8. Una deviazione al maschile: La primogenitura di Mario Capra

Il saggio seguente, pubblicato come strenna natalizia nel dicembre del 1990 si addentra nelle scelte testamentarie di un esponente di una grande famiglia aristocratica. Lo spazio fisico, che si delinea come pregnante luogo simbolico, sembra racchiudere il destino di una Casa e di un lignaggio. In questa vicenda, nelle decisioni di Mario Capra sembra incombere un potere politico superiore che può minacciare la compattezza della famiglia cui appartiene. I suoi tre testamenti riflettono al massimo grado l’autorità e la responsabilità del lignaggio di fronte alle traversi della vita. Nonostante il forte afflato agnatizio, i tre testamenti contengono però anche alcune interessanti indicazioni sulla successione femminile.

Claudio Povolo

La primogenitura di Mario Capra

(Vicenza, 1619-1626)

È presumibilmente intuibile, che quel giorno di maggio del 1619, mentre attendeva l’arrivo del notaio Lucio Creazzo, il conte Mario Capra si aggirasse inquieto ed angosciato tra le grandi stanze della Rotonda [1] . La solenne e splendida architettura del palazzo, che in una sorta di fusione intima con il paesaggio circostante, sembrava suggerire l’armonia dei sensi e dell’animo [2] , gli appariva ora sovrastare, quasi minacciosa, con tutto il peso della memoria e del ricordo. E dalla memoria non gli poteva non riaffiorare, pur nella stretta dell’angoscia, l’immagine del fratello Odorico. Odorico, morto sette anni prima, ma che ora gli appariva più vivo che mai.

Quel palazzo l’avevano voluto acquistare insieme. Di tempo ne era ormai passato molto. Era stato nel 1591, proprio in un mese di maggio come quello che ora lo vedeva ansioso e prostrato d’animo. Era stato un buon affare, quello che essi avevano concluso con il figlio del canonico Paolo Almerigo [3] . L’acquisto aveva suscitato rumore in città, per via del fatto che la magnifica costruzione palladiana era stata ceduta ad un prezzo quasi irrisorio dall’indebitato erede del canonico [4] .

Con l’acquisizione della Rotonda egli e il fratello Odorico avevano arricchito splendidamente l’Onore e il prestigio della Casa. Di lì ad alcuni anni Odorico sarebbe riuscito inoltre a disporre di un altare per la famiglia, in San Lorenzo, una delle chiese più antiche della città, in cui pure la famiglia Capra da molti anni aveva un proprio sepolcro [5] . Il passato e il presente si erano fusi a testimoniare, attraverso simboli così prestigiosi, la potenza della Casa [6] .

Essi erano dei Capra. Poche famiglie della nobiltà vicentina potevano vantare un’antichità illustre come la loro. I membri della Casa, che vivevano in quel torno d’anni, discendevano praticamente tutti da un comune avo, Enrico di Vincenzo, che nel 1428 aveva sottoposto tutti i suoi beni al vincolo dell’inalienabilità [7] . Da quel lontano ascendente erano discesi, nel corso degli anni, diversi rami, i cui membri egli, Mario Capra, li conosceva tutti. In tutti loro identificava la sua Casa. I vincoli di sangue erano rimasti ancora saldi tra tutti loro. Ognuno di essi ricordava in ogni momento di essere un Capra e sapeva che la forza e il prestigio della famiglia erano annodati intorno al vincolo di Parentela e all’antichità della Casa. La famiglia disponeva di beni un po’ ovunque nel Vicentino: a Camisano, a San Pietro in Gù, a Carrè, Marano e altri luoghi. Inoltre nel 1532, suo padre Gabriele, insieme con quasi tutti gli altri membri della Casa Capra, allora viventi, aveva ottenuto il titolo di Conte, legato ai possedimenti di Carrè [8] . Poche famiglie potevano vantare ormai, a Vicenza, una ricchezza come la loro [9] . Ma bastava poco perché quell’immenso patrimonio rischiasse di sfaldarsi e di riversarsi in mille rivoli in altre Case.

Erano in agguato l’estinzione della linea maschile, le richieste e le ingenti doti, che le figlie avanzavano ormai ad alta voce. Ed infine le forti spese, che continuamente si richiedevano per mantenere alto ed intatto il prestigio della Casa [10] . Fortunatamente erano ancora vigorosi quei vincoli di Parentela, che trovavano una forte saldatura nella comune identificazione nella Casa.

La forza e il prestigio della Casa sembravano però smarrirsi in quel contesto politico locale, che sempre più affannosamente riusciva a conservare l’identità del passato. Sì, certamente, egli era sempre Mario Capra e manteneva insieme ad altri membri dell’aristocrazia, una posizione eminente all’interno della città. Era ancora possibile rallentare le forti spinte che provenivano dal basso. Si poteva ancora costringere quelle famiglie, che sembravano ormai emergere un po’ da ogni parte, ad un’estenuante attesa, prima di poter permettere loro di concretizzare politicamente l’ascesa sociale. Ed in ogni caso le leve del potere locale erano saldamente nelle sue mani e in quelle di pochi altri membri dell’antica aristocrazia.

La classe politica vicentina era però fortemente divisa. Le rivalità e i dissidi non erano più facilmente contenibili come nel passato. La faida era degenerata in folli vendette. Gli scontri lunghi e sanguinosi tra le diverse Case indicavano come non fosse più ormai possibile ricomporre con gli strumenti di un tempo le ferite che si erano aperte all’interno dell’aristocrazia [11] .

Mancava il controllo del potere politico e con esso la possibilità di dispiegare pienamente quei meccanismi informali che regolavano la struttura di potere nobiliare. E la colpa era di quei veneziani, che da tre secoli si erano installati sul loro territorio. Egli, Mario Capra, ne era sicuro. Non era più possibile ormai gestire la consueta conflittualità interna all’aristocrazia. Prive di quel potere politico, che legittimava l’esercizio dell’autorità, le nuove generazioni si erano arroccate in una vana proclamazione del proprio Onore e di quello della propria famiglia.

Gli esempi erano ormai sotto gli occhi di tutti. Si ricordava ancora a Vicenza la confisca dei beni e l’atterramento della casa di Orazio Godi, avvenuti nell’ormai lontano agosto del 1578. Il Godi, che aveva ucciso un Piovene nel villaggio di Lonedo, era imparentato con i Capra. Egli aveva sposato la figlia di Marco Capra e ne aveva ereditato i beni e la casa posta al Castello, all’inizio della Strà Grande. Un palazzo di valore, che i Capra avevano tentato inutilmente di salvare con il pretesto che era sottoposto al vincolo dell’inalienabilità stabilito dall’avo Enrico. I veneziani erano stati inflessibili [12] . Sembrava anzi che la legge, che di lì a poco, nel settembre dello stesso anno, avevano emanato in materia di confische, fosse stata assunta minacciosamente sulla scia dell’esempio impartita ai Capra [13] .

Era stato un episodio clamoroso, che aveva impressionato l’aristocrazia vicentina. E altri ne erano seguiti, a Vicenza come altrove. Molti ricordavano ancora la triste fine di Ludovico da Porto [14] e la confisca dei beni di Germanico Savorgnan, nei confronti del quale si era congegnato addirittura la finzione giuridica della morte del padre, pur di procedere alla confisca dei beni sottoposti a fedecommisso, cioè al vincolo perpetuo dell’inalienabilità [15] .

Sembrava impossibile far capire alle nuove generazioni che il loro atteggiamento orgoglioso poteva condurre la famiglia alla rovina [16] . Egli e il fratello Odorico l’avevano amaramente provato nel 1609.

