7. I diritti successori della madre in un consulto del Seicento

Si pubblica l’opuscolo apparso nel dicembre 1995 ed incentrato su un consulto redatto dal consultore Scipione Ferramosca. La vicenda descritta si enuclea essenzialmente sulla questione inerente il sistema giuridico da applicare in una vicenda successoria seicentesca. Appare evidente che si tratta una questione emersa di seguito al trasferimento del conflitto dalla dimensione locale in cui era sorto, a quella della città dominante.

SCIPIONE FERRAMOSCA

Scrittura intorno una sentenza fatta dal vicario di San Salvador giurisdizione dei Conti di Collalto

(ovvero intorno alle leggi della Repubblica di Venezia. Anno 1633)

Consuetudini e leggi nei consulti di Scipione Ferramosca

Ben pochi personaggi vissuti nella Vicenza della prima metà del Seicento svolsero un ruolo politico decisivo e importante come quello che, a buon ragione, può essere attribuito a Scipione Ferramosca (1580-1646). Provvisto di una robusta formazione giuridica acquisita presso l’Università di Padova, nel 1601 il Ferramosca entrò a far parte del Collegio dei giudici di Vicenza[ 1 ] . Non diversamente dal padre Ettore[ 2 ] , di cui ricalcò ben presto le orme, Scipione alternò la professione di avvocato e giudice con un’intensa attività politica che lo spinse rapidamente ai vertici del ceto dirigente vicentino.

Inviato ripetutamente a Venezia per difendere le prerogative istituzionali della città, il Ferramosca si fece ben presto stimare per le sue doti di oratore e di profondo conoscitore dei complessi rapporti che univano la città berica a quella lagunare[ 3 ] .

Discendente da un’illustre famiglia aristocratica che aveva annoverato tra le sue fila numerosi giudici e giuristi[ 4 ] Scipione Ferramosca apparteneva a quella generazione del ceto dirigente vicentino impegnata, in quel torno d’anni, a superare la difficile e dolorosa fase di ridimensionamento politico subito dalla città negli ultimi decenni del Cinquecento. Tra il 1610 e il 1620 erano venuti a mancare alcuni dei protagonisti più significativi di quel contrastato periodo: Leonardo Valmarana, Odorico Capra, Pompeo Trissino, Alvise da Porto e lo stesso Ettore Ferramosca. Si trattava di uomini che avevano vissuto intensamente la dimensione politica europea nella quale molte antiche famiglie aristocratiche vicentine si erano orgogliosamente proiettate nel corso del Cinquecento, ma che avevano pure assistito, impotenti, alla progressiva ed inarrestabile perdita dell’antica identità politica della città ad opera del brusco inserimento delle magistrature veneziane nella sua vita istituzionale. Tra gli esponenti di rilievo del ceto dirigente vicentino di questo periodo Scipione Ferramosca si distinse da subito per le sue indubbie capacità politiche, rivolte a salvaguardare quanto era sopravvissuto dell’autonomia giurisdizionale della città e ad intensificare i rapporti di amicizia e di patronato con il potente patriziato della città dominante.

Il profilo, ancorché agiografico, tracciato dopo la sua morte dal padre Francesco Barbarano[ 5 ] , evidenzia nell’aristocratico vicentino le caratteristiche personali e le qualità politiche di un uomo che aveva trascorso la sua vita al servizio di una carriera individuale e familiare il cui traguardo, pure rivolto al di fuori degli angusti ed ormai inconsistenti confini cittadini[ 6 ] , si era definitivamente collocato nella Dominante e nella superiore condizione di status del suo ceto dirigente[ 7 ] .

Inserita in profondità nella vita sociale politica vicentina l’attività personale e pubblica di Scipione Ferramosca raggiunse infatti i suoi momenti più significativi nella città lagunare, a stretto contatto di quel mondo che, seppure tendenzialmente estraneo alla sua forma mentis di giurista, rappresentava l’approdo inevitabile ed ambito di una carriera indefessamente consacