, giustamente, i pericoli nei confronti della nipote. Il detonatore è dunque costituito dall’anomala situazione genealogica venutasi a creare di seguito alle numerose morti (precoci) di membri delle famiglie Riberia e Scroffa). Un detonatore che, come nel caso precedente, mette in relazione le due giovani donne al contesto sociale o politico in cui sono inserite. Nel caso di Euriemma il detonatore, invece, lo individuerei (anche se forse non è l’unico) nella palese debolezza delle relazioni agnatizie di Euriemma (molto lontane, tranne la zia). Una debolezza che permette l’inserimento di affini (parenti contratti con il rapidissimo matirmonio) e di parenti per parte di madre. Sono meccanismi che vanno sempre tenuti presenti, perché svelano la ‘qualità’ del conflitto. Polissena visse felice e contenta dopo aver contratto il matrimonio impostole dal nonno? Riportavo una tradizione successiva di decenni proveniente da un discendente: che probabilmente doveva pure giustificare il beneficio che aveva indubbiamente tratto da quella lontana unione. Indubbiamente se il matrimonio era soprattutto percepito come alleanza, che non come esito di un amore, felice fu di certo… Possiamo comunque avanzare un’osservazione, che travalica di certo la dicotomia emozione-passione/alleanza-interesse. Nella nuova unione Polissena entro con un ruolo forte e decisivo e possiamo facilmente immaginare che ella ampliò notevolemente gli spazi che, all’epoca, erano generalmente concessi ad una moglie.

Re: Doppia natura della famiglia di Andrea Busato – martedì, 19 maggio 2009, 14:06

Mi sembra di aver intuito che le famiglie dell’alta società del Dogado e della Terraferma tenessero molto all’unità del proprio patrimonio. Per farlo cercavano di non dividerlo tra più eredi ma di assegnarlo a un unico fortunato. La politica matrimoniale marciana era impegnata a limitare il numero di matrimoni e concentrare l’eredità in un solo figlio, costringendo gli altri al celibato. Gli uomini abbracciavano questa soluzione vivendo allo stato laicale, intrattenendosi in relazioni di concubinato. Oppure l’altra strada era consacrarsi a Dio e intraprendere la vita religiosa o monastica. Quest’ultima era la scelta obbligata di molte donne patrizie che entravano in convento controvoglia per ragioni solo d’interesse della famiglia a cui appartenevano. Tuttavia nel corso del Cinquecento e Seicento a causa delle pestilenze a Venezia, delle guerre in cui la giovane nobiltà si cimentava, e appunto alle sopradette pratiche successorie, il numero dei patrizi crollò notevolmente, mettendo a rischio la sopravvivenza di molte casate. Tutto ciò dimostra la chiara fragilità delle ottuse famiglie veneziane. Fatta questa premessa, l’istituto del maggiorato, discusso a lezione, mi pare che si presenti come un “salvagente”, vitale ai lignaggi che si trovavano in situazioni di difficoltà in tema di eredità. A Vicenza la famiglia Saraceno ne avrebbe usufruito al momento giusto, ma sarebbe interessante capire la diffusione (se c’è stata) di tale istituto nel territorio serenissimo, laguna compresa.

Re: Doppia natura della famiglia di Claudio Povolo – martedì, 19 maggio 2009, 23:29

Mi riserbo di intervenire in maniera più analitica sull’intervento di Andrea, che entra nel tema centrale da noi affrontato. In realtà la sfida dei lignaggi aristocratici (non solo veneziani, ma di tutta Europa) è tra una nozione di parentela che potremmo considerare artefatta (in quanto non rispondente alle relazioni sociali ed economiche effettivamente intrattenute) e una più concreta dimensione famigliare calata nella realtà di tutti i giorni. L’elemento femminile, in definitiva, in quanto estraneo, rappresenta al massimo livello gli esiti di questa sfida.

Re: Doppia natura della famiglia di Laura Megna – venerdì, 22 maggio 2009, 21:51

Rispondo ad Andrea Busato.

Il declino demografico del patriziato negli ultimi due secoli di vita della Repubblica è certo frutto delle cause che lei indica. A partire dalla metà del Cinquecento le famiglie nobili veneziane più ricche e più attente ai mutamenti economici in atto  adottano frequentemente la politica del matrimonio limitato ad un solo maschio per ogni generazione. Il fenomeno è ben leggibile nella raccolta degli alberi genealogici delle famiglie nobili veneziane iniziati dal Barbaro, in cui figurano i matrimoni legittimi ed iscritti nei libri d’Oro dell’Avogaria di Comun, e quindi non necessariamente “tutti i matrimoni”, ma solo quelli con donne atte a procreare una nobile discendenza. La pratica del matrimonio limitato consente di mantenere unito il patrimonio, anche in presenza di un regime successorio egualitario che prevede  la divisione in “parti eguali” o “per egual portione” dei beni paterni – fedecommessi o no – tra tutti i figli maschi. Il patrimonio si ricompone infatti alla generazione successiva, allorché le “porzioni” degli zii scapoli riconvergono nell’unico nipote che si accasa e porta il peso della discendenza. Non credo sia una scelta “ottusa”, certo è una pratica rischiosa, adottata perchè ritenuta necessaria o quantomeno utile, a partire dal momento in cui gli investimenti immobiliari hanno un peso prevalente nei patrimoni nobiliari. Il processo di riconversione degli investimenti dal mare alla terra implica infatti l’imporsi di modelli familiari diversi. La famiglia nobile impegnata nei traffici è più articolata di quella che impegna nella terra la maggior parte della ricchezza e vive delle rendite fondiarie. Il patriziato che non si aggancia al nuovo ciclo economico o non adegua le proprie strategie familiari non rischia l’estinzione biologica ma l’impoverimento definitivo. Quando la ricchezza si misura sulla proprietà fondiaria, famiglia e patrimonio non sono moltiplicabili né a Venezia né altrove, e dividendo, nel giro di poche generazioni, tutti, come ovvio, sono meno ricchi di prima. Il rischio dell’estinzione è dunque un rischio calcolato, che risulta ben presente ai soggetti nobili quando redigono il proprio testamento. Chi istituisce un fedecommesso infatti prevede il passaggio dei propri beni di generazione in generazione. Pur scongiurando l’assenza di eredi maschi nelle generazioni successive, i testatori veneziani, quando prevedono la totale mancanza di diretti eredi maschi – figli, nipoti, pronipoti ecc. – chiamano allora  in sostituzione gli eredi maschi delle nipoti “femmine”, auspicando, talvolta, che esse siano sposate con un nobile che porta lo stesso cognome. Da un punto di vista politico, la pratica del matrimonio limitato ha nel contesto della Dominante due conseguenze negative: una evidente – il calo demografico dei nobili che siedono in Maggior Consiglio – e una più complessa, ossia una sorta di disarticolazione della nobiltà, con famiglie molto ricche da un lato e famiglie vistosamente meno abbienti dall’altro.  Queste conseguenze negative sono ben note ai contemporanei. Giacomo Nani e Antonio Donà – due figure settecentesche studiate da Piero del Negro –  vedono nella polarizzazione delle ricchezze in un numero ristretto di case e nel concomitante aumento dei nobili poveri la causa principale della crisi del ceto patrizio cui essi stessi appartengono.

Quanto all’istituto giuridico della primogenitura, esso si inserisce – almeno a partire dalla fine del Cinquecento – in questo processo di tutela del patrimonio familiare e riguarda i beni di maggiore valore simbolico e/o di maggiore interesse economico, come il palazzo veneziano o una villa, un possedimento in Terraferma più antico o particolarmente esteso che non si vuole venga mai diviso. Lo ribadisce anche l’anonimo estensore del consilium settecentesco pubblicato in questo sito quando dice che “le Primogeniture sono solite formarsi o in qualche fondo che patisca una comoda divisione o in qualche feudo prediletto”. Queste primogeniture a Venezia sono istituite anche in presenza di più figli maschi legittimi e privilegiano, limitatamente appunto al bene suddetto sul quale la primogenitura è istituita,  il figlio che si sposa e la sua discendenza legittima nella figura appunto del suo primogenito. L’intenzione dell’istitutore della primogenitura è ovviamente che il bene ad essa sottoposto resti indiviso nel lignaggio. Egli pertanto predispone al momento dell’istituzione della primogenitura – e cioè nel suo testamento – una serie di sostituzioni. In assenza, ad esempio,  dell’erede maschio primogenito, subentra il figlio primogenito di quest’ultimo,  in assenza di questi subentra il secondogenito con una casistica accurata che testimonia l’intenzione dell’istitutore di prevedere il futuro e, insieme, la consapevolezza della sua dura imprevedibilità. In assenza totale di maschi di solito si prevede infatti che subentri “la figliola di maggior età d’essi miei figlioli”. Quattro parole che concludono una catena di sostituzioni maschili su sostituzioni maschili e  che determinano, anche nel volgere di un tempo breve rispetto alle generazioni su generazioni previste dal testatore, il passaggio di un bene in un altro lignaggio nobile. E’ il caso questo, ad esempio, di un patrizio veneziano, Marcantonio Barbaro, che nel 1594 istituisce una primogenitura su una delle più belle ville del Trevigiano. Trent’anni dopo, in assenza di eredi maschi, la villa diviene proprietà della primogenita di un figlio del testatore. La fortunata primogenita non ha figli maschi, ma due femmine entrambe sposate con nobili veneziani. La villa entra nel patrimonio di una delle due figlie e quindi viene a far parte del patrimonio di un’altra famiglia nobile. La vicenda storica dei palazzi nobili veneziani – e non solo veneziani ma bolognesi e romani ecc.- riflette vicende successorie analoghe: una famiglia si estingue e il palazzo passa ad un’altra famiglia attraverso l’ultima erede femmina. Anche gli archivi privati fluiscono per via femminina uno nell’altro. Il lignaggio ha bisogno di un maschio per proseguire e le nobili spose veneziane hanno ben chiaro che procreare prole mascolina è il loro compito. La nascita di un maschio è salutata come una benedizione, quella di una femmina un po’ meno. Tuttavia, neppure la famiglia aristocratica è eterna. Certo chi istituisce una primogenitura come anche chi istituisce un semplice fedecommesso si sente in qualche modo il padrone del bene anche dopo la sua morte, è padrone di stabilire la sua trasmissione per generazioni, in base alle regole che lui stesso detta. Un’altra opzione possibile per chi istituisce una primogenitura è designare dopo tutti i propri primogeniti (e poi secondogeniti e così via, con aperture eventuali agli eredi maschi delle femmine) il primogenito di un altro ramo della propria famiglia, detto colonnello. Nel Sei-Settecento tale disposizione è appare meno frequente perché la stessa pratica del matrimonio limitato riduce la  presenza stessa di rami collaterali, se non remoti. Altri testatori scelgono come ultima opzione di lasciare il bene in oggetto, qualora la propria discendenza mascolina (o mascolina e femminina) sia completamente estinta, ad un luogo pio, un ospedale, un monastero.  La funzione cui la primogenitura comunque assolve è quella di mitigare l’effetto dispersivo che il fedecommesso “dividuo” da solo non può evitare, poiché rende i beni inalienabili ma non chiama un solo erede al suo possesso. Un ulteriore distinguo va operato tra la primogenitura istituita da un padre a favore di un figlio circa la proprietà di un singolo bene che si vuole indiviso, e la primogenitura istituita da chi eredi diretti – cioè figli o figli dei figli – non ne ha e istituisce una primogenitura sul complesso dei suoi beni residui a favore di un collaterale. In questo caso, l’istituzione della primogenitura ha il carattere di un atto forte a favore di un elemento anziché un altro del parentado. E viene a risolvere una successione complessa, sia pure attraverso gli inevitabili contenziosi e ricorsi del caso. Le faccio un breve esempio, quello di un nobile della famiglia Zen, che non avendo figli, istituisce una primogenitura su tutti i suoi beni in favore di un nipote – figlio di una sorella – che di cognome fa Zorzi.

Per quanto riguarda le monacazioni forzate, esse sono indubbiamente una realtà comune nella società di antico regime, aggravata nel caso veneziano da un mercato delle doti più elevato che altrove, gonfiato dalla limitazione dei matrimoni praticata dai nobili più ricchi e, dietro il loro esempio, anche da altre componenti sociali. Contro le monacazioni forzate si leva a metà Seicento dal monastero benedettino di Sant’Anna di Castello la voce di una monaca, Angela o Arcangela Tarabotti, autrice  di quella Tirannia paterna pubblicata con il titolo di La semplicità ingannata sotto lo pseudonimo di Galerana Baratotti nel 1654 e messa all’indice cinque anni dopo. In questo e in altri scritti la Tarabotti denuncia la violenza delle monacazioni forzate, che ha sperimentato sulla sua pelle, così come l’emarginazione delle donne tenute lontane dalle lettere, dagli studi, dal lavoro. E tuttavia la sua stessa biografia – oggetto di studi recenti – testimonia che il monastero poteva rappresentare per le donne sia una vera e propria “morte al mondo”, sia un luogo adatto per la propria autorealizzazione e promozione sociale, almeno nel mondo delle lettere.

Non generalizzerei neanche l’idea di una clausura obbligatoria, sempre e comunque, per le femmine in esubero cui non si provvedeva con adeguata dote. Padri e madri esplicitano talvolta nel proprio testamento la possibilità di scelta delle femmine tra il chiostro e il matrimonio. Qualcuno prevede anche la possibilità di una terza via – auspicata peraltro anche dalla Tarabotti -, quella che le figlie restino nubili in casa, in un onesto zitellaggio garantito da un modesto legato vitalizio.

Re: Doppia natura della famiglia di Valentina Dal Cin – lunedì, 25 maggio 2009, 18:53

  Vorrei richiamarmi a quanto introdotto inizialmente dal professore circa la dimensione verticale e orizzontale della famiglia. A questo proposito mi sono sembrate interessanti le riflessioni fatte venerdì a lezione sul ruolo della nobiltà nell’Ancien Régime, sulla gerarchia dell’onore e sulla gerarchia della ricchezza. In effetti se la gerarchia dell’onore si basa sul lignaggio (verticale), il quale a sua volta si basa sul culto degli antenati, è pur vero che nel corso dell’età moderna la gerarchia della ricchezza si insinua sempre più (anche se non si affermerà definitivamente che dopo la rivoluzione francese) all’interno della società, costringendo le casate nobiliari a delle alleanze (dunque si parla di famiglia in senso orizzontale) che a volte sono state definite (spesso ingenuamente) “mésalliances”. Ecco, leggendo il capitolo che Casey nel volume sulla famiglia nella storia dedica al ruolo degli antenati mi è parso interessante questo problema, di cui appunto si è già parlato, del potere politico dei lignaggi, del valore stesso del gruppo parentale in rapporto al sorgere di una società che sta andando verso l’individualismo (Casey cita Tocqueville, il quale ovviamente riporta la sua esperienza in merito alla società dei neo-nati Stati Uniti) ed in cui già nel ‘700 il cuore dell’ideologia nobiliare, fatto di virtù e onore (“la valeur”) perde terreno rispetto a “le mérit”, che è per eccellenza borghese (i virgolettati sono termini che prendo a prestito dalla storiografia francese sulla nobiltà d’Ancien Régime). Visto in questa prospettiva credo che l’ intreccio verticale-orizzontale sia particolarmente interessante e possa essere inserito in molti dibattiti storiografici.

Re: Doppia natura della famiglia di Claudio Povolo – martedì, 26 maggio 2009, 00:59

Intervengo sulle osservazioni di Valentina. Verticalità ed orizzontalità indicano soprattutto un approccio allo studio della famiglia o, per meglio dire, alla sottolineatura di alcuni aspetti piuttosto di altri. Appare evidente, come osserva Valentina, che la famiglia coniugale, nella sua identità e visibilità, si delinea molto meglio con il cosiddetto secolo della borghesia. Laddove il tema della parentela si individua in una società (quella di antico regime) dominata dai lignaggi. Le osservazioni di Tocqueville, riportata da James Casey, sono interessanti. L’aristocratico francese nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti, notava come le giovani americane godessero di più ampie libertà (anche sessuali), che poi venivano meno con il matrimonio. Tocqueville osservava come questi tratti fossero alquanto diversi con quelli diffusi tra le aristocrazie europee: la giovane aristocratica, educata in monastero o in famiglia, aveva scarsi spazi di movimento, mentre dopo il matrimonio acquisiva una libertà d’azione notevole. Le doti, evidentemente, ma non solo, giocavano un ruolo in questa diversità. Il matrimonio considerato essenzialmente come scambio ed alleanza implicava che la giovane aristocratica fosse controllata e sottoposta ad una serrata educazione. La nuova unione sanciva spazi che prima erano impensabili. All’inverso nel mondo contadino è ravvisabile una distinzione assai marcata tra celibi (e nubili) e sposati, anche se l’idioma dell’onore dettava il comportamento femminile entro schemi assai rigidi, in funzione di preservare la rete di scambi matrimoniali tra vicini.

Re: Doppia natura della famiglia di Andrea Busato – martedì, 26 maggio 2009, 17:10

Desidero semplicemente ringraziare Laura per la sua splendida e chiarificatrice risposta. Ora dopo il suo intervento ho le idee molto più chiare. Grazie.


Forme matrimoniali. di Diana Bonsignore – lunedì, 25 maggio 2009, 19:02

  Durante la lettura di alcuni testi, ho incontrato (oltre agli, ormai, lungamente menzionati matrimoni segreti, clandestini etc.) altre due forme matrimoniali che non ho ben chiare, ossia il matrimonio morganatico e quello ipogamico.

Non so se ne avete affrontato la trattazione a lezione perchè non sono stata presente a tutte.

Grazie a chiunque saprà colmare le mie lacunesorridente

Re: Forme matrimoniali. di Claudio Povolo – martedì, 26 maggio 2009, 00:42

Le forme di matrimonio ricordate da Diana sono generalmente citate per definire matrimoni che avvengono nell’ambito di case regnanti e che per la disuguaglianza sociale dei contraenti non producono effetti successori di alcun genere. E’ evidente la loro analogia con il matrimonio segreto o di coscienza, che però era diffuso tra tutti i ceti sociali, anche se era particolarmente radicato nelle aristocrazie. Inoltre a definire l’assenza di ogni implicazione ereditaria nel matrimonio segreto era per l’appunto la segretezza. Si vedano i bellissimi consulti di Piero Franceschi pubblicati nel sito.

Vorrei invece ricordare un’altra forma di unione: il cosiddetto concubinato ancillare, che i registri canonici di molti villaggi ci attestano diffuso sino alla fine del Seicento. A diversità del semplice concubinato (cioè di persone che vivevano more uxorio senza essere sposati (mutatis mutandis gli attuali conviventi) e che venne aspramente combattuto dalla Chiesa (con successo), il concubinato ancillare esprimeva la diversità di status tra membri (maschili) dell’aristocrazia e giovani contadine. Infatti era assai diffuso in campagna, soprattutto laddove esistevano vaste proprietà nobiliari, e i giovani (e meno giovani) rampolli dell’aristocrazia, impossibilitati a sposarsi (per la strategia politica del lignaggio cui appartenevano) avevano un rapporto generalmente duraturo con una giovane donna (e con relativi figli). Ancora, il sito ce ne fornisce qualche esempio. Si trattava per lo più di unioni caratterizzate dall’amore e dall’affetto. Ma esisteva anche una loro più che evidente implicazione antropologica. Tramite il rapporto intessuto con un membro dell’aristocrazia, la parentela contadina cui la giovane donna apparteneva poteva ottenere evidenti benefici sul piano economico e sociale. Si trattava di unioni che duravano spesso per una vita intera. Se si concludevano prima, la giovane riceveva una dote onorevole che le permetteva di sposarsi con un membro del suo ceto sociale e riacquisire la fisionomia che aveva in precedenza. Di per sè il concubinato ancillare, sino a che durava, non comportava omunque che l’onore della giovane fosse messo in discussione dalla comunità.


Sopralluogo a Finale di Agugliaro di Claudio Povolo – lunedì, 18 maggio 2009, 16:10

Come molti di voi già sanno, sabato 30 maggio è previsto il sopralluogo a Finale di Agugliaro, con successiva visita ad Orgiano. Successivamente spedirò il programma più dettagliato. Nel frattempo chi fosse interessato è pregato di comunicarlo ad Eleonora Stabile. La mail di Eleonora è la seguente:

  eleonora.stabile@gmail.com

Re: Sopralluogo a Finale di Agugliaro di Claudio Povolo – venerdì, 22 maggio 2009, 19:38

Si avvisa che la visita prevista per sabato 24 maggio è sospesa.


Vincenzo Scroffa e Violante Ribeira di Claudio Povolo – giovedì, 14 maggio 2009, 00:42

Disponiamo dell’accurata biografia di Vincenzo Scroffa redatta da Edoardo Demo, che ringrazio vivamente (cfr. il glossario). La vita di questo aristocratico vicentino si può certamente definire alquanto particolare e straordinaria, soprattutto per i vincoli di parentela che egli stabilì con la famiglia portoghese dei Ribeira. Dopo la morte di Gasparo Ribeira l’enorme patrimonio di famiglia passa alla figlia Violante, divenuta moglie di Vincenzo Scroffa. Edoardo segnala l’intensa attività di Vincenzo Scroffa condotta per conto e in nome di Violante. L’atto di procura con cui Violante lo designa come colui che dovrà gestire i suoi beni è accompagnato dalla consueta formula giuridica: ” [per]imbecillitatem feminei sexus”. Una formula che teoricamente si giustifica con il fatto che i beni posseduti da Violante provenivano dal padre Gasparo, ma di certo erano alquanto più estesi della sua quota di legittima e i due coniugi avevano già un figlio (che morirà poco dopo il matrimonio contratto con Paola Martinengo). La formula in realtà, più che definire uno status specifico della donna, ne configurava le implicazioni parentali ed ereditarie. Implicazioni che ritroveremo successivamente nelle stesse scelte di Polissena. Di certo questa famiglia si caratterizza per la dimensione straordinaria di alcuni personaggi femminili come Violante e Polissena.

Re: Vincenzo Scroffa e Violante Ribeira di Valeria Favretto – domenica, 17 maggio 2009, 17:18

  Mi sembra che ciò che accomuna Violante e Polissena è che si siano trovate entrambe ad essere le uniche eredi di enormi patrimoni e che il capofamiglia maschio, ancora in vita, non volesse far finire il suo patrimonio con una donna e totalmente nelle mani di una donna.

L’intento di Gasparo Ribeira e Vincenzo Scroffa è dare continuità nel futuro al patrimonio, ma non solo come base economica sempre presente per gli eredi: c’è anche una profonda ideologia in cui il patrimonio rappresenta il lignaggio. Mi sembra che questi due signori si percepiscano perfettamente inseriti nell’albero genealogico della loro famiglia, tanto per il passato quanto per il futuro. Infatti la loro strategia punta a perpetuare il patrimonio nel futuro della famiglia, non solo come bene economico, ma anche come espressione del lignaggio cui essi si sentono profondamnete parte, della sua solidità, della sua storia passata e della sua continuità nel futuro.

Allora attorno a Violante e Polissena ruota tutta la vicenda: a me sembra anche che attraverso loro fluisca tutta la vicenda e soprattutto il patrimonio.

Violante ha ricevuto più della legittima: così il padre fa gestire parte, almeno, del suo patrimonio a Vincenzo Scroffa, tramite la cessione della figlia (con la formula “per imbecillitatem…”).

Vincenzo Scroffa, poi, designa Polissena unica erede purché sposi uno dei due Scroffa: solo in questo modo il suo patrimonio torna a un maschio Scroffa, passando ancora attraverso una donna.

Re: Vincenzo Scroffa e Violante Ribeira di Claudio Povolo – lunedì, 18 maggio 2009, 00:09

Valeria avanza alcune osservazioni interessanti, che vorrei riprendere. L’aspetto forse più interessante di tutta la vicenda risiede nel fatto che fa emergere incontestabilmente il ruolo dell’eredità femminile. Attenzione: non, di per sè, della donna, ma del patrimonio che le è giunto. Viene da dire che alcuni meccanismi che muovono il lignaggio aristocratico s’inceppino e creino, di volta in volta, situazioni simili. Il problema più concreto era dato evidentemente dal fatto che era assai facile che non si ripresentasse una successione maschile adeguata. Mi sembra comunque di percepire una diversità sostanziale tra Violante e Polissena (nonna e nipote, non dimentichiamolo). Violante ha un figlio maschio, quando Vincenzo Scroffa opera con la clausola che Edoardo Demo ha segnalato. Sappiamo che poco dopo la nascita di Polissena , morirà, ma nel frattempo il  patrimonio giunto a Violante è sostanzialmente ‘inibito’ per la parte eccedente la legittima. Sarebbe ovviamente interessante avere altre informazioni (dote, testamento eventuale di Gasparo Riberira, ecc.), ma la situazione è questa. Polissena è invece “sola”, anche se in ‘età pupillare”. La decisione del nonno è, in un certo senso, pur inserita negli schemi culturali del tempo, eccessiva, in quanto con la previsione dello stesso matrimonio esplicitava una palese violazione della libertà di consenso. Inoltre la sostituzione pupillare (fedecommesso) da lui prevista agiva sulla stessa quota dei beni Ribeira che avrebbero dovuto comunque pervenire a Polissena. La figura femminile, come nota Valeria, è dunque il tramite di un linguaggio parentale maschile. Ma attenzione, sarebbe ingenuo ritenere che lasciasse immutato il ruolo della donna. Come dimostrano le vicende settecentesche, l’ampliamento dell’eredità femminile produsse nel mondo aristocratico un ruolo più incisivo della figura femminile. Se confrontiamo l’evanescente figura della vedova di Biagio Saraceno senior, cui quest’ultimo si premunisce di lasciare il proprio letto (1502), con la prorompente aggressività di Anna Ferramosca, il divario sembra enorme…


Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – mercoledì, 29 aprile 2009, 00:46

Sottopongo all’attenzione un altro problema che mi sembra interessante: la diversità o le affinità esistenti tra storia delle donne e storia di genere. Direi che quest’ultima si caratterizza soprattutto per la sua interdipendenza con altri fattori. Dire storia di genere femminile comporta necessariamente la considerazione di un genere (quello maschile) che si connota per le sue diversità, ma anche per le connessioni reciproche. Questa considerazione è ad esempio decisamente percettibile nel tema dell’onore: il maschile e il femminile si connotano per le loro caratteristiche notevolmente diverse, ma anche per le loro connessioni. Caratteristiche che nell’uomo sono per lo più collegate al concetto di fama, mentre nella donna a quello di sangue. Ed ovviamente le caratteristiche di genere definiscono pure comportamenti sessuali che sono ritenuti consoni in maniera diversa per i due generi. Tali diversità e tali connessioni, come si è detto a lezione, si sono notevolmente modificate negli ultimi decenni. Sappiamo comunque come nel corso della storia l’onore dell’uomo fosse sostanzialemte nelle mani della donna, suggerendo la stretta interdipendenza tra i due. La storia delle donne sembra invece ricollegarsi ad un approccio storiografico più esclusivo: una scelta di tipo culturale che lo storico (o la storica) attua in base ad alcune considerazioni preliminari, come ad esempio la convinzione di affrontare la storia di coloro che nella storia hanno avuto una minore visibilità. E’ evidente che la storia delle donne si presta molto di più al genere biografico, mentre quella di genere inclina verso la storia culturale, Nelle vicende da noi esaminate credo che entrambi gli approcci storiografici possono essere individuati. Nella vicenda di Euriemma Saraceno, mi pare di avvertire che la stessa Euriemma si presti di più all’approfondimento di una storia di genere (nel suo versante successorio); mentre quella della madre Trivulzia sospinge all’incontrario verso il genere biografico e di storia delle donne. Ovviamente ci possono essere ( e ci sono) anche altre considerazioni in merito alla distinzione tra i due tipi di storia. Sarei curioso di conoscere la vostra opinione in merito.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Elisabetta Savarese – mercoledì, 29 aprile 2009, 09:19

  probabilmente il mio intervento risulterà fuori luogo, ma mi chiedo se “fare storia delle donne” non comporti in se’ rischi di unilateralità.

cerco di spiegarmi:ponendo in rilievo esclusivamente la figura femminile non può esserci il rischio di estrapolarla dal contesto sociale in cui è esaminata e di eccedere in un atteggiamento che si potrebbe definire femminista?

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Paola Caldognetto – mercoledì, 29 aprile 2009, 17:15

 Trovo utile rilevare affinità e differenze proprio ai fini di essere consapevoli dei contenuti veicolati dall’una e dall’altra disciplina.

Ma probabilmente un taglio più o meno femminista credo sia da attribuire soprattutto allo storico, per quanto il tipo di approccio di storia delle donne sia effettivamente più “pericoloso”.

Comunque ritengo che i due approcci sfumino l’uno verso l’altro e che spesso si siano reciprocamente di stimolo, per esempio quando una biografia suscitasse un approfondimento più ampio che implica appunto la storia di genere.

Quesito su due informazioni del glossario:

cercando di capire meglio i vari tipi di testamento ho notato che se pronunciati o consegnati da un testatore donna in presenza del marito, questi erano ritenuti nulli (vedi nel glossario “Testamento nuncupativo” e “Testamento solenne”). Ma non avrebbe dovuto essere il contrario? Appunto la presenza del marito e quindi, si presume, la conoscenza ed eventualmente la condivisione degli intenti della consorte non avrebbe dovuto essere condizione di validità per quel documento?

A quanto pare no anche se non mi spiego quale sia il ragionamento di fondo che è alla base di questa prassi. Ecco che è proprio necessaria una maggior conoscenza della storia di genere per capire la mentalità, oltre che le leggi e le regole, di 4 secoli fa.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Giorgio Trivella – mercoledì, 29 aprile 2009, 18:56

   Forse una bestialità: potrebbe essere che questa forma di testamento (nuncupativo) in realtà sia da considerare un’antica forma di garanzia delle volontà della testatrice derivata dal diritto romano, e cioé di impedire al marito di “veicolare”, tramite la propria presenza, le disposizioni testamentarie della moglie?

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – giovedì, 30 aprile 2009, 22:54

Rispondo all’interrogativo di Paola in merito al testamento nuncupativo. Come avrete notato il testamento solenne diveniva esecutivo solamente al momento della sua pubblicazione , che doveva avvenire presso un’apposita magistratura (riscontrabile in tutte le città italiane) e alla presenza di almeno due testimoni che avevano assistito alla redazione del testamento. Era questo aspetto, insieme alla richiesta presenza di almeno sette testimoni, a decretare la solennità del testamento. Ma riportiamo il passo tratto dal saggio su Polissena:

A differenza di quanto avveniva nel mondo contadino, in cui era ampiamente diffuso il cosiddetto testamento «nuncupativo », dettato cioè dal testatore al notaio, negli ambienti aristocratici era assai comune ricorrere al testamento «solenne». Tale procedimento doveva avvenire alla presenza di ben sette testimoni, i quali, una volta che il notaio avesse chiuso l’atto testamentario, dovevano apporre sul retro la loro firma e un sigillo. Era questa formalità che caratterizzava la solennità del testamento, sia che esso fosse stato «segreto» e cioè consegnato chiuso al notaio, che dettato a lui apertamente dal testatore in presenza degli stessi sette testimoni. La conseguenza del testamento solenne consisteva essenzialmente nel fatto che esso, una volta chiuso, non era già insignito di quei requisiti giuridici che l’avrebbero reso immediatamente esecutivo alla morte del testatore, come invece avveniva nei testamenti nuncupativi. La sua «pubblicazione» sarebbe allora avvenuta «solennemente» con l’apertura del testamento da parte del notaio davanti al podestà della città e in presenza di almeno due dei sette testimoni, che avrebbero dovuto riconoscere la loro scrittura e il loro sigillo. La sanzione giuridica apposta dal massimo rappresentante della città qualificava dunque il testamento aristocratico, garantendo con il rispetto della volontà del testatore la continuità dei valori ideologici e culturali della casa.

Il testamento solenne poteva dunque essere sia olografo (scritto di proprio pugno) che segreto. La sua consegna al notaio avveniva alla presenza dei testimoni che dovevano apporre la propria firma. Spettava poi al notaio, dopo la morte del defunto, provvedere perchè il testamento fosse consegnato all’apposita magistratura per la sua pubblicazione. Le maggiori garanzie risiedevano evidentemente sia nella fase iniziale (chiusura con testimoni) che in quella finale (pubblicazione). Solo quest’ultima lo rendeva comunque esecutivo. Tra gli atti notarili si ritrovano di frequente testamenti ancora chiusi e sigillati e mai aperti. Evidentemente  perché il testatore aveva provveduto a modificare le sue ultime volontà con un successivo testamento.

Il testamento nuncupativo era invece immediatamente esecutivo. E richiedeva un minor numero di testimoni. Poteva ovviamente essere utilizzato anche nel mondo aristocratico. A diversità di quello solenne, questa forma di testamento comportava che le ultime volontà del testatore divenissero immediatamente note e rese esecutive (salvo le diverse previsioni con un successivo testamento). Cambiava dunque il rapporto tra testatore ed eredi. E tale testamento si prestava ad essere utilizzato se chi testava aveva evidentemente l’interesse di chiarire da subito il suo rapporto con gli eredi (ad esempio beneficiando un figlio o una figlia che lo avesse assistito). Evidentemente non conservava le stesse garanzie di quello solenne ( i due testi potevano essere accondiscendenti con i presunti eredi, e così pure il notaio, o potevano esserci palesi interferenze). Il testamento solenne creava invece un diverso rapporto tra testatore ed eredi: manteneva costante il rapporto di potere del pater familias nei confronti degli eventuali eredi, anche se, come vedremo, il testamento non poteva essere dirompente rispetto alla struttura culturale e politica dei lignaggi (nel senso che non poteva divergere di molto). In definitiva è presumibile che la disposizione che vietava al marito di essere presente alle ultime volontà della moglie mirassero a garantire, nel testamento nuncupativo, un soggetto tendenzialmente più debole. Si legga, a questo proposito il punto 4.4 Le conseguenze del matrimonio di Trivulzia Brazzoduro. Il testamento della donna è chiaramente influenzato dal ‘marito’, come si fa notare anche nella scrittura riportata. Vi sottoporrei, dunque, un quesito: perché gli avvocati di Euriemma non misero chiaramente in evidenza questo aspetto? Vi possono essere di aiuto le prime due scritture riassuntive (4.1, 4.2).

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Cristina Setti – venerdì, 1 maggio 2009, 18:01

  Per dare ulteriore risposta alle osservazioni di Paola sul testamento nuncupativo (della cui voce sono l’autrice), vorrei soltanto aggiungere che gli atti testamentari firmati dalle donne in ogni caso non potevano avere validità sino al decesso del marito, loro reale tutore (v. M. Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, vol. II, p. 786: “Le mogli, quantunque sotto la podestà del marito, possono far testamento senza il di lui assenso, perchè la loro disposizione non può aver effetto, se non in un tempo in cui né la loro persona né i loro beni saranno più in potere del marito”). Di conseguenza, il fatto che esse potessero presentarsi dinanzi al notaio da sole costituisce una palese forma di garanzia, che sottraeva le disposizioni della donna dagli eventuali condizionamenti del suo sposo; il quale però, finchè restava in vita, ne manteneva indiscutibilmente la gestione. Non è quindi necessario che egli “condivida” o controlli gli atti della consorte in alcun modo, perchè non vi è alcun pericolo che tali atti ne limitino la potestà.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Giorgio Trivella – mercoledì, 29 aprile 2009, 18:40

   Non credo che con la storia delle donne si estrapoli la figura femminile dal contesto sociale: piuttosto ritengo si centri l’analisi sulla figura della donna riferita proprio alle molteplici interconnessioni con il proprio ambito di vita.

   Riguardo il rischio di “deriva” verso il femminismo, ebbene forse questo è collegabile più ad un giudizio di valore espresso dallo studioso nei confronti della figura femminile piuttosto che al percorso stesso di analisi dei dati.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – giovedì, 30 aprile 2009, 01:34

Riprendo gli interventi di Elisabetta, Paola e Giorgio sul rapporto tra storia delle donne e storia di genere. Elisabetta ha colto nel segno quando osserva che la prima può comportare dei rischi. Di certo la storia delle donne nasce verso la fine degli anni ’60 sotto la spinta del femminismo, acquisendo sempre maggiore visibilità nel mondo accademico. Oggi quasi tutte le università americane hanno un dipartimento esplicitamente intitolato women’s history. E’ sotto la spinta di una nuova ricerca di identità da parte delle donne che si manifesta pure l’interesse di riscoprirne la storia. In quale misura questo fiolone è stato fecondo? Di certo ha avuto il merito di porre l’attenzione su un ‘soggetto’ assai poco studiato. E si accompagna, indubbiamente, all’interesse che in quegli stessi anni si rivolge ai ceti più umili della società con un taglio che è stato definito di history from below. Una sorta di reazione alla storia cosiddetta évenementielle, dei grandi avvenimenti e alla storia della grande politica. Un buon esempio di questo è dato dal fortunatissimo filone della demografia storica. Ma, come osserva giustamente Paola, essa rifletteva la percezione da parte degli storici (e soprattutto da parte delle storiche) che intendevano riproporre una diversa, o comunque più ampia, visione del passato. Va però aggiunto che si sono spesso cercati problemi e tematiche che difficilmente erano rintracciabili nei secoli passati. Da parte delle storiche americane si è ad esempio ricercato se tra le donne del passato fosse individuabile quella che è stata definita individual agency, cioè una sorta di capacità decisionale da parte delle donne (un esempio Il ritorno di Martin Guerre di Natali Zemon Davis) . Evidentemente un problema del presente che, calato nel passato, ha condotto a frequenti travisamenti. E credo che sicuramente riprenderemo questo tema esaminando le vicende successorie presentate nel sito. Una ricerca espressamente definita ‘storia delle donne’ in contesti antropologici e politici dominati dalla parentela maschile e dalla parentalizzazione dei conflitti (si veda il mio primo intervento) è destinato in molti casi a rimanere infecondo. Va pure aggiunto che certi risultati sensibili si sono raggiunti solo laddove la figura della donna aveva una visibilità sociale spiccata (poetesse, letterate, artiste, ecc.). Ma questa osservazione, in un certo senso, si ritorce sulla stessa definizione del filone di ricerca, in quanto, evidentemente, impone delle riflessioni sullo stesso quadro di riferimento (gli esclusi della storia sono molteplici…). Queste osservazioni, ovviamente, non comportano che non si possa fare storia delle donne, ma gettano in realtà molti dubbi sulla posizione iniziale che detta la ricerca (storia delle donne). Negli esempi da noi presentati ci sono difatti molti casi che si prestano ad una ricerca biografica (si legga il caso di Laura Ghellini). Ma per l’appunto si tratta di una biografia, genere che comporta non pochi problemi (si vedano le osservazioni in Biografie al femminile). Direi inoltre che la stessa terminologia Storia delle donne ha sul piano teorico una debolezza di fondo. Presuppone un’alternativa/esclusione che è data dalla Storia degli uomini. Una scelta che farebbe certamente sorridere chiunque la adottasse e che si può facilmente respingere con l’assunto che la storia degli uomini è scontata in quanto coincidente con la storia della società nel suo insieme. Ma, comunque l’alternativa/esclusione rimane e suggerisce, evidentemente che si vada piuttosto in un’altra direzione. Non riprendo la vecchia obiezione, di matrice marxista, che escludeva queste scelte di campo, sull’ovvia considerazione che la storia è essenzialmente una storia di classe. E’ sin troppo facile obiettare che il concetto di classe è assai tardo e comunque che non si può, a priori, respingere l’attenzione nei confronti di soggetti storici alternativi. Il filone di ricerca si è invece arricchito quando gli antropologi hanno riversato sulla storia europea concetti e spunti di ricerca di grande interesse. Mi riferisco ovviamente alla storia di genere con quanto essa implica nelle sue molteplici varianti (ad esempio la storia dell’onore). Credo che Giorgio ha intuito una delle questioni di fondo. Il genere si può costituire come elemento di fondo, a diversità di altri filoni più consueti come la storia economica, politica, ecc. Per definire l’importanza di questo faccio un esempio. La definizione di parentela si collega direttamente e intensamente alla questione di genere. C’è una parentela maschile e femminile; una filiazione patrilineare e una filiazione matrilineare; nozioni che si collegano al concetto di agnazione e di cognazione (completeremo al più presto il glossario). Appare evidente che la nozione di parentela attraversava tutta la società anche se con declinazioni diverse a seconda dei livelli cetuali. Ed aveva una dimensione giuridica esplicita. Basti leggere i giuristi medievali e della prima età moderna e si troveranno gran parte di questi concetti (agnazione, ecc.). Dunque, il concetto di genere è importante e ingloba al suo interno anche la storia delle donne, inserendolo però in una serie di interrelazioni sociali e politiche complesse: una donna si definisce nella sua parentela; è madre, moglie, figlia, vedova. E’ nell’ambito della sua parentalizzazione che essa, paradossalmente, si definisce con maggiore chiarezza ed acquista il suo timbro giuridico…

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Giorgio Trivella – mercoledì, 29 aprile 2009, 18:27

   Si potrebbe quindi affermare che una “storia di genere” si caratterizzi per elevare a elemento costitutivo principale il genere, isolandolo da altri temi – quali ad esempio il politico, l’economico, il sociale – che, pur importanti per ogni analisi, sono da considerare attrezzi dell’investigazione, quasi a creare un rapporto di causa (il genere) ed effetto (altri percorsi d’analisi)?

Re: Storia delle donne o storia di genere?di Marta Chiaradia – giovedì, 30 aprile 2009, 16:22

  Io non penso assolutamente che “storia di genere” significhi attribuire peso maggiore all’elemento costitutivo “genere”, tralasciando altri aspetti essenziali all’investigazione, da quello economico, a quello politico, a quello più prettamente sociale. Penso che con “storia di genere” si voglia sì dare valore analitico al ruolo maschile o femminile (come nel nostro caso in cui, e lo ha sottolineato anche il prof. Povolo, la donna viene studiata da diversi punti di vista, cioè in qualità di figlia, madre, moglie e vedova), ma che non se ne possa fare una sola questione di genere. Sono certa che per effettuare un’analisi completa del problema non si debba prescindere dal contesto in cui questo problema si colloca e che quindi si debbano considerare anche le determinanti economiche, sociali e politiche implicate. Non trovate???

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – venerdì, 1 maggio 2009, 20:34

Rispondo a Marta. E’ indiscutibile che una storia di genere non può prescindere da altre variabili economiche, politiche, ecc. L’attenzione posta al genere (sia maschile che femminile) presuppone che si assegni importanza primaria a questo dato rispetto ad altri fattori. E’ plausibile tale approccio? Di certo, quanto meno a mio avviso, mi sembra più proficuo dell’approccio che si limiti al genere ‘storia delle donne’, anche se ovviamente conta, più di tutto, la sensibilità dello storica/a nell’avvicinarsi ai problemi. Direi che l’approccio di genere è particolarmente fecondo laddove si cala in società dominate dal lignaggio e dalla parentela ed aiuta a cogliere problemi che con i tradizionali criteri di analisi rimarrebbero sullo sfondo. La parentela maschile e l’agnazione sottolineano il potere del genere maschile che si estrinseca in molti campi (familiare, politico, economico, ecc.). Ma sappiamo pure che tale genere, di per sè (right hand), ha senso compiuto solo se rapportato al complementare genere femminile (left hand). Così nell’ambito della famiglia, dell’onore, dei rapporti affettivi, ecc.). Questo, ad esempio, si rinviene nell’importante campo dell’onore (l’onore maschile e del lignaggio in genere è nelle mani delle donne, quantomeno sul piano del ‘sangue’), oppure nella duplicità della configurazione femminile nell’ambito del lignaggio. Un uomo si configura solo in quanto agnate; una donna, all’incontrario, è agnate nel lignaggio di origine, ma nella nuova famiglia, pur non acquisendo una nuova definizione, occupa un ruolo centrale in quanto moglie (ma rimane anche figlia nel vero senso del termine) e madre. Gli antropologi hanno sottolineato difatti come l’istituto della dote tenda a sottolineare il ruolo di figlia e di madre piuttosto che quello di moglie. Il contesto, di ogni vicenda, di ogni famiglia, di ogni lignaggio, di ogni periodo storico, ridefinisce costantemente questa duplicità, che però mantiene una sua costante importanza, almeno sino a quando non prevarrà la famiglia intesa soprattuttto come coppia. E non è un caso che un discorso notevolmente diverso va fatto laddove è prevalente (come in Istria o in Sicilia) la comunione dei beni tra coniugi. In definitiva, mi sembra che la questione di genere, intesa come problema importante ed essenziale da parte dello storico, aiuti a ridimensionare l’analisi storica. Anche a proposito della faida, ricordando alcune analisi di Levi-Strauss sul tabù dell’incesto, la questione di genere non è indifferente, se si pensa che la gestione dei conflitti tra gruppi parentali (in presenza di autorità politica non centralizzata come quella rappresentata dallo stato) ha come cardine il ristabilimento di paci e la creazione di alleanze: ed entrambe sono spesso raggiunte con la cessione di una donna e cioè con il matrimonio.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Cristina Bagarotto – domenica, 3 maggio 2009, 12:40

Non esiste alcun rischio, a mio parere, di incorrere in atteggiamenti femministi durante l’analisi dei casi riguardanti queste donne. Si percepisce, infatti, talmente forte e preponderante la presenza degli uomini di queste famiglie, i quali  in vari modi – e a fini puramente economici e di difesa del lignaggio – le avevano costrette o manipolate a ricorrere alla giustizia per reclamare i loro diritti ereditari, da escludere qualsiasi individual agengy nelle azioni delle protagoniste. (Il fenomeno sociale delle rivendicazioni femministe è qualcosa di veramente recente e ancora molto “in divenire”).

Viene da chiedersi, infatti, quale spazio di autonomia decisionale avrebbe potuto avere una donna, qualora avesse preferito mantenere l’armonia e i buoni rapporti nella famiglia, anziché intraprendere lunghe e dolorose contese giudiziarie per entrare in possesso della loro parte di eredità? Nessun spazio, suppongo, le pressioni dei mariti, figli, ecc. sarebbero state così determinanti da costringerle a reclamare in ogni modo i loro presunti diritti, subendo poi le inevitabili, e a volte devastanti, fratture all’interno dell’ambito famigliare.

Il caso della particolare ostinazione di Anna Ferramosca nel perseguire i suoi scopi potrebbe invece dimostrare quanto quei valori tipicamente maschili dell’integrità del patrimonio e della salvaguardia del lignaggio si fossero così tanto radicalmente inseriti anche in quella parte “non visibile” della società e della famiglia, come era considerata la donna.

Si tratta, quindi, di storie di donne strettamente inserite, ed indissolubilmente legate, alla storia di genere di quel ramo del diritto – nei secoli scorsi di interesse più maschile che femminile – inerente la successione ereditaria.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – lunedì, 4 maggio 2009, 00:26

Le osservazioni di Cristina allargano le considerazioni sulla storia di genere. La vicenda di Anna Ferramosca (narrata al punto 5) è emblematica della figura della vedova in determinati contesti e situazioni e  aiuta a cogliere alcune specificità della storia di genere. La vicenda ripropone la figura della vedova: in questa, come nel conflitto che oppone alcuni membri della famiglia Saraceno, è una vedova che diviene portatrice dei valori del lignaggio. Ludovica Saraceno Ghellini, per difendere l’integrità del lignaggio, giunge al punto di mettere in discussione l’onore (con la legittimità) della nipote Euriemma. Anna Ferramosca non solo travolge ogni diritto del fratello Cesare, ma, come vero e proprio leader del lignaggio, pone dei limiti ferrei alle richieste di libertà del figlio. La figura della vedova è sempre stata considerata con una certa diffidenza non solo da parte della Chiesa, ma anche dai diversi strati sociali. Con un nuovo matrimonio la vedova può infatti scombinare parentele già acquisite ed equilibri economici consolidati. E nelle comunità rurali i matrimoni tra vedovi erano sottoposti alle mattinate. Se, per l’età e la posizione, occupa un ruolo di rilievo nell’ambito della famiglia, ella finisce per assumere la funzione di capofamiglia. Pur conservando le sue caratteristiche di genere (che ne sottolineano il ruolo passivo o comunque legato alla dimensione della trasmissione del sangue) la vedova acquisisce pure tratti che sono tipicamente maschili: aggressività, predisposizione alla competizione, ecc. Un’ambiguità pericolosa, dunque. Possiamo dunque dire che i tratti di genere, laddove dominano forti gruppi parentali, sono manipolati in funzione della conservazione del lignaggio e delle sue basi economiche. La declinazione di genere femminile, considerato nei suoi diversi ruoli parentali (figlia, moglie, madre, vedova) denuncia in maniera appariscente i suoi tratti culturali. In quanto figlia, la donna è considerata veicolo di alleanze (tutta la biografia di Anna Ferramosca è concepita in quest’ottica) e come tale ne può veicolare il prestigio. In quanto madre, inserita nel nuovo lignaggio, la donna vede valorizzare solo apparentemente le sue funzioni biologiche in quanto deve assicurare la trasmissione del sangue (valore culturale). La dimensione di moglie rimane in ombra, tant’é che alla morte del marito conserva un ruolo (come vedova) solo assicurando la continuità del lignaggio (e sul piano successorio le viene assicurato l’usufrutto sui beni del marito). Il genere femminile è intensamente legato ai valori dell’onore proprio in quanto questo idioma-linguaggio meglio sa rappresentare la complemetarietà tra funzioni biologiche (la riproduzione) e culturali.

Se la questione di genere è intimamente legata alla dimensione economica, va pure aggiunto che in una società cetuale essa si declinava pure in base allo status. Il genere femminile veniva interpretato in maniera diversa a seconda dello status in cui veniva a collocarsi la donna. Una donna aristocratica poteva dominare ed impartire ordini ad un uomo appartenente a ceti sociali inferiori. In un suo famosso libro l’antropologo anglosassone Julian Pitt-Rivers parlava infatti di the politics of sex. Prendiamo ad esempio la vicenda di Euriemma. Il padre Pietro Saraceno ha una relazione con la nobildonna Trivulzia Braccioduro, da cui nasce la stessa Euriemma. Il matrimonio segreto celebrato in fretta e furia poco prima della morte di Trivulzia non era di certo il dato che di per sè poteva assicurarne la legittimità e, con questa, i diritti successori. Sappiamo inoltre che il Saraceno aveva pure una relazione con una donna contadina (una domestica di casa) da cui ebbe due figlie. Sembrerebbe che a decretare la diversità dei diritti e delle aspirazioni successorie, nel caso di Euriemma e delle due sorellastre, sia la diversa condizione sociale della madre, ma questo è solo in parte vero e si spiega con gli evidenti interventi della parentela materna di Euriemma per salvaguardarne i diritti successori. Come pure si potrebbe dire che a caratterizzare il diverso destino di Euremma e delle due sorellastre stia la pur modesta condizione economica della madre. O l’ambizione da parte del marito (Scipione Caldogno) di mettere le mani su una parte del patrimonio dei Saraceno. Un ruolo di certo lo giocò l’educazione impartita ad Euriemma in alcuni monasteri cittadini. Ma tutto questo sarebbe stato sufficiente se alcuni parenti aristocratici di Euriemma non fossero intervenuti? Probabilmente no. Di certo la dimensione dello status permise che tutti questi fattori interagissero in favore di Euriemma. Mentre nessuna possibilità avevano le sorellastre. Ma non fu così per Anna Ferramosca: figlia di una contadina (Elisabetta Stradiota) mentre il padre era figlio naturale di un Ferramosca. Il destino di Anna fu diverso in quanto il lignaggio Ferramosca (nel frattempo cooptato nel patriziato veneziano) pensò bene di ‘recuperare’ una lontana parente illegittima per mantenere compatto il prorpio patrimonio. In tal caso la dimensione politica sembra avere avuto un’importanza decisiva nell’interpretare alcuni valori collegati al genere femminile. Appare comunque evidente che solo la consapevolezza delle caratteristiche e dell’importanza della storia di genere è in grado di collocare queste vicende nella loro giusta dimensione. E il diritto successorio che i giuristi ci hanno trasmesso con i loro discorsi e le pratiche veicolate dai conflitti hanno entrambi nella questione di genere un forte e significativo elemento rappresentativo (o culturale) che è in grado di rinviare alle dimensioni del potere. E difatti nel titolo del corso avevamo sottolineato la triade: Discorsi, pratiche e rappresentazioni.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Diana Bonsignore – lunedì, 11 maggio 2009, 10:42

Ho letto con molto interesse le riflessioni circa il rapporto fra storia di genere e storia delle donne e, adesso, vorrei lasciare anche il mio contributo (sottolineando che si tratta appunto di una “mia” ipotesi, probabilmente priva di fondamento).

In primis, per entrare nel focus del discorso, faccio una premessa: pur essendo un’antropologa (in special modo, per la mia formazione triennale, sono un’antropologa del genere, quindi vado a nozze con questi discorsisorridente ), ho sempre avuto delle difficoltà a considerare l’antropologia alla stregua di una disciplina autonoma. A mio avviso, dal momento che l’antropologia studia l’uomo, quindi, in ultima istanza, ogni altro campo d’indagine (dalla letteratura alla matematica passando per il diritto) altro non è se non un prodotto dell’uomo, un prodotto culturale, la materia antropologica può essere considerata una sorta di “condizione fondante”, una conoscenza preliminare che tende ad inglobare tutto il resto. Chiusa questa parentesi, io creerei una specie di similitudine, di confronto, fra antropologia e storia di genere poichè anche quest’ultima, sempre secondo il mio modesto parere, non può essere ritenuta pienamente un settore autonomo. Mi spiego meglio: il genere, anzi, per essere più precisi, la presenza di due diversi generi, è la condizione di base (lo “status quo” ineludibile) grazie alla quale gli altri ambiti di indagine storica (per esempio economica, politica etc.) possono esistere. Ed inoltre, non solo l’esistenza di un uomo e di una donna generano un binomio minimo (declinando svariate e diverse forme di organizzazione sociale), ma il genere attraversa costantemente ogni altro campo di ricerca, come se si trattasse di un asse cartesiano costituito da infiniti incroci. Ovviamente, la famiglia, proprio in virtù della sua natura, cioè quella di primaria forma di vita relazionale, offre i migliori spunti per l’analisi del genere (prendendo il discoro molto alla lontana, si può giungere ad affermare che dalla coppia, tramite un lunghissimo processo, si possa pervenire alla comprensione di realtà complesse come, ad esempio, lo Stato!!!).

Inoltre, concordo con quanti, oggi, tendano a superare, a porre in secondo piano (fino quasi a farla scomparire), la distinzione fra storia di genere e storia delle donne: al di là del fatto che la denominazione “storia di genere” esprima esplicitamente la considerazione di una dualità (un’interpretazione del femminile che rimanda necessariamente al maschile) che, invece, non troviamo nella denominazione “storia delle donne”, a conti fatti, ritengo che qualsiasi studioso serio e scrupoloso, se pure a livello implicito, non possa in alcun modo omettere, nell’ambito degli studi sulla donna, la figura maschile. Del resto, anche le stesse indagini sul genere, spesso, sono cadute in errore poichè hanno tentato di studiare la femminilità ponendola in un rapporto fuorviante con la mascolinità (una sorta di definizione “in opposizione e per mancanza”, con tutti i possibili limiti di tale impostazione). Quindi, torno a ripetere, tutto risiede, più che nella distinzione fra storia delle donne e storia di genere, nell’onestà intellettuale dello studioso/a. E, con questa ipotesi, vorrei chiudere il cerchio aggiungendo che una studiosa femminista non necessariamente produce ricerche orientate (forse, questa mia convinzione deriva dal fatto che io stessa mi sento vicina al femminismo): il desiderio di dare visibilità al soggetto femminile (possiamo chiamare tutto ciò femminismo anche se io penso che, dagli anni ’60 in poi, l’uso di questa “etichetta” è stato un pò abusato…con la parola femminismo si è inteso un numeroso gruppo di donne “arrabbiate” con l’altro sesso, quindi faziose e tendenziose…ma le cose non stanno sempre così!!!) può rappresentare un imput, un movente iniziale, che muove le ricerche, però, ciò non significa che una brava studiosa ometta, o addirittura falsifichi, gli esiti finali del proprio lavoro per renderli pertinenti ad un’idea iniziale. Oggi, ormai, è stato dimostrato come la totale oggettività di un ricercatore sia solo un’utopia (e, aggiungo io, il fatto che lo studioso abbia una sua posizione, oltre che innegabile, è anche auspicabile…mettiamo al bando i luoghi comuni che incatenano le menti!!!). Il ricercatore parte sempre da alcune sue convinzioni…poi, sta proprio alla sua onestà intellettuale e al suo talento, il compito di dimostrare la capacità, eventualmente, di cambiare idea.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – martedì, 12 maggio 2009, 15:24

Le osservazioni di Diana sono sensate e non possono che essere sostanzialmente condivisibili. Un minimo di riflessione aggiuntiva va però fatta sul rapporto/dicotomia storia delle donne e storia di genere, al di là di un approccio più squisitamente femminista che ha evidenziato soprattutto quest’ultimo settore. Tutto, in fondo, si risolve in una domanda importante: in quale misura il maschile e il femminile (intesi nella loro globalità) sono oppositivi o, all’incontrario, tendono ad interagire? Indipendentemente dal fatto che le loro relazioni trovino un terreno privilegiato nella famiglia. Direi che entrambi gli aspetti esistono e sono ben individuabili, soprattutto se si prende come terreno di osservazione il tormentato terreno dell’onore. E’ indubbio che le relazioni di genere, come suggerisce l’idioma dell’onore, sono strettamente correlate in quegli aspetti che Julian Pitt-Rivers ha definito di carattere etico e che trovano il loro campo d’azione privilegiato nella famiglia. Sono interrelazioni considerate non solo essenziali, ma anche positive (collaborazione, educazione dei figli, ospitalità, stretta monogamia da parte della donna, mentre da parte dell’uomo nella misura in cui non minaccia l’assetto famigliare, ecc.). Ma l’onore definisce anche tratti culturali che non sono affatto di carattere etico e che, all’incontrario tendono a sottolineare una specifica e autonoma definizione del rapporto natura/cultura sia per l’uomo che per la donna. La mascolinità è così oppositiva alla femminilità: non ci sono dubbi su questo. Così come l’onore femminile si caratterizza per valori (grazia, castità, pudore) che se si individuano nel maschio sono considerati fortemente negativi, laddove invece quest’ultimo deve valorizzare l’aggressività, la competizione, la mascolinità. Tratti che sono evidenziati al massimo grado nella figura del coq du village o de la paroisse: criticata senza dubbio (in quanto può minacciare l’integrità delel famiglie) ma di certo non considerata negativa.

In definitiva, è mia convinzione, la storia di genere aiuta a cogliere meglio (che non la semplice storia delle donne, che pure è del tutto legittima) questa dualità opposizione/integrazione. Anche in settori che apparentemente non sembrano così disponibili ad essere indagati secondo il profilo della storia di genere, come ad esempio la storia politica.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Marta Chiaradia – mercoledì, 13 maggio 2009, 22:02

Ho apprezzato molto la riflessione del professore sulla definizione del rapporto natura/cultura sia per l’uomo che per la donna. Ritengo che la relazione fra genere maschile e femminile si possa leggere allo stesso tempo come un rapporto di opposizione e di complementarietà. L’opposizione è sia naturale (da un punto di vista fisico e biologico, nell’uomo si possono visibilmente riscontrare profonde differenze, che lo contraddistinguono dalla donna), sia culturale (l’uomo è predisposto ad assumere atteggiamenti e comportamenti aggressivi e competitivi; la donna, al contrario, deve salvaguardare il proprio onore, che è caratterizzato da valori, quali appunto la grazia, la castità e il pudore). Nell’ambito familiare, invece, uomo e donna assumono ruoli precisi, distinti, ma complementari: al primo compete spesso il mantenimento della famiglia e alla seconda la procreazione e la cura dei figli. In questo sta proprio la loro collaborazione. Aggiungerei però che, oggi come oggi, nella società occidentale le cose sono profondamente cambiate: non è più possibile definire così automaticamente il confine fra opposizione e complementarietà sopra descritte. In diverse situazioni (e devo dire che nelle mie esperienze quotidiane lo noto sempre più frequentemente), la donna si sostituisce all’uomo e questo prende il posto della donna, sia nel settore pubblico che privato. Ciò è avvenuto in seguito all’emancipazione femminile dell’ultimo secolo.