Era sorta allora contesa tra il fratello Odorico e il Conte Alvise da Porto, che raccoglieva intorno a sé la Parentela avversaria più potente. Si era trattato di una questione di precedenza, che il fratello Odorico, di recente nominato per decreto veneziano Governatore della Banda Grande, riteneva giustamente gli spettasse. Il Senato veneziano aveva deciso altrimenti, preferendo i da Porto, considerati forse più fedeli servitori. Odorico aveva saggiamente ceduto, sapendo che le regole del gioco non erano più fissate ormai nell’ambito dell’aristocrazia vicentina [17] . Ma suo figlio Onorio, più istintivamente legato a quel concetto d’Onore, che definiva il prestigio della Casa, aveva reagito violentemente, attaccando gli avversari. Ancora una volta era giunta prontamente la reazione di Venezia: Onorio era stato bandito e la sua parte di eredità confiscata [18] .

Il fratello Odorico era rimasto sconvolto. L’intemperanza del giovane figlio sembrava aver scosso la Casa dalle sue solide fondamenta. Nel testamento redatto a Venezia nel marzo del 1612 Odorico diseredava il figlio, in quanto i beni che gli sarebbero spettati erano stati confiscati dalle magistrature veneziane [19] .

La memoria del fratello Odorico, cui Mario Capra era stato profondamente legato, sembrava aleggiare nelle grandi stanze della Rotonda. Era morto il 31 agosto 1612, lasciandolo commissario di tutto quanto gli apparteneva. Mario Capra non poteva dimenticano: aveva costruito con lui la ricchezza e il prestigio della famiglia. Insieme si erano mossi per consolidare l’onore della Casa. L’affetto che aveva provato nei suoi confronti si era riversato, dopo la sua morte, nei cinque nipoti maschi, in particolare in Onorio, che più degli altri sembrava personificare i valori cui essi avevano aderito.

Onorio però, indotto da un esasperato concetto dell’Onore sembrava trascinare la famiglia verso la rovina. Proprio il 14 di quel mese di maggio del 1619 il Consiglio dei dieci l’aveva bandito con una sentenza assai severa per l’omicidio del Conte Gabriele da Porto [20] . Si era trattato ancora una volta, apparentemente, di una questione di precedenza. In realtà Onorio non era mai riuscito a nascondere la profonda insofferenza nei confronti della famiglia da Porto, i cui membri gli apparivano tracotanti e superbi, soprattutto per la fin troppo palese protezione che essi godevano da parte degli organi di governo veneziani. Onorio era stato bandito con l’alternativa della pena capitale. Ma, fatto più grave, il Consiglio dei dieci, aveva annullato il testamento di Odorico, sottoponendo i beni dei Capra ad un’altra pesante confisca [21] . La mira dei veneziani era stata dunque di punire severamente la sua famiglia. Mario Capra ne era sicuro [22] .

A questo si era aggiunta la cocente umiliazione della visita dei rappresentanti fiscali, che proprio due giorni prima, il 20 maggio 1619, erano giunti alla Rotonda per redigere l’inventano giudiziario [23] . Era stata una sorta di vera e propria profanazione del simbolo più prestigioso e più caro, che rappresentava la famiglia e la Casa. Bisognava correre ai ripari. Salvaguardare quantomeno quella parte della proprietà, che apparteneva a lui direttamente ed impedire che la famiglia, sotto l’urto della sventura, si sgretolasse.

Quel mattino aveva trattenuto i servitori. Erano infatti necessari almeno sette testimoni per confermare la validità del testamento che egli voleva redigere insieme al fidato notaio Lucio Creazzo [24] . Bisognava evitare innanzitutto che il nipote Onorio figurasse tra i suoi eredi e provvedere alla salvaguardia futura del patrimonio familiare.

Quel giorno del 22 maggio 1619 Mario Capra, su suggerimento probabilmente di un giurista della famiglia, forse di quell’Alvise Capra, che di lì a poco avrebbe ricordato, redigeva due testamenti. Nel primo stabiliva, come di consueto, l’inalienabilità perpetua di tutti i suoi beni, che venivano destinati ai quattro figli maschi del fratello Odorico e cioè i Conti Gabriele, Camillo, Lelio e Marzio. Di Onorio non c’era menzione. Inoltre egli stabiliva la primogenitura sulla Rotonda e sui beni che le erano annessi. Alla morte dei quattro fratelli cioè, il primogenito esistente avrebbe ereditato il palazzo, che era stato «fabricato con molta spesa et industria così della persona mia, come dell’illustrissimo mio fratello.., essendo cresciutto a tanta bellezza et ammiratione degli homeni per la concordia nostra». E la primogenitura avrebbe dovuto continuare di generazione in generazione. Se la discendenza maschile della famiglia si fosse estinta, altri membri della Casa Capra avrebbero dovuto subentrare nel diritto.

Il vincolo della primogenitura non era stato mai molto diffuso nell’ambito dell’aristocrazia vicentina. Da alcuni decenni più di un testatore aveva però cominciato a ricorrervi [25] . L’inalienabilità del vincolo fidecommissario non era evidentemente in grado, alla lunga, di mantenere integro il patrimonio familiare. Ma l’istituto della primogenitura, limitato spesso alla residenza principale della famiglia e ai beni che ne avrebbero garantito il decoro e la salvaguardia, aveva un’alta funzione simbolica. Garante dei valori della Casa, esso aveva il fine di connotare simbolicamente i legami di Parentela, che l’usura del tempo minacciava di intaccare. Ed inoltre, probabilmente, mirava in una certa misura a rendere meno traumatico il passaggio da una generazione all’altra, erodendo il potere quasi illimitato che il padre di famiglia godeva nei confronti dei figli.

Avrebbe dovuto, dunque, servire ad agevolare il delicato meccanismo della trasmissione del patrimonio, che sarebbe stato svincolato inoltre, in quanto già definito giuridicamente a confluire, in buona consistenza, nella figura del primogenito, dai rischi connessi alle intemperanze di tutti gli altri figli.

Si trattava di una decisione, che Mario Capra aveva maturato ormai da tempo. Ne aveva discorso a lungo con il fratello Odorico. Entrambi avevano ritenuto che tale soluzione fosse estremamente necessaria. Il ricordo del fratello emergeva di continuo mentre andava dettando il testamento al notaio. Ricordava come fosse stata inutile l’esplicita diseredazione che Odorico aveva fatto nei confronti del figlio Onorio. Persino l’antico istituto del testamento, che così come era venuto evolvendosi nei secoli in cui Vicenza aveva potuto autonomamente darsi delle leggi e degli statuti, avrebbe dovuto garantire al pater familias un’ampia autorità, sembrava ora messo in discussione. Il potere sulla famiglia e l’appartenenza alla Casa, che nel testamento trovavano una forte e qualificante espressione simbolica, sembravano aver smarrito la loro ragion d’essere, nel momento in cui alla legittimità originaria, intimamente pervasa dall’ideologia aristocratica, se n’era venuta sostituendo un’altra, di esterna, emanazione di un potere che proveniva da un Centro dominante [26] .

L’autorità, che un’ormai antica tradizione giuridica, imbevuta profondamente del diritto romano, conferiva al pater familias nel momento in cui si trovava a decidere, tramite il testamento, delle sorti del proprio patrimonio, doveva ora soggiacere ad un potere politico, che sempre più dava segni di identificare se stesso come la fonte prima della Legge e del Diritto.