Questo aspetto naturalmente non riguarda tutte le società, ma dipende dal sistema di valori e di credenze e dalle implicazioni storico-religiose impressi in esse. Basti pensare solo ai musulmani, ad esempio, per accorgersi come qui la donna in tutti gli ambiti, da quello pubblico a quello privato, debba assumere un ruolo sociale ben preciso e a questo debba attenersi per non incorrere in atteggiamenti di disapprovazione (o peggio) da parte della società nei suoi confronti: la condizione di “sottomissione” della donna all’uomo è segnata dal fatto che in certi casi la donna sia costretta a sposarsi senza nemmeno conoscere il futuro marito, sottoponendosi solo ed esclusivamente al volere della famiglia, o possa incorrere nel pericolo di essere addirittura condannata a morte in caso di tradimento o comportamento considerato offensivo nei confronti dell’uomo. Qui, a differenza delle culture occidentali, i confini che delimitano opposizione ed integrazione fra genere maschile e femminile sono meglio definiti. Si può dire allora che la donna in quest’ultimo caso mantiene un ruolo più vicino alle donne da noi studiate, rispetto a quelle occidentali?

Al di là di queste mie considerazioni, una cosa poi non ho capito: in che senso la storia politica non sembra essere così disponibile ad essere indagata secondo il profilo della storia di genere?

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – giovedì, 14 maggio 2009, 01:10

Rispondo all’intervento di Marta. Sì certo oggi le cose sono profondamente cambiate, nel senso che i termini di complementarietà/opposizione sono alzuanto più complessi. Entrando nel mondo della competizione materiale (lavoro soprattutto) la donna ha acquisito alcuni dei tratti culturali che generalmente sono individuabili nel maschio (aggressività, diritto di precedenza, aspirazione alla fama, ecc.). Questo ovviamente ha modificato pure i consueti tratti culturali collegati alla sessualità femminile: non più necessariamente passiva o, per meglio dire, ‘contenitrice’, ma, all’incontrario pure provvista di alcuni aspetti di quell’atteggiamento ‘predatorio’ che sino a non molto tempo fa era di quasi assoluto monopolio maschile. Tutto questo ha scardinato i consueti parametri culturali che sono sempre stati intimamente collegati all’idioma dell’onore. A mio avviso sono tre gli elementi più visibili di questa trasformazione epocale: indebolitosi l’elemento della complementarietà implicito nella relazione culturale tra la dimensione maschile e quella femminile, lo spazio istituzionale della famiglia (e del matrimonio) è circoscritto da confini più incerti e indefiniti; ed inoltre è conseguentemente accresciuta la conflittualità interna. Il secondo aspetto ha coinvolto la stessa specificità del genere femminile: provvisto di tratti culturali nuovi, ma comunque sempre ancorato ad alcune caratteristiche più tradizionali (grazia, ruolo nella trasmissione del sangue, educazione dei figli, ecc.). Questo ha reso assai più complicato il mondo culturale femminile. Terzo: i tratti più tipici della cultura maschile (collegati soprattutto all’onore) sono sostanzialmente rimasti intatti e sono soprattutto individuabili nella percezione, ancora largamente diffusa, che l’uomo rivesta comunque la figura di ‘custode’ dell’onore femminile (anche se nessun uomo osa oggi rivendicare il diritto di primogenitura sulla verginità femminile) ed ogni attacco rivolto a quest’ultimo sia sostanzialmente una messa in discussione dello stesso onore maschile. Le tensioni di genere sono ovviamente accresciute e ritengo che si avrà una successiva trasformazione quando l’uomo rinuncerà definitivamente al suo ruolo di ‘custode’. Nel mondo islamico, da una percezione occidentale quantomeno, sembra di poter individuare tratti che, con qualche esitazione, possiamo definire tradizionali e che si potrebbero spiegare facilmente con un forte potere patriarcale che nelle traformazioni culturali di genere vede una minaccia nelle stesse basi economiche che sorreggono la società. Ma il diritto islamico è alquanto complesso e la realtà forse non corrisponde del tutto alla nsotra percezione.

Per la relazione tra storia di genere e storia politica sono convinto che esista e sia fortissima, ma non sempre è così facilmente individuabile sul piano storico nell’analisi di temi che sono solitamente appannaggio della storiografia più tradizionale.

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Diana Bonsignore – venerdì, 15 maggio 2009, 20:12

  Ricollegandomi all’intervento di Marta e del Prof. Povolo, mi pongo una domanda. Marta scrive che, nelle società islamiche, le donne sono “sottomesse” all’uomo in quanto, ad esempio, certi loro comportamenti disapprovati vengono puniti duramente, a volte persino con la vita, dalla comunità (ovviamente mi trovo d’accordo con questo dato storico innegabile). Inoltre, Marta aggiunge che tale caratteristica, in un certo senso, avvicina il mondo islamico a quello delle società tradizionali. Nella risposta che il Professore dà a questo intervento, c’è una particolare frase che molto mi ha fatto riflettere, ossia “…da una percezione occidentale quantomeno…” (e, antropologicamente parlando, anche in questo caso, nel nome del relativismo culturale, mi trovo d’accordo).

Così, nella mia mente, si è insinuato un dubbio (probabilmente più ontologico che pertinente alla storia di genere, ma lo voglio affrontare comunque in questo forum perchè mi piace pensare che qui non vi siano confini precisi!!!): mi domando fino a che punto la disciplina antropologica impone a noi studiosi di non formulare giudizi?!? Ovvero: testi, insegnanti e tutto il resto, nella nostra carriera universitaria, ci hanno insegnato che, nell’ambito delle culture, non si può ragionare nei termini di “giusto/sbagliato” e “inferiore/superiore”, però, quando si toccano certi argomenti, come ad esempio l’uccisione di donne adultere, si può davvero tralasciare un giudizio morale?!?

Io credo che la salvaguardia di determinati valori, quali la vita, sia un compito sempre e comunque difendibile anche a costo di correre il rischio di macchiarsi di etnocentrismo. Non credo che un antropologo sia necessariamente un cattivo antropologo solo perchè afferma che certi atti sono inaccettabili (invece di sostenere che sono “pertinenti ad una certa cultura”) in nome di alcuni valori umani di valore universale (nei Diritti Umani esistono dei valori ritenuti tali, perchè in antropologia, in nome del relativismo, dobbiamo negare questa presenza?!?). Piuttosto che rifarci sempre e comunque a teorie (indubbiamente valide e nobili, ma dalla portata limitata), non avrebbe anche un suo senso che uno specialista delle discipline antropologiche elaborasse una critica a queste…non sarebbe comunque apprezzabile che un antropologo avesse il coraggio di dissentire da certi punti cardine della disciplina senza correre il rischio di essere mal giudicato?!?

Io credo che la cultura islamica abbia grandi meriti (e lo dico avendo degli amici a Gerusalemme, quindi conoscendo dal vivo questa cultura), in certi ambiti, hanno più meriti di noi (su un piano diacronico e sincronico), però, credo anche che il loro trattamento delle donne (specie negli ambienti più conservatori) sia inaccettabile e disumano, emblematico di scarso riconoscimento della dignità di questo soggetto (in sostanza, sto formulando un giudizio di valore e, da antropologa, probabilmente non dovrei!!!)…quindi, a conti fatti, sono io a non essere una brava antropologa, oppure, a volte, l’antropologia si nasconde dietro un dito, rifiuta di calarsi nelle contingenze pratiche (per certe donne direi alquanto tragiche) al fine di difendere certi dogmi?!? Non è più “antropologicamente dignitoso” esprimere il proprio sdegno per certi atti, piuttosto che non condannarli in virtù del relativismo (se non vogliamo giungere a casi estremi come l’omicidio, possamo citare l’esempio dell’enfibulazione e dei danni, fisici e morali, che provoca nelle donne…ovviamente, parlando di questa pratica, non mi sto riferendo alla cultura islamica speciaficatamente)?!?

Perchè nel momento in cui negli USA esiste la pena di morte possiamo dire (almeno io lo penso e lo dico) che questo sia disumano e, invece, quando si pratica su una bambina la mutilazione dei genitali in certe società, molti sostengono che sia pertinente a quella cultura?!? Forse, noi occidentali siamo spinti in certe posizioni da una sorta di “rimorso” (lo stesso, ad esempio, che induce tanta gente a non vedere il trattamento orribile a cui gli ebrei sottopongono i palestinesi in Terra Santa, vedi ad esempio il muro che “li contiene come fossero animali”!!!), da un sentimento che ci porta a “giustificare” ogni comportamento messo in atto dalle culture diverse. E io penso che, allo stesso modo in cui si afferma che la pena di morte in America sia inaccettabile, si dovrebbe dire che anche l’enfibulzione lo è!!!

Ovviamente, questi miei pensieri, oltre ad allontanarsi un pò dal tema del forum, sono “personali” (e ho premesso che, magari, sono io una cattiva antropologa).

Re: Storia delle donne o storia di genere? di Claudio Povolo – domenica, 17 maggio 2009, 23:16

Diana, solleva il grande problema del relativismo culturale, che da anni ormai appassiona, ma pure divide, esponenti della cultura e uomini politici. Che dire? Il problema ovviamente si pone in maniera drammatica nel momento in cui una cultura ‘altra’ si muove all’interno di un paese contrapponendosi alla cultura e alle leggi di quest’ultimo. Una posizione di accettazione di determinati comportamenti (Diana ricorda la pratica dell’infibulazione), invocata in nome del rispetto della diversità culturale (da cui la posizione di relativismo), è difficilmente sostenibile di fronte a principi di legalità e di uguaglianza giuridica, anche se buone motivazioni possono essere addotte per sostenere il contrario. Diversa è ovviamente la percezione che l’antropologo (o lo storico) rivolge a culture diverse accogliendone in toto o in parte le caratteristiche. Qui il problema, in linea teorica, non mi sembra che si ponga. E’ come se lo storico e l’antropologo guardando alle società del passato in cui era diffusa la faida, avanzasse una sorta di giudizio moralistico sulle modalità del conflitto, che spesso ricorrevano all’omicidio. E, guardando, più da vicino, alle nostre vicende fossimo inclini a valutare negativamente le asserzioni di Euriemma (o dei suoi avvocati) in merito alle sorellastre, nel momento in cui, nel contempo, rivendica la propria legittimità… O, per parlare, in termini più estesi, impostassimo l’analisi storica all’insegna di un costante giudizio negativo nei confronti delle prevaricazioni maschili (come quelle imposte da Pietro Saraceno a Trivulzia Brazzoduro).


Gossip di Claudio Povolo – giovedì, 7 maggio 2009, 23:43

Da domani si cominceranno ad esaminare le vicende riportate nel sito, anche se alcune questioni di fondo verranno via via intercalate. Ogni vicenda, a sua volta, è caratterizzata da alcuni problemi che meglio si evidenziano nel corso della lettura e dell’analisi. Abbiamo già esaminati quelli relativi al conflitto di casa Corradazzo (Forni).

Ogni biografia, pure, presenta inequivocabilmente, un tema dominante, o, per meglio dire, una questione risolutiva. Nel caso Corradazzo, a mio avviso, questa era costituita dal significato più proprio e profondo che animava gli anziani di Forni di Sopra in materia successoria.

Nell’avvincente vicenda di Polissena, sembrano dominare le due figure di Vicenzo Scroffa e di fra Paolo Sarpi. Ma c’è, a mio avviso, un altro protagonista invisibile, che appare sullo sfondo, sino ad assumere un peso decisivo nella risoluzione della vicenda: il gossip. Non è la stessa cosa della pubblica opinione, difficilmente individuabile all’epoca, anche perché sembra aggirarsi impalpabile tra le calli veneziane. Non il consueto gossip indirizzato nei confronti di individui: un fenomeno strisciante che, spesso a loro insaputa, determina una ‘verità’ alla luce di criteri non facilmente sondabili. No, qui il gossip parte dal basso e si dirige verso l’alto, coinvolgendo le massime magistrature veneziane. Un gossip che si alimenta di fatti concreti, ma anche di una vivida immaginazione. Ma è pur sempre un fenomeno nei confronti del quale una suprema magistratura veneziana come il Consiglio dei dieci, è assai sensibile, sino a indurlo ad una scelta irrevocabile. Quanto avviene nella vicenda di Polissena si ripropone sul piano storico pià generale. In una città come Venezia (urbanisticamente intesa), in un sistema politico incentrato sulla forma repubblicana del suo potere, il gossip doveva avere un peso preponderante, tanto da influire, in talune questioni, sulle scelte politiche che si dovevano intraprendere, ma anche su quell’aura di segretezza che ne pervadeva la vita istituzionale, nel tentativo (forse inutile) di arginarlo.

Re: Gossip di Valeria Favretto – lunedì, 11 maggio 2009, 18:08

  Il Professor Povolo ha detto a lezione venerdì 8 maggio che il Consiglio X fece del matrimonio di Polissena una questione di principio: rifiutando la disponibilità della ragazza ad accontentarsi della legittima pur di sposare qualcun altro, per veder affermata la propria autorità di fronte all’opinione pubblica che iniziava a mormorare.

A me è venuto in mente il discorso sull’onore che del resto emerge in quasi tutte le questioni relative alla cessione della donna.

Ho provato a paragonare il CX al maschio che deve proteggere e conservare l’onore della donna (cioè di Polissena che gli è stata affidata dal nonnno). Tuttavia si sente minacciato nel suo onore-fama dal comportamneo della ragazza stessa, non passivo e quasi maschile.

Ne risulta che il CX non sa controllare la donna e il maschio che non sa difendere l’onore delle sue donne né controllarle, autorizza chiunque ad attaccarlo.Ed infatti inizia il gossip; é come se il CX perdesse la sua fama e la sua virilità di fronte alla società che inizia a mormorare.

E’ possibile questo paragone o è una forzatura?

Mi sono chiesta anche se in questo caso il gossip può essere paragonato allo charivari.

Re: Gossip di Claudio Povolo – lunedì, 11 maggio 2009, 22:57

In un certo senso direi che Valeria ha avuto un’intuizione notevole. Le azioni degli uomini (e delle istituzioni) sono sempre provviste di forti valori simbolici, che vanno al di là, ed oltre, di ciò che viene esplicitamente affermato o di ciò che si costituisce come semplice azione. Valeria usa un termine altrettanto interessante: la cessione delle donne. Il cedere una donna, da parte di ogni lignaggio, era considerato come una perdita sostanziale, che si poteva pure convertire in alleanza, ma che comunque rappresentava una questione politica di estrema delicatezza (Julian Pitt-Rivers parla per l’appunto di the politics of sex). In quale misura è avvertibile la dimensione dell’onore nella vicenda di Polissena? Le previsioni della cessione sono state preventivate, nei limiti del possibile, da Vicenzo Scroffa. Ed affidate al Consiglio dei dieci. Il trasferimento di onore-maschile/onore della Casa ha subito un analogo trasferimento (nel Consiglio dei dieci). E i consulti di Paolo Sarpi delineano ogni possibile pericolo nei confronti di un’eventuale sottrazione/rapimento (anche se fraudolenta e non violenta). Polissena si muove con scaltrezza. Attivamente, osserva Valeria. Anche se sappiamo che dietro a lei stanno forze che operano (a suo favore? contro di lei? Non si sa) attivamente per forzare le previsioni. Ad un certo punto si crea uno scenario inaspettato: il gossip che attraversa la città di Venezia ed avvolge i protagonisti. Un protagonista a sua volta, che sembra far da spettatore in uno straordinario scenario teatrale. Il comportamento di Polissena va fatto rientrare nei ranghi che le competono, pena la perdita della dignità (e dell’onore) del Consiglio dei dieci. I ruoli simbolici sono così fatti rispettare. Comme unaqualsiasi vicenda amorosa di fronte ad una comunità. Di fronte all’opinione pubblica (se così la possiamo definire) Polissena ha perduto ogni sfrontatezza (inadeguata al suo ruolo femminile). Ma la perdita è comunque compensata dal fatto che il supremo organo politico veneziano, in fin dei conti, come compete ad ogni ruolo maschile (padre/marito/padrone), agisce per il suo bene. E una volta rientrata nei ranghi Polissena, rispettando le volontà del nonno, può dedicarsi alla nuova famiglia che le è stata destinata.

Lo charivari? Si chiede Valeria. Era un controllo informale ma giuridico. Come il gossip, del resto (il che lo distingue dal semplice pettegolezzo, a mio avviso). E non avrei esitazione ad accogliere l’accostamento…pure estremamente intuitivo.


Relazioni per l’esame di Claudio Povolo – domenica, 10 maggio 2009, 18:38

 Relazioni_d_esame_possibili_scelte.doc

Invio in allegato i primi possibili temi che possono essere scelti come relazione per l’esame. Altri ne seguiranno. Per la relativa bibliografia specifica potete scrivermi (claudio.povolo@tele2.it), oppure ne parliamo nel corso delle lezioni. In ogni caso si tratta di temi che, ciascuno di voi, dovrebbe affrontare nelle discussioni del forum, in modo che possiamo estendere le reciproche conoscenze a tutti i partecipanti.


Considerazioni sul ruolo della donna di Giorgio Trivella – lunedì, 4 maggio 2009, 16:47

Alcune digressioni ed ipotesi a ruota libera sul tema del ruolo /ruoli della figura femminile nella storia.

Sembrerebbe verosimile che la donna, ed in particolare ciò che essa ha rappresentato nella società, abbia viaggiato su due binari valutativi? Un primo binario, definiamolo sociale/privato, che le ha imposto ruoli “classici”, di subalternità in quanto figlia, moglie e madre; un secondo binario, sociale/politico, che, in talune società più che in altre, ha permesso ad alcune figure femminili di ricoprire ruoli ufficiali ereditari di grande potere; già dall’antichità la mitica Didone, la stessa Cleopatra e la celebre regina Zenobia hanno costituiscono un forte richiamo. E in epoche più recenti (senza dubbio più significative per le nostre considerazioni) si pensi all’adozione o meno della Legge Salica in alcuni paradigmi istituzionali europei, all’Inghilterra di Elisabetta I, alla figura di Cristina di Svezia, alla Russia delle grandi zarine e all’asburgica Maria Teresa (anche se eredi grazie a Prammatiche Sanzioni), passando per il XIX secolo con l’epoca di Vittoria, per giungere ai giorni nostri con le monarchie al femminile in nord Europa. Pochi casi, certamente, ma significativi, che mostrano come talvolta sia stato possibile un disconoscimento generale delle attitudini di genere?

Viene da pensare cosa accomuni tali accadimenti e perché ciò sia accaduto solo in determinate società: probabilmente non esistono fattori tali da determinare un modello unico di trasformazione sociale: troppe sono comunque le similitudini e troppe le dissomiglianze tra società che, apparentemente, hanno avuto tutto, o quasi, in comune.

E se l’analisi di questi modelli si estendesse, prendendo in considerazione società a forte impianto matriarcale (seppur in differenti ambienti etno-antropologici) e società in cui la trasmissione di valori e appartenenze sono matrilineari (caso emblematico l’ebraica), si potrebbe desumere come in determinati contesti si sia prodotto quasi uno scollamento tra rappresentazione privata e pubblica della donna? Sembra quasi che vi sia stata una spersonalizzazione della donna tanto da cancellarne in alcuni casi la diversità di genere, permettendo in tal modo però alla storia di genere fugaci incursioni e “esondazioni” nella storia più generale, la storia umana.

Re: Considerazioni sul ruolo della donna di Valentina Dal Cin – mercoledì, 6 maggio 2009, 17:11

  Credo che sia interessante la riflessione sul ruolo storico-politico particolare svolto da alcune grandi figure femminili quali quelle sopra citate. Tuttavia credo che la peculiare vicenda di ognuna di loro vada inscritta nel relativo contesto cronologico e geografico e che sia difficile generalizzare, soprattutto trattandosi di personaggi che si trovano ai massimi vertici della società (sono tutte figure di regine). Figure come quelle di Caterina di Russia o Maria Teresa d’Asburgo rimangono a mio avviso comunque delle eccezioni, anche se è vero che si inseriscono un un panorama come quello Settecentesco di mutamenti nella sfera privata, che coinvolgono anche il ruolo femminile. Mutamenti maggiormente visibili in seno alle classi alte (si pensi ai salotti tenuti da nobildonne come Mme du Deffand e al loro ruolo nell’epoca dei Lumi, ma anche alle rappresentazioni di un ruolo femminile più “indipendente”, offerte ad esempio dalle protagoniste di romanzi come Thérèse philosophe o Les liaisons dangereuses).

Sono però mutamenti che faticano ad essere recipiti su di un piano di uguaglianza civile e nemmeno durante la rivoluzione francese si prenderà in considerazione l’idea di un voto alle donne, anche se molte altre riforme (come l’introduzione del divorzio) le coinvolgeranno direttamente.

Re: Considerazioni sul ruolo della donna di Claudio Povolo – giovedì, 7 maggio 2009, 23:06

 Joan_Scott.doc

Ho ritenuto importante rispondere all’intervento di Giorgio e di Valentina riassumendo in allegato un ormai storico intervento di Joan Scott: Gender: a useful category of historical analysis. La storica americana affronta alcune delle tematiche che nel corso, in queste prime batture, abbiamo delineato. Può essere utile raffrontarsi con queste osservazioni e comunque tenerne conto nel dibattito e nella riflessione.


Parentela e individuo di Claudio Povolo – martedì, 28 aprile 2009, 01:02

Gli antropologi hanno osservato come il diritto tradizionale separi i beni e le persone assai meno di quanto non avvenga nel diritto moderno, E’ infatti caratteristica delle società tradizionali (o comunque di società in cui ancora non si è costituita la forma di stato che noi conosciamo) la parentalizzazione dei beni. Nel diritto tradizionale il trasferimento dei beni mira essenzialmente alla coesione dei gruppi: sono le generazioni a succedere, più che gli individui. Da qui la diffusione di istituti come il fedecommesso, che prevedono la cosiddetta sostituzione dei beni: chi eredita, difatti, riceve il diritto di utilizzare i beni, ma anche l’obbligo di trasferirli alla successive generazioni (senza alienarli). Molte delle vicende da noi analizzate riflettono questa visione della società che il diritto successorio rappresenta assai bene. Va semmai riflettuto sul rapporto tra diritto successorio e ceti sociali che lo applicano. La vicenda di Caterina Corradazzo ci presenta, quantomeno a livello formale, una sorta di dicotomia tra le Costituzioni della Patria del Friuli (caratterizzate intensamente dal lignaggio nobiliare) e le consuetudini di Forni. Ma anche la fraterna maschile sembra essere un fattore coesivo di notevole rilievo. Va forse riflettuto sul fatto che nella società di antico regime il fattore aggregativo maschile è notevole, ma anche sottoposto costantemente alla disgregazione in presenza di fattori centrifughi. E’ forse per questo motivo che il testamento assume tanto più valore e forza, quanto più riesce a valorizzare il richiamo della parentela (come nel caso di Vincenzo Scroffa).