Nonostante questa sensazione sgradevole Mario Capra non poteva non rivolgersi direttamente a quel potere politico esterno, così come del resto, già da diversi anni molti altri membri della stessa aristocrazia cui apparteneva andavano facendo. Un richiamo che doveva suonare da ammonizione agli eredi, che qualora non avessero ubbidito alle leggi veneziane, sarebbero stati immediatamente diseredati [27] . Era una disposizione, si affrettava ad aggiungere, che egli prevedeva non «per fraudare il fisco, ma per tenir con questo frenno in obedientia delle leggi et in riverentia del suo Prencipe miei herredi e descendenti suoi in infinito…».

Una disposizione, che Mario Capra riteneva se non inutile, certamente non in grado di arrestare una futura azione di ritorsione da parte veneziana, ma che comunque intendeva appellarsi a quella diversa legittimità proveniente dal diritto comune, che gli stessi organi di governo della Dominante non avevano mai osato formalmente mettere in discussione. Una legittimità, che egli riteneva poggiasse ancora sull’ampio potere di fatto che l’aristocrazia vicentina ed in particolare la sua famiglia godevano nei confronti degli altri ceti sociali [28] .

Non a caso, e certamente spinto dalla prudenza, quello stesso giorno Mario Capra redigeva un altro testamento. Si trattava di un codicillo in cui egli prevedeva, che se fossero nati dei figli al nipote Onorio, essi pure avrebbero avuto diritto all’eredità che per legittima sarebbe dovuta spettare al loro padre. Ed inoltre ambire a quello stesso diritto di primogenitura, che aveva previsto per gli eredi degli altri nipoti. L’opportunità, evidentemente, di manifestare apertamente questo secondo testamento sarebbe toccata, dopo la sua morte, ai membri della famiglia. Difficilmente i servitori e i dipendenti, di cui egli ora richiedeva l’intervento come testimoni, avrebbero osato creare dei problemi ad un uomo come egli era e veniva considerato.

Mario Capra non sarebbe morto poi così presto. Almeno non così in fretta da non assistere alle vicende sanguinose che avrebbero scosso negli anni venti, in maniera profonda e violenta, la struttura di potere nobiliare. La faida tra le famiglie Capra e da Porto si riaccendeva in maniera inusitata, coinvolgendo le Parentele più cospicue della città. La contesa divenuta più aspra ed insanabile avrebbe allora evitato lo scontro aperto e frontale, ricorrendo, senza mezzi termini, alla figura prezzolata del sicario. Era forse l’ultima, anche se la più violenta, fase della faida, in cui la difesa dell’Onore avrebbe lasciato spazio alla vendetta personale [29] .

Nel 1626, all’età di 80 anni, Mario Capra redigeva, questa volta di suo pugno, l’ultimo testamento. Poteva ora indicare in Odorico, figlio del nipote Marzio, colui che avrebbe avuto diritto alla sua primogenitura. Una scelta che non si sarebbe rivelata felice: Odorico Capra sarebbe stato bandito dalla Repubblica per una serie di misfatti compiuti negli anni quaranta [30] . La Rotonda, quel palazzo, che negli intendimenti di Mario Capra avrebbe dovuto manifestare, anche sul piano simbolico, il prestigio della famiglia Capra, veniva circondato dagli sbirri inviati dall’autorità giudiziaria per arrestare il nipote e i suoi sgherri. Ribellione che, con l’estrema alterigia del personaggio, denotava la sconfitta di un ceto dirigente ancora volto al passato. Soprattutto di quell’aristocrazia di origine feudale, legata alle tradizioni guerriere. Forse quella stessa primogenitura, che negli intendimenti di Odorico e Mario Capra, avrebbe dovuto garantire il prestigio e l’Onore della Casa nella continuità delle generazioni, priva di un supporto istituzionale politicamente legittimato, aveva ingigantito talune contraddizioni insite nella stessa struttura di potere nobiliare.

Ma Mario Capra ebbe la fortuna di non assistere a tutto questo. Morì infatti alla fine di agosto del 1631. Ancora qualche giorno e sarebbe riuscito ad evitare gli ultimi colpi di coda di quella grande peste che aveva piegato la città. E con lui terminava, probabilmente, quella lunga fase di aspirazione e di tensione politiche, tramite cui l’aristocrazia vicentina aveva tentato, inutilmente, di ridefinire il proprio ruolo e la propria funzione all’interno di un contesto europeo, che ormai non sembrava più offrire agganci e vitalità.

I tre testamenti di Mario Capra

In nome del Signor nostro Giesù Christo et così sia.

1619, indition seconda in giorno di mercore 22 del mese di maggio, nel palazzo della Rotonda, fuori della porta de Monte, nel Borgo di Berga, giurisdition della Magnifica Città di Vicenza.

Ritrovandomi io Mario Capra, figliolo del Conte Gabrele molto travagliato per la perdita gravissima che ha fatto la Casa per la morte dell’illustrissimo Conte Odorico, Condottiero di genti d’arme di Sua Serenità, mio fratello dilettissimo, il quale l’ha sin hora retta e governata con somma prudentia e valore et intiera satisfattione mia.

Però, continuando i suoi pensieri, in conformità di quanto havemo molte volte divisato insieme, mi è parso bene di fare questo mio testamento, sino che mi ritrovo sano per la Iddio gratia del corpo, il qual facio scrivere da persona mio confidente et serà sottoscritto et fermato di mia propria mano et sigillo mio, con sette testimoni, secondo l’uso.

Però, invocato il nome di Giesù Christo et della gloriosissima sua madre, ali quali insieme con li prottetori et avvocati miei San Francesco, Santa Lucia, San Carlo et Sant’Antonio, raccommando l’anima mia, quando piacerà al sommo Creatore di tutte le cose di chiamarla dalle tenebre di questo mondo alla chiarezza della sua luce.

Ordino che il mio corpo sia sepolto in San Lorenzo, nella nostra sepoltura, appresso quello del signor mio fratello, accioché essendo vivuti unanimi, insieme un istesso loco habbia le nostre osse.

Poi in tutti li miei beni mobili e stabili, raggioni et attioni presenti et futturi, miei universali heredi instituisco et voglio che siano li carissimi miei nipoti et da me come figlioli propri amati: il Conte Gabriel, canonico in Padova, il Conte Camillo, dottor di legge, il Conte Lelio et il Conte Martio fratelli et figlioli dell’illustriss. Conte Odorico, e li descendenti suoi maschi legitimi e naturali et di legitimo matrimonio nati e procreati in infinito, i qualli sostituisco uno all’altro vulgarmente, pupilarmente, reciprocamente et per fideicommisso, escludendo sempre et in ogni caso tutti i natturali et loro descendenti, ancorché fussero legitimati per matrimonio susseguente et per rescritto del Prencipe, overo in qual si voglia altro più supremo modo.

Prohibendo ogni alienatione et detratione di quante che in si qual voglia modo posse farsi, così per via di contratto come di ultima volontà, essendo mia ferma intentione che la mia facoltà si conservi intiera, senza diminutione in detti miei nipoti et loro descendenti maschi legitimi et naturali et di legitimo matrimonio nati di donna civile et honorata, con ordine successivo et secondo la prossimità del grado, in stirpe et non in capi, sino che se ne troverà alcuno della progenie delli prefatti miei nepoti.

Et perché tra gli altri miei beni io mi ritrovo possedere in communione et pro indiviso con li sopra nominati miei nipoti il palazzo della Rottonda, fabricato con molta spesa et industria così della persona mia come dell’ill. mio fratello, che Iddio habbia in gloria, sapendo che ciò era anco sua mente et intentione. Perciò, non mi partendo ne anco in questo dalla sua mente, acciò detto bel loco, per le divisioni non venghi a mancare, essendo cresciutto a tanta bellezza et ammiratione degli homeni per la concordia nostra, voglio et commando che sia primogenitura perpetua della Casa Capra, insieme con li beni tutti agiacenti et annessi, così per il primo acquisto fatto di esso l’anno 1591, come per molti altri seguiti in altri tempi et che seguirano sino al tempo della mia morte, in questo modo. Cioè, che salve le raggione al presente delli prefatti quatro miei nipoti nominati di sopra, tra i qualli non voglio che sia predilettione, né inegualità alcuna, ma che egualmente godino la ammenità et dilitie di questo suburbano, con l’ordine di sopra.

Voglio dico, che il primogenito, che si ritroverà in essere doppo la morte d’ogni uno di questi viventi haver debba detta primogenitura, solo così che in quel tempo cominci havere il suo effetto vero et reale et così continuar debba nelli primogeniti che nasceranno di detto primogenito in infinito.

Intendendo sempre che siano tutti nati di legitimo matrimonio et di donne honorate et pudiche et non in altro modo. Il che s’intenda repettitto in tutte le muttatitioni di linee che potesse aportare il tempo, il qual pur troppo abbassa e distrugge le fatiche de’ mortali et ben che il provedere a tutti i casi sia dificillissima cosa.

Però ordino e commando, che finita la descendentia mascolina di detto primogenito, la detta primogenitura con li beni suddetti passar debba nel secondogenito et descendenti da quello, così che i fratelli carnali del primogenito nel qualle haverà effetto la prima volta detta primogenitura, restino in prerogativa et possesso di detta primogenitura il secondogenito et suoi descendenti et così il terzo et di mano in mano gli altri dell’istesso corpo, come si costuma nei feudi nobili et nelle successioni reali.

Intendendo sempre che l’anzianità del grado apporti questo beneficio, dovendo così succedere in deffetto l’uno dell’altro, sino che se ne ritroverà in infinito.

Et benché non sia seguita divisione alcuna de beni tra di noi, io so però che imparte mi tocherebbe tanto quanto importa la Rottonda con i livelli et terreni circostanti et sottoposti al detto acquisto. Perciò con consentimento anco di detti miei nipoti io me la approprio et piglio in parte per obligarla a questo fideicommisso di primogenitura stretissimo, per honore et riputatione della Casa, dovendosi condonare alle molte mie fatiche questa sotisfattione. Et per maggior corroboratione di questa mia volontà, commando che detti miei nepoti o loro heredi siano tenuti in termine di doi mesi, in presentia di nodaro et testimoni, laudare et approbare in tutto come sta et giace questa mia dispositione, doppo che gli sarà nottificata, altrimenti che quello o quelli che non volessero fare tal approbbatione restino privi della mia heredità, la quale s’acresca agli altri che quella lauderanno et approbberanno con l’istesso ordine di primogenitura nelli soli descendenti maschi legitimi et naturali et di legitimo matrimonio nati, perché tale è la mia ferma mente et intentione, la qualle affermo essere conforme anco all’intentione che haveva la buona memoria dell’illustriss. mio fratello.

In evento poi, che il Sig. Iddio per sua bontà non voglia, che si estinguesse la descendentia mascolina legitima come di sopra de miei nepoti, chiamo e sustituisco il primogenito che si troverà allhora in essere della descendentia del Conte Battista Capra, figliuolo della signora Zenobia mia carissima sorella et del signor Carlo Capra et li suoi heredi in infinito, nati di legitimo matrimonio, maschi come di sopra, sotto questa conditione però.

Se il signor Carlo o signor Conte Battista sustituiranno a i suoi figlioli et herredi maschi, legitimi e nati di legitimo matrimonio, li detti miei nepoti et i descendenti loro ut supra, a fine che sia scambievole e reciproco il beneficio della sustitutione et di questa mia dispositione io ne sono per certificare l’uno e l’altro et in quanto non si curino di effetuare questo, io lascio da banda et chiamo in suo loco i figlioli et descendenti maschi della conditione oltrascritta del signor Conte Francesco e Conte Alfonso fratelli Capra, essendo miei nepoti, beneficiati loro ancora da i testamenti del Conte Giovanni e Conte Achille, fratelli di questi, con l’ordine rigoroso di primogenito in primogenito come ordino nella discendenza de miei nepoti.

E finita questa linea chiamo i descendenti del detto Conte Battista, in caso che né lui né suo padre habbia fatto la sustitutione detta et convenevole la quale linea mascolina e di legitimo matrimonio nata terminando, chiamo il primogenito che si troverà vivente e più prossimo di grado della descendentia del signor Conte Claudio e Conte Horatio, Conte Enea, Conte Sartorio e signori Fabricio et Alvise et Alessandro, descendenti tutti da commune stirppe nostro Henrico, cioè l’uno doppo l’altro et in difetto del moriente il più propinquo a questo, in infinito, sino che se ne troverà maschi legitimi et nati di donna civile et honorata della fameglia Capra che s’intenda sempre specificato in tutti.

E piacendo così a Iddio, che questi anco finiscano, in quel caso succeder debbano alla primogenitura i più prossimi di mano in mano della Casa Capra, di primogenito in primogenito, secondo gli ordini narrati abastanza sino che se ne troverà, chiamando i bastardi e legitimati solamente in diffetto di tutti i predetti, con l’ordine però espresso di sopra, dando facoltà all’ultimo moriente di questi di adotarssi un soggetto in caso che essi si estinguano, legitimo e nato di vero matrimonio di una Casa nobile e congionta alla nostra di sangue e di amore, obligando sotto pena di privatione dell’herredità di assumere l’armi et il nome della famiglia Capra veramente et non sotto aparenzza, altrimenti chiamandosi che con il detto cognome s’intenda privato di detta primogenitura, la qual andar debba in un altro, che si contenti di tuorre et usare questo nome, dovendosi pure in questi casi di addotatione caminare ancora con gli istessi ordini di primogenito in primogenito legitimo ut supra et così in ogni caso di deficentia di linea l’ultimo superstite si tenuto di suscitare il nome della fameglia per addotione, nei quali soli casi, essendovi femine nubili si debbano accasare con l’addottato, intendendo che imparità di grado, il maggior nato sia sempre preferitto ne i passaggi che si faranno da una linea all’altra, con osservatione eterna della legitimità reale tante volte repetita e di donna civile e vita honesta, per non maculare mai li honori dell’Antichissima et nobilissima fameglia nostra.

Non voglio manco divisare alcuno di detta primogenitura, né per occasione di litte né per accordo pacifico sotto pena di privatione assoluta di detta primogenitura al contrafaciente, la qual cadere debba immediate al più prossimo, sicome prohibisco anco ogni pretensione di meglioramenti, bonificationi o reparationi, presuponendo che il tutto sia fatto dei frutti di essa et l’istesso intendo degli acquisti che si faranno in Campedello nelle pertinentie della Rottonda, come acquistati delle entratte di essa e perciò cedano a beneficio di quella. Quanto alle permutte o baratti concedo quei soli che si fanno per appezzarsi o per utile evidente della detta primogenitura, la quale voglio passi sempre con accressimento et perciò prohibisco anco che sopra di essa non si possa cavar dotta alcuna imaginabille, per qual si voglia occasione.

E se per sorte alcuno impegnasse, vendesse, permutasse tutta o parte di detta primogenitura, s’intendi decadutto di essa, potendo il più propinquo senza esborso di soldi e de fatto andar in posesso et dei beni alienati, essendo così mia ferma intentione che questa primogenitura per honore e beneficio della famiglia si conservi in essa intiera in tutte le sue parti.