Re: Parentela e individuo di Andrea Busato – martedì, 5 maggio 2009, 16:23

Vorrei soffermarmi sul fatto che il diritto tradizionale promuove la parentalizzazione dei beni e considera i gruppi più che gli individui. Trovo a riguardo interessante il pensiero di Raoul Van Caenegem che sostiene come la sopravvivenza dell’uomo dipende dalla sua appartenenza a un gruppo sociale che lo protegga. Di sicuro un individuo ha dei doveri nei confronti del gruppo di cui fa parte, ma quest’ultimo in caso di necessità assiste la singola persona. Il diritto tradizionale è lo specchio di un mondo che vuole tutelare i gruppi come i lignaggi, gli ordini e le corporazioni. Il diritto successorio tradizionale predispone in funzione di ciò l’istituto del fedecommesso, ma non solo. Van Caenegem cita anche il diritto di ritratto: in Antico regime se una proprietà terriera si vendeva a delle persone poste al di fuori della cerchia famigliare, i suoi componenti potevano esercitare il diritto di ritratto riacquistando il bene ceduto. La forza del gruppo famigliare si può facilmente comprendere analizzando la vicenda di Euriemma Saraceno: una donna contro l’intero clan Saraceno, il quale si batte a favore dell’inviolabilità del proprio patrimonio, vincolato da alcuni fedecommessi.

Re: Parentela e individuo di Claudio Povolo – martedì, 5 maggio 2009, 20:58

Andrea e Valeria sottolineano bene una tensione che si nota in molte delle nostre vicende: tensione, ma che diviene molto spesso conflitto, nell’ambito di membri dello stesso gruppo parentale, oppure tra consanguinei ed affini, tra chi è incardinato nel passato, con i suoi valori e la sua cultura, e chi si muove alla luce di aspettative del presente che si sono venute a creare in taluni individui. La donna, molto spesso, sembra collocarsi tra questi ultimi, anche se non mancano esempi (Ludovica Saraceno Ghellini, Anna Ferramosca) di donne che guardano al passato. E’ evidente che la dimensione temporale si gioca sugli equilibri di potere del presente e il passato viene ricordato, metabolizzato e riproposto, in funzione del presente. Ma la riproposizione del passato è sempre comunque interessante ed è il motivo conduttore della vicenda di Euriemma. In queste vicende il passato è veicolato dalle testimonianze e da documenti scritti: in entrambi i casi la loro riproposizione, se osservate bene, è una sorta di operazione ‘storiografica’.

Re: Parentela e individuo di Valeria Favretto – martedì, 5 maggio 2009, 17:22

  In effetti la vicenda di Caterina e degli zii mostra molto bene il rapporto fra una generazione e la successiva, tramite il sistema di successione; la “lotta” fra il principio di agnazione e quello di discendenza, ma anche come, con lo scambio della donna, si giochi la strategia di conquista o di cooperazione.

Re: Parentela e individuo di Valeria Favretto – martedì, 5 maggio 2009, 17:31

  Volevo brevemente rialacciarmi alla discussione su “Storia delle donne-Storia di genere”. A tal proposito, mi sermbra che sia proprio questo il ruolo dell’antropologia giuridica, cioè di cogliere il diritto “astratto” nel sistema di relazioni umane, che sono complicate e sono fatte di maschi e femmine (l’uno contro l’altro, alleati, l’una sottomessa agli altri,etc.), oltre che di potere e denaro, etc.

Inoltre mi sembra che i casi di Caterina, Polissena ed Euriemma mostrino una realtà (non solo esclusivamnete femminile, ma in generale quella in cui uomini e donne vivono) molto articolata e fluida, che a fatica rientra appieno nella griglia della norma generale e astratta.

Allora quando queste situazioni così complesse vengono portate di fronte alla legge, a me sembra quasi naturale che la soluzione sia un compromesso, perché certe volte, come nel caso di Caterina, data la dicotomia fra le Costituzioni della Patria del Friuli e le consuetudini di Forni, si trattava proprio di “far quadrare il cerchio”.

Re: Parentela e individuo di Claudio Povolo – martedì, 5 maggio 2009, 23:57

Valeria introduce, con interessanti osservazioni, un altro problema, che probabilmente riprenderemo. Le vicende da noi affrontate emergono da conflitti, spesso assai aspri, che si conducono in ambiti giudiziari, ma che lasciano intravedere la loro asprezza e la loro intensità anche nei sottostanti rapporti interpersonali (emblematica la vicenda di Euriemma). Conflitti che si giocano percorrendo tortuose vie giudiziarie e procedurali, che non sono sempre del tutto chiare (perché, ad esempio, la scelta di un tribunale piuttosto che di un altro?) e nella scelta dei quali giocano un ruolo decisivo gli avvocati (di Terraferma e veneziani). Questi conflitti in realtà denotano vere e proprie pratiche sociali che molto dicono della società del tempo. Ma nell’ambito di questi conflitti ci sono anche i discorsi, prevalentemente forgiati dal linguaggio giuridico, un linguaggio altrettanto complesso e specialistico, di cui erano detentori i giuristi. Questi discorsi sono provvisti di una valenza storiografica, in quanto sarebbe ingenuo ritenere che siano provvisti del timbro dell’unicità. Non è sufficiente dire fedecommesso o primogenitura o quanto altro: pur nell’ambito di una communis opinio (opinione prevalente), le varianti sono tante e tali che la scelta intrapresa dagli avvocati (citando e ricorrendo al linguaggio giuridico) è sempre intrisa di una certa strumentalità. In realtà pratiche e discorsi rinviano a rappresentazioni sociali che, come abbiamo visto, si collocano in uno sfondo culturale in cui la questione di genere è importante, se non predominante. I gruppi in conflitto sapevano tutto questo, anche se, molto spesso, non erano del tutto consapevoli, delle rappresentazioni che li animavano. Il loro obbiettivo era vincere una causa o, per ricorrere ad un’espressione di Lawrence Friedman, che molti di voi ricorderanno, era quello di tirare completamente dalla loro parte la corda tesa del conflitto. Inevitabilmente, come osserva Valeria, la soluzione era un compromesso. Lo sarà anche nella causa tra Euriemma e la zia Ludovica e quella tra la stessa Euriemma e il lignaggio Saraceno: dopo circa trent’anni si giungerà ad un compromesso. Quali erano i fattori che incidevano sul punto di arresto della corda? Molti direi e accertarlo è forse l’aspetto più interessante di tutta la questione. La tipologia dei tribunali non era ovviamente indifferente, sapendo che si giocava su più piani: tribunali cittadini della Terraferma, ma anche le complicate magistrature veneziane. E qui, forse, più che la diversità del diritto spesso sottolineato, contavano le relazioni di amicizia e, ovviamente, la stessa dialettica interna alle magistrature della Dominante. Contavano i mezzi economici che si avevano alle spalle, che permettevano la scelta dei migliori avvocati, di poter adire i tribunali centrali, di ‘reclutare’ testimoni quando e come si voleva o si poteva, e così via. E, in definitiva, la capacità di trascinare la causa in lungo. Ed ovviamente la consapevolezza degli stessi gruppi in conflitto di ciò che, infine, si poteva perdere o guadagnare, da una pssibile soluzione giudiziaria. Infine, comunque, quasi sempre, la soluzione era costituita da un compromesso: un punto X determinato da una serie di variabili, talvolta anche contingenti (una crisi sopraggiunta improvvisamente, la scomparsa di una persona, ecc.). Ma, in definitiva, più che l’esito, appare interessante soffermarsi sulle tre caratteristiche del conflitto, in particolare sulle rappresentazioni: simboli, significati, cultura. Più che non sulle cause: più percettibili e individuabili. E così pure sul discorso storiografico che il conflitto veicola, perché rivela le scelte intraprese dai gruppi in conflitto, ma sempre nella consapevolezza della loro strumentalità. Nel caso di Forni Savorgnan i discorsi si appuntano sul contrasto tra Costituzioni della Patria e consuetudini; le pratiche rivelano un conflitto assai sensibile alle soluzioni compromissorie, tipiche dei sistemi giuridici aperti; le rappresentazioni, sullo sfondo, sono costituite da un sistema di parentela che riunisce gruppi di uomini (fraterne) che si sono costituiti per gestire un’economia difficile e mutevole, ritenendo una necessità imprescindibile l’esclusione femminile. L’opposizione con le Costituzioni della Patria del Friuli sembra solo apparente e semmai è contrassegnata dalla definizione di status che anima quest’ultime. Ma anche in questo più dotto linguaggio giuridico sembra di intravedere una spinta egualitaristica che si rinviene pure nel genere femminile (come ricorda uno dei capitoli dei fratelli Corradazzo). Potere, status e parentele sembrano dunque raffrontarsi con l’ineliminabile questione di genere, anche se con possibilità diverse di manipolazione.


Genere e ruolo femminile di Claudio Povolo – martedì, 5 maggio 2009, 00:00

Risponderò  tra breve all’intervento di Giorgio. Nel frattempo, riallacciandomi ad alcune questioni già sollevate vorrei focalizzare meglio un problema. La questione di genere è decisamente importante e tale da abbracciare, anche dopo l’antico regime, una pluralità di aspetti politici ed economici che in apparenza non sembrano avere alcuna attinenza con il genere. Ed abbiamo pure aggiunto che la figura della donna si può ‘spezzare’ nei diversi ruoli che assolve nell’ambito della famiglia e della società. Le vicende da noi esaminate pongono in stretta relazione alcune figure femminili con l’ambito familiare. Tendenzialmente i legami della nuova sposa con i parenti acquisiti tramite il matrimonio sono fragili (e l’istituto della dote rivela tale fragilità). Ma se ella ha dei figli (e quindi eredi) i legami si rafforzano perché acqusisce il nuovo status di madre. Altro aspetto: i beni o proprietà che ella ha portato con sè confluiranno un giorno verso i figli e, di conseguenza, i rapporti con i suoi potenziali eredi collaterali perdono d’importanza. Altra conseguenza ancora: nonostante la famiglia da cui ella proviene tenda a mantenere rapporti ed influenza con la donna uscita di casa per sposarsi, la nascita di figli allenta progressivamente tali rapporti ed indebolisce i diritti nei confronti dei beni o proprietà che sono usciti al momento del matrimonio. All’incontrario si definisce meglio il suo status nella nuova famiglia. Al punto da mettere pure in ombra il ruolo della suocera. Si potrebbe pure aggiungere che più figli ella assicura alla nuova famiglia, più aumenta il suo status e meglio si definisce la sua integrazione. Divenendo poi la donna più anziana della famiglia può assumere (in caso di vedovanza) la direzione della famiglia. Da tutto ciò si desume che la dimensione della famiglia è estremamente mutevole, così come la definizione di genere femminile s’incunea in una serie di rapporti di potere in continua ridefinizione.


Avviso (27 aprile 2009) di Claudio Povolo – martedì, 28 aprile 2009, 00:36

La lezione di venerdì primo maggio sarà recuperata in data che fisseremo assieme il giorno 8 maggio. Nel frattempo la discussione potrà avviarsi su alcuni temi di fondo.


Avvio del corso di Claudio Povolo – venerdì, 17 aprile 2009, 00:46

Venerdì 24 aprile le lezioni riprenderanno come di consueto. Avviso che testi e documentazione inseriti nel sito possono già permettere l’avvio della discussione. Le due vicende principali (Polissena Scroffa ed Euriemma Saraceno) sono quasi completate. Entro la fine del mese la maggior parte del lavoro dovrebbe essere terminata. E’ stata inserita una bibliografia di massima, mentre il glossario deve ancora essere arricchito di alcune voci importanti. Invito nel frattempo alla lettura, soprattutto dei punti introduttivi. I diversi temi sono per lo più costituiti, con la rilevante eccezione di quello dedicato ad Euriemma Saraceno, di saggi già pubblicati, ma pure provvisti di documentazione che si presta ad essere analizzata. La prima lezione sarà dedicata ad esaminare il corso e le modalità del suo utilizzo. Le lezioni di questa parte del corso si terranno in aula 2D S.Basilio ( aula attrezzata con computer e videoproiettore ).

Re: Avvio del corso di Marta Chiaradia – lunedì, 20 aprile 2009, 08:57

  Grazie per le sue preziose informazioni. Ho iniziato con la lettura di alcuni dei testi inseriti, che trovo molto interessanti. Ci vediamo tutti venerdì 24 a lezione!