Quanto al resto de miei beni, voglio che restino sotto stretto fideicommisso, come gli ho sottoposti nella descendenza de miei nepoti. Il qual fideicommisso rigorosso, commando che sia osservato nelli sustituiti anco a detti miei nipoti, secondo l’ordine detto nella primogenitura, cioè prima nella linea dei primi chiamati in infinito, come dispongono le leggi e poi nelli altri seguentemente, volendo che questi beni ancora servino a honore e beneficio continuo, quanto comporta la humana conditione della fameglia Capra, sempre esclusi i bastardi e legitimati, se non nei casi espressi di sopra.

E perché desidero e commando che detti miei herredi et fideicommissari vivano sotto il timor del signor Iddio, dal quale ne viene ogni bene et obedienti alle leggi di Sua Serenità, perciò occorendo che alcuno di essi, il che N S. non permetta, faccia eccesso per il qualle venga privato dei beni, che ipso iure e subito quel tale o quei tali s’intendano privi della mia herredità et massime della primogenitura, la qual vada imediatte al più prossimo, secondo l’ordine di sopra. Dechiarandomi che ciò non lo ordino per fraudare il fisco, ma per tenir con questo frenno in obedientia delle leggi et in riverentia del suo Prencipe miei herredi e descendenti suoi in infinito et anco acciò che detta mia facoltà sia conservata sempre nella mia Casa Capra.

Dechiaro anco che sottopongo all’istesse stretezze narratte di sopra, con ordine istesso inviolabile, tutti i mobelli che si troveranno essere nella Rottonda al tempo della mia morte, in modo che s’intendino uniti col palazzo e seguitino l’ordine della primogenitura, dovendo li miei heredi fare in termine di mesi sei un solene inventano, così dei mobelli detti, come degli affitti, case campi pertinenti a questa fabrica a perpetua memoria.

Nel giorno poi che seguirà la mia morte, che sia quando piacerà a sua divina maestà, lascio che per elemosina li prefatti miei heredi siano obligati dispensare a poveri vinticinque ducati a beneficio dell’anima mia.

Lascio medesimamente al Monesterio delle rev. monache di Santa Chiara ducati cinquanta. A quelle delle povere Convertite ducati cinquanta. Ai Mendicanti ducati cinquanta. Ai reverendi padri di Santo Stefano ducati cinquanta. Alla devota Compagnia del Confalon della beatissima vergine per la fabrica ducati cento. Et questi ducati trecento, lasciati come di sopra, siano pagati la mettà subitto doppo la mia morte et l’altra mettà l’anno seguente et questo acciò preghino il Signore e la Beatissima Vergine per l’anima mia.

Al convento dei rev. frati di San Lorenzo dove saranno i nostri corpi, lascio un annuo affitto de ducati sei, troni 37.4 in perpetuo, qual paga Giovanni quondam Bernardin dei Martini da San Giovanni di Longara, con obligo di far tre anniversari all’anno in perpetuo, solenemente, cioè l’uno all’ill. conte Odorico mio fratello amantissimo, il primo di settembre, il secondo il dì 20 di decembre per la sig. Teodora mia diletissima figliola et il terzo nel dì della mia morte, col pregare humilmente l’altissimo Redentore nostro e la gloriosiss. sua madre, con tutto il choro de i santi ad haver misericordia delle anime nostre.

Lascio parimente un affitto de ducati vinti uno troni 130.4, qual paga messer Francesco quondam Giovanni quondam Giovan Stefano Breganze da Torre di Belvesin ali 19 genaro et così un altro affitto de ducati tre troni 18.12, qual paga gli heredi di Zamaria Montegalda, cioè donna Crestana e Francesco suo fiolo il dì 23 di aprile, in tutto sono ducati 24, cioè troni 148.16, qualli affitti siano mantenuti buoni et essigibilli dalli miei heredi, perché voglio che questo legatto annuo di ducati vintiquatro sia consignato dalli miei heredi et imparticolare dal primogenito, quando sarà venuto il caso, ad un frate di San Lorenzo di buona vita e dottore essendovene, qual habbia obligo di dire una messa al giorno all’altar nostro della Natività del Signore per l’anima della signora Teodora mia figliolo et anco per l’anima mia; e l’elletione di questo Padre tochi a miei nipoti et non al primogenito, successivamente che sarà padrone del Palazzo della Rottonda.

Et questo sia il mio ultimo testamento et ultima volontà, la quale se non valesse come testamento vaglia come codecillo o come donation per causa di morte, overo per qual si voglia più efficazze e meglior modo. Commisari di questa mia volontà suprema saranno i detti miei nipoti et il rev. Conte Marcantonio Capra prothonotario apostolico et l’eccelentiss. Sig. Alvise Capra et doppo questi, quei della famiglia che saranno dottori di legge pro tempore.

Lascio anco al monasterio delli rev. padri della miracolosa Madonna di Monte, protetrice della Rottonda, un annuo livello di troni vinti uno, soldi quatordeci troni 21.14, d’un paro de polastre marzadege, qual paga Brunoro quondam Pelegrin di Giusti da Schio, habbita al presente sul porto, appresso la Chiesa di Santa Caterina. Laus Deo.

Adì 22 maggio 1619

Io Mario Capra affermo questo esser il mio testamento et perciò mi son sottoscritto di propria mano nel nostro loco della Rottonda, qual testamento è statto scritto dal signor Lucio Creazzo nodaro, mio confidente, così da me pregato.

Et io Lucio Creazzo filio quondam D. Paulo nodaro veneto ho scritto il soprascritto testamento di commissione del sudetto molto illustriss. sig. Conte Mario Capra adì sopradetto.

Adì 22 maggio 1619

Io Lutio Creazzo, pregato dal molto illustriss. sig. Conte Mario Capra ho sottoscritto questo che dice esser il suo testamento et sigillato con il mio sigillo e fui testimonio.

Adì detto

Io Ceisso Cuco da Milano ho sottoscritto il presente testamento con il sigillo delli signori Capra, così pregato et fui testimonio rogato.

Adì sudetto

Io Lazaro dal Corno da Bassano ho sottoscritto et sigillato con il sigillo del sudetto Creazzo il presente testamento così pregato.

Adì sudetto

Io Vicenzo Giacomazzo, così pregato ho sottoscritto et sigillato con il sigillo del sudetto Creazzo.

Adì sudetto

Io Domenego Regin fui testimonio pregato al presente testamento et ho sigillato con il bollo delli signori Capra.

Adì sudetto

Io Nicola Cassoni fui testimonio come di sopra et sigillato con il mio sigillo.

Adì sudetto

Io Gierolamo Giacomello fui testimonio pregato come di sopra et sigillato con il sigillo del sudetto signor Conte.

Nel nome di Dio, il quale sia per sua bontà sempre assistente alle mie attioni, nel loco della Rottonda fuori della porta di Monte di Vicenza, nel Borgo di Berga. Adì 22 maggio 1619

Aggiongendo io Mario Capra in questa parte al mio testamento scritto et rogato per il nodaro infrascritto sotto dì 22 mazo 1619, al quale non intendo derogare con questo, ma solamente aggionger, dechiaro et voglio che li figlioli che nasceranno del Conte Honorio Capra fu dell’illustriss. Conte Odorico, maschi, legitimi naturali et di legitimo et real matrimonio nati e procreati di donna civile e di vita honesta, siano heredi con egual portione con li altri quatro miei nipoti, il Conte Gabrielle, il Conte Camillo, il Conte Lelio et il Conte Martio nominati et chiamati et in quello sì come chiamo et confirmo anco in questo, di modo che detti figlioli del Conte Honorio, quando venirà il caso che nascano, entrino loro ancora in tutta la mia heredità per la quinta parte, se gli altri heredi saranno tutti vivi, se non con quella portione maggiore che le apporterà il beneficio della sopraviventia, intendendo in tutto di fargli pari agli altri primi herredi et descendenti delli detti miei nepoti et che essi e li descendenti loro in infinito maschi come in quello, debbano succedere in tutti li miei beni presenti et futuri et attioni di qualonque sorte, con le conditioni, patti et oblighi di sustitutione vulgari, puppilari reciproche e di fideicommisso perpetuo, come appuntino in quello al quale per brevità mi rimetto et impaticolare della primogenitura alla quale detti figlioli del Conte Honorio possino pretender con li modi come si crederà in quello distintamente; dovendo questa dispositione pigliare spirito e fiato da quella in tutte le altre parti et questa se non valerà come testamento vaglia come codicillo o donatione causa mortis o per altro miglior modo et in fede scriverò di propria mano, havendo fatto scrivere da domino Lucio Creazzo mio confidente.

Io Mario Capra affermo questa esser mia dispositione et voluntà.

Et io Lucio Creazzo figlio quondam D. Paulo nodaro veneto ho scritto la sopradetta dispositione et voluntà di commissione del sudetto molto illustriss. signor Conte Mario Capra.

1619 22 maggio

Io Lucio Creazzo fui testimonio pregado et mi son sottoscritto al presente codicillo et ho sigillato con il mio sigillo, qual codicillo si dice esser del molto illustriss. signor Conte Mario Capra.

Adì sudetto

Io Nicola Cassoni fui testimonio al presente codicillo et sigillato con il mio sigillo.

Adì sudetto

Io Gierolamo Giacomelli fui testimonio pregato al presente codicillo et sigillato con il sigillo del sudetto Creazzo.

Adì sudetto

Io Dominico Rigini fui testimonio pregato et mi son sottoscritto al presente codicillo et ho sigillato con il sigillo delli signori Capra.

Adì sudetto

Io Ceisso Cuco fui testimonio pregado come di sopra et ho sigillato con il sigillo del sudetto Creazzo.

Adì 22 maggio 1619

Ho ricevuto io Lucio Creazzo come nodaro dal molto illustriss. signor Conte Mario Capra il presente codicillo et a me consignato da esser aperto al suo tempo.

1626 26 gennaro nella Rottonda

Essendo io Mario Capra pervenuto all’età d’anni ottanta, sano non solo della mente ma del corpo ancora, ho deliberato, sino che dalla divina bontà mi vien concesso tempo opportuno, compitamente disponere quello che debba esser della facoltà mia doppo di me.

Confermo il mio testamento et codicillo fatto da me l’anno 1619 et consignati al signor Lucio Creazzo, eccetto in quelli particulari che nel presente mio codicillo et ordinationi saranno espressi.

Rattifico la primogenitura da me ordinata di questo mio loco della Rottonda, con tutti li suoi mobili che vi si ritroverano esser al tempo che questo sarà publicato, di cadauna sorte et tutte le altre fabriche, terre, livelli ad essa annessi, compresi et situati tra la sommità di queste colline di San Sebastiano, Madonna da Monte, Costacolona et fiume Bachiglione et Valle Ponzina et di Porcia, compresovi particularmente anco il loco che fu aquistato dal molto illustriss. signor Alvise Trivisan, con tutte le case et terre in esso situate, nel qual aquisto per convenienti rispetti non corse il mio nome, fu però fatto intieramente con il mio dinaro. Onde intendo sia compreso in detta mia primogenitura.

Furono fatti ancora con il mio danaro, se bene non fu espresso il mio nome, turi li aquisti dal Fisco di beni del Conte Honorio mio nipote bandito, ma questi fatti dal fisco intendo restino nel ressiduo della mia facoltà, a beneficio di miei heredi.

Et perché amo egualmente il Conte Gabrielle et il Conte Camillo et Conte Martio miei nipoti, non intendo far nelle persone loro alcuna diferenza, ma voglio che tutti tre unitamente et in pace godino detta mia primogenitura, sino che viverano. Mancati tutti tre detti miei nipoti, dechiaro mio primogenito et herede Odorico, figliolo del Conte Marcio mio nipote et li suoi figlioli et descendenti maschi nati et procreati di legitimo matrimonio et di donna nobile la qual conditione s’intenda sempre repetita in tutti i casi, sustituendo l’uno all’altro pupilarmente et per fideicommisso con ordine di primogenitura, sì che sino che ve ne sarà della sua descendenza maschi et legitimi come di sopra di primogenito in primogenito debbano succeder et estinta una linea di essi debba succeder l’altra più prossima con l’istesso ordine di primogenitura.

Et se mancasse tutta la descendentia masculina legitima come di sopra di esso Odorico o quelli mancasse senza figlioli maschi legitimi come di sopra, succeda l’altro figliolo primogenito di esso Conte Marcio o figlioli di esso et descendenti maschi che a quel tempo si trovassero esser, con l’istesso ordine di primogenitura detta di sopra.

Et se si estinguesse la discendentia di esso Conte Marcio mio nipote, masculina legitima come di sopra, in tal caso suceder debba nella mia primogenitura il primogenito che in quel tempo si trovasse esser delli figlioli ed descendenti maschi, natti et procreati di legitimo matrimonio et di donna nobile, così del Conte Camillo come del Conte Honorio miei nepoti; et osservarssi nella discendenza di essi duoi miei nipoti quanto ho ordinato in quella del Conte Martio mio nipote.

Et se occoresse, che Iddio non voglia, che tutta la discendenzia de’ miei nepoti, masculina legitima nata et procreata di legitimo matrimonio et di donna nobile come di sopra, si riducesse in un solo maschio et legitimo come di sopra o in statto pericoloso di estinguersi, lasio all’ultimo di questa prole libertà di potersi ellegere a suo beneplacito un herede, che sia però della famiglia Capra, maschio nato et procreato di legitimo matrimonio come di sopra, nel qual debba continuare, insieme con tutti li suoi descendenti questo mio ordine di primogenitura di sopra espresso.

Et in caso che questo ultimo di prole fusse puppillo o per altro non potesse testare, benché anco fussero più di uno, in tal statto ordino che questa sustitutione possa esser fatta da quello che fusse più prossimo ad essi che non potessero testare et che sia però della istessa famiglia Capra, la qual sustitutione però in tanto valesse in quanto essi morissero in stato di non poter testare, ma essendo quelli pervenuti al stato di poter testare, possino essa sustitutione revocare a suo beneplacito. Et questa libertà concedo non solo ali ultimi di prole di detti miei nipoti, ma alli ultimi di prole di ogni altra linea o colonello dove fusse passatta detta primogenitura.

Et se occoresse che dalli ultimi di prole non fusse fatta detta sustitutione o come ho detto di sopra pupillarmente voglio che sia oservato in tal caso l’ordine delle sustitutioni che ho disposto nel mio testamento et codicillo, perché mia ferma intentione è che si conservi in perpetuo questa mia primogenitura nella famiglia Capra, senza alcuna diminutione immaginabile.

Et se alcuno delli beneficiatti da me per qualche delitto fusse privo della gratia del Prencipe, intendo che imediate sia privo della mia heredità, essendo io desiderossissimo che vivano in gratia del mio Prencipe, come hanno fatto i miei maggiori et ultimamente fece mio fratello et nepoti, con l’effusione della propria vita in servitio del Prencipe.

A Lodovica, figliola di messer Domenigo et di madonna Vitoria Regini, lascio il vitto et vestito appresso miei nepoti et heredi sino all’età de disdoto anni, nel qual tempo obligo essi a dotarla di ducati quatrocento. Et questa mia ordinatione vaglia come codicillo o in altro meglior modo possa valere.

Io Mario Capra ho fatto il presente di mio pugno.

1626 21 genaro

Io fra Deodato Bonato, pregato dal molto illustriss. signor Conte Mario Capra ho sottoscritto et sigillato con il mio sigillo questo che dice essere il suo codicillo et ordinatione testamentaria.

Adì sudetto

Io Zamaria Rovea fui presente et ho sigillato il presente codicillo con il sigillo del signor testatore.

Adì sudetto

Io Zambatta, figliolo del sudetto Zan Maria Rovea fui presente et ho sigillato il presente codicillo, sigillato con il sigillo del signor testatore.

Adì sudetto

Io Marchioro Mion detto Campedello fui presente et ho sigillato il presente codicillo con il sigillo del signor testatore.

Adì sudetto

Io Zuanne di Franceschini affermo quanto di sopra et ho sigillato il presente codicillo con il sudetto sigillo.

Adì sudetto

Io Zuanne Trivisan fui presente quanto di sopra al presente codicillo et sigillato con il sigillo del signor testatore.

Adì sudetto

Io Francesco Di Berti affermo quanto di sopra et ho sigillato con il sigillo del signor testatore.

1626 27 genaro

Ho ricevuto io Lucio Creazzo come nodaro dal molto illustriss. signor Conte Mario Capra il presente codicillo et a me esser consignato da esser appeno al suo tempo.

Vicenza, dicembre 1990

Casa al borghetto

(stampato in 230 esemplari numerati)


[1] Le vicende qui narrate si avvalgono prevalentemente della documentazione esistente in Archivio di

stato di Vicenza (=ASVi), Fondo famiglia Capra , che dispone di una serie di catastici , che rinviano all’esile materiale giunto sino a noi. Tale fondo non è comunque quello proveniente dal ramo cui apparteneva Mario Capra. Alcune copie dei tre testamenti sono contenute nella b. 18, mentre gli originali sono in ASVi, Notai di Vicenza , b. 10466. Il testamento del 1626 è autografo.

Il soffermarmi, sia pur brevemente, sulla figura di Mario Capra, trae origine essenzialmente dall’interesse rivolto ad un ben delimitato aspetto della storia dell’aristocrazia vicentina. La rappresentazione sociale, cioè, tramite cui questo ceto, radicato nelle strutture di potere locale, tendeva a configurarsi nei confronti dell’esterno. E, all’interno di questo gruppo, il rapporto che si veniva a creare tra l’identità collettiva e l’identità del singolo individuo.

[2] La bibliografia su Palladio e la villa La Rotonda è ormai imponente. Mi limito ad indicare qui alcuni dei lavori di cui mi sono avvalso: A. Magrini , Memorie intorno la vita e le opere di A. Palladio , Padova 1845; G. Zorzi , La Rotonda di Andrea Palladio , Vicenza 1911; Idem ., La Rotonda di Andrea Palladio , in «Questa è Vicenza», Vicenza 1954; C. Semenzato , La Rotonda di Andrea Palladio , Vicenza 1968; G. Zorzi , Le ville e i teatri di Andrea Palladio , Vicenza 1968; F. Barbieri , I l «Corpus» palladiano: la Rotonda , in «Arte Veneta», XXII ( 1968); R. Cevese , Ville della provincia di Vicenza , I, Milano 1971, pp. 148-163; L. Puppi , A. Palladio , Milano 1973; AA. VV ., La Rotonda , Vicenza 1988, in particolare il saggio di M. Saccardo, per il periodo e i personaggi qui affrontati.

[3] Sulla figura dell’Almerigo si è soffermato in più occasioni Giovanni Mantese, avvalendosi di una documentazione di notevole rilievo; cfr., in particolare, Tristi vicende del canonico Paolo Almerico munifico costruttore della villa «Rotonda» , in Studi in onore di A. Bardella , Vicenza 1964 e Paolo Almerico e La Rotonda , in «Rivista della Provincia di Vicenza», I-II-III, Vicenza 1967.

[4] Cfr. Cronaca di Fabio Monza , a cura di D. Bortolan, Vicenza 1888; il Monza, in data 7 maggio osservava: «Il Conte Odorico Capra ha acquistato la Rotonda, era di Mons. Almerigo, con ducati settecento di intrada fra campi et casa, per disdotto mille e cinquecento ducati. Compreda Regia a buon mercato; perché a rason de intrada viene aver investito al 4 e più per cento; et vi è di sopra la fabbrica di valuta almeno diecimille ducati con nappe dei camini de pria del paragon, et altri ornati regii».

[5] Cfr. G. Mantese , Memorie storiche della chiesa vicentina , IV, Vicenza 1974, p. 1142; il Mantese si sofferma in più di un’occasione, nel corso della sua opera, su questa figura assai interessante dell’aristocrazia vicentina (cfr in particolare pp. 1019-1020). Cognato dell’illustre viaggiatore Filippo Pigafetta (sul quale cfr. La descrizione del territorio e del contado di Vicenza , a cura di A. Da Schio e F. Barbieri, Vicenza 1974) Odorico fu tra i personaggi più influenti del ceto dirigente vicentino alla fine del secolo.

[6] Ancor più della casa, l’altare rappresentava, per i suoi profondi significati simbolici, il prestigio che la famiglia godeva all’interno della struttura di potere aristocratico e la percezione sacrale e religiosa che di esso avevano i ceti sottoposti. La memoria della Casa appariva nel monumento funebre e nella sepoltura della famiglia, sintesi suprema tra passato e presente.

[7] ASVi, Fondo famiglia Capra , b. 29, cc. 1-5.

[8] ASVi, Fondo famiglia Capra , b. 14, c. 470.

[9] Sempre Fabio Monza, nelle sue frammentarie ma puntuali annotazioni, dalle quali traspare in maniera quasi ossessiva i turbamenti che l’aristocrazia vicentina provava in quel torno d’anni, osservava, in data 13 novembre 1591: «Il Conte Odorico Capra da qualche giorno ha maritato sua figlia in Hieronimo Godi, fiolo d’Orazio; ed oggi ha fatto le nozze et banchetto et per dir vocabulo più proprio Convito di Paradiso…» (Cronaca…, cit., p. 33). Vale la pena di sottolineare, inoltre, come dalla memoria di Fabio Monza si evince che i Capra e i Godi avevano riallacciato l’alleanza che aveva subito un duro contraccolpo dal bando e dalla morte di Orazio Godi

[10] Su questi problemi cfr. alcune osservazioni in C. Povolo , Percorsi genealogici. Storie di donne in una famiglia dell’aristocrazia vicentina , Vicenza 1990. Agli inizi del ’600 il Consiglio cittadino aveva deliberato che le figlie, che erano state congruamente dotate dal padre, non potessero pretendere successivi aumenti o la quota di legittima. Ribadendo il loro diritto a subentrare come eredi nel patrimonio, qualora fossero mancati dei figli maschi legittimi, si sottolineava però la libertà del testatore di poter decidere anche altrimenti (cfr. Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, Archivio Torre, b. 210, 23.2.1600 e b. 1779, 20.5.1602). I provvedimenti miravano evidentemente a rafforzare lo spirito della Casa e ad evitare che, tramite il ricorso ai tribunali veneziani, si aggirassero le norme statutarie.

[11] Per l’analisi delle origini e degli sviluppi di una faida nell’ambito dell’aristocrazia vicentina cfr. C. Povolo , Processo contro Paolo Orgiano e altri , in «Studi storici», 29 (1988).

[12] Sull’episodio, oltre ai consueti e possibili riscontri veneziani, cfr. ASVi, Fondo famiglia Capra , b. 15, cc. 401-409.

[13] Leggi criminali del Serenissimo Dominio veneto , Vicenza 1751, pp. 63-64. Una legge, è da sottolineare, di estrema importanza, in quanto tramite il ricorso ad un intervento di natura penale si intaccavano profondamente i meccanismi giuridici che regolavano la struttura di potere nobiliare.

[14] Sul da Porto si veda la documentazione prodotta nei fondi giudiziari del Consiglio di dieci, in particolare Archivio di Stato di Venezia (=ASV), Consiglio di dieci, Comuni , reg. 38, c. 182.

[15] Si vedano, a tal proposito, le osservazioni dell’avvocato vicentino Lucillo Cereda in ASV, Consiglio di dieci, Comuni , filza 161, 2 dicembre 1586.

[16] A tal proposito si vedano le riflessioni di Giovan Battista Valmarana di Antonio nel suo testamento del 1609 in ASVi, Notai di Vicenza , b. 934.

[17] ASV, Senato, Dispacci dei rettori. Vicenza e vicentino , filza 2; ma si veda anche G.B. Zanazzo , Bravi e signorotti in Vicenza e nel vicentino nei secoli XVI e XVII , in «Odeo olimpico», VI (1966-1967), p. 263.

[18] ASV, Avogaria di comun , b. 2740: l’ufficiale giudiziario offre una dettagliata ed ammirata descrizione della Rotonda; cfr. anche Testimonianze veneziane di interese palladiano , Catalogo della mostra, Venezia 1980.

[19] ASVi, Fondo famiglia Capra , b. 17, cc. 476-487. Ecco il punto del testamento in cui Odorico ricordava il figlio Onorio: «Al signor Conte Honorio suo figliolo non lascia cosa alcuna. essendoli dall’illustriss. fisco, vivendo esso signor suo padre, statto tolto tutto quello che lui haverehbe havuto obligo di lasciarli; dechiaro però che se lui baverà figli maschi legitimi et naturali di legitimo matrimonio nati et procreati vuole et intende che essi habbiano et haver debbano quella giusta et eguale portione che haverà cadauno de gli altri suoi figlioli…».

[20] Proclama et bando dell’Eccelso Consiglio di dieci contra Honorio Capra et compagni , Venetia 1619; una copia in Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, ms. Gonz. fa 9.

[21] «Restando anco tagliato, cassato et annullato, non solo il testamento del già Conte Hodorico, padre di detto Honorio, ma ancora qual si voglia contratto, instromento. testamento o scrittura, come fatti in pregiuditio et fraude della presente confiscatione… Sia intimato alli fratelli et parenti di esso Honorio, che se da lui o suoi seguaci et dipendenti sarà fatto danno alcuno, così nelli beni propri delli offesi o loro dipendenti, come in quelli che li sono applicati per la presente deliberatione… ogni danno.., sia rifatto sopra li beni di essi fratelli et parenti». Le due case poste l’una di fronte all’altra nella Contrà di Strà , non avrebbero più potuto essere abitate da alcun parente di Onorio per trent’anni; Proclama et bando… , cit.

[22] In una lettera del 12 maggio 1619, inviata da Erenfels al fratello Giovan Alvise, lo sfortunato conte Ascanio Valmarana, che nel 1616 era stato bandito, con pena della confisca, per insubordinazione nei confronti della Repubblica, si soffermava sull’episodio: «Quanto alla questione successa tra il conte Manfredo et Gabriele Porti con il conte Honorio Capra et altri suoi parenti, me ne doglio molto, perché son sicuro che la città sarà divisa, farano tra loro delli gran mali, tanto più che li Porti sono troppo dissotto per la disgratia successa nel conte Gabriel; però converrà chi vuol vivere in Vicenza lasciar tali compagnia», Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, ms. G.4.2.6; devo la segnalazione di questo documento alla cortesia del dott. Filiberto Dal Cortivo, che ringrazio vivamente. La lettera di Ascanio Valmarana riflette il varco insanabile che s’era ormai creato tra le due Parentele.

[23] ASV, Provveditori sopra feudi , b. 979.

[24] Sui requisiti richiesti per la validità del testamento nel Vicentino cfr. A. Lorenzoni , Instituzioni del diritto civile privato , vol. I, parte seconda, pp. 82 e sgg.

[25] Si veda, ad esempio, il testamento di Giovan Antonio Polcastro steso nel 1588 in ASVi, Fondo famiglia Capra, b. 16. Alcuni anni prima, nel 1577, un altro illustre esponente dell’aristocrazia vicentina, Teodoro Thiene, aveva così motivato la scelta della primogenitura: «. ..et perché ho provato per esperienza che le divisioni delle facoltà in più casi sono principale rovina della famiglia, lascio che Cicogna tutta con le fabriche, vadi de primogenitura in primogenitura in perpetuo…», cit. in G. Mantese , La famiglia Thiene e la riforma protestante a Vicenza nella seconda metti del secolo XVI , in «Odeo olimpico», VIII (1969-70), p 140. Lo stesso Paolo Almerigo aveva stabilito, in uno dei suoi testamenti, la primogenitura sulla Rotonda, ma evidentemente con fini diversi da quelli che avrebbero mosso Mario Capra ad assumere la medesima decisione (cfr. G. Mantese , Paolo Almerico …, cit.).

A Napoli, nell’ambito dell’aristocrazia feudale, l’istituto della primogenitura inizia a diffondersi, quasi nello stesso periodo, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, cfr. M.A. Visceglia , Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna , Napoli 1988.

[26] Per questa tematica assai complessa cfr. G. Cozzi , Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII , Torino 1982, in particolare il capitolo Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento , pp. 319-410.

[27] Una disposizione che già in altre occasioni mi è parso opportuno definire «clausola difensiva», cfr. ad esempio C. Povolo , Processo contro…, cit., pp. 348-349: test. di Giovan Filippo Dalla Banca, 3 agosto 1581; Idem , Percorsi genealogici…, p. 5: tes. di Giovan Battista Valmarana, 20 gennaio 1609.

[28] Nel terzo testamento, redatto nel 1626, Mario Capra avrebbe infatti ammesso che molti dei beni confiscati al nipote Onorio, erano poi stati da lui acquistati tramite intermediario.

[29] I fatti sanguinosi, che videro come protagonista principale il sicario Iseppo Rossetto, sono descritti minuziosamente da S. Castellini , Storia della città di Vicenza , XIII, Vicenza 1822, pp. 196 e sgg.

[30] Sulle vicende di Odorico Capra di Marzio rinvio a G. da Schio , Persone memorabili in Vicenza , in Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, ms. G.6.10.1-11 e ms. G. 5.9.5.-16.

Agli inizi del ’700, in un’opera rimasta manoscritta e stesa da un membro della famiglia, la figura di Odorico sarebbe stata così tratteggiata: «Odorico Cavalier grande e ricchissimo… Seguirono tra Odorico et alcune principali famiglie di Vicenza gravissime discordie, le quali fecero larga strada a molte uccisioni e ruine; il seguito d’un gran numero d’armati che di continuo erano al fianco del Conte Odorico, la gran spesa per alimentarli eccedeva la condizione di privato Cavaliere. Trattava con gran splendidezza e generosità per acquistarsi Paura popolare e per liberarsi dall’invidie degli emuli, per questa strada camminò a sì grande reputazione, che quasi Rettor e capo della Città era da tutti riverito, corteggiato e invidiato», Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, ms. Gonz. 26.6.6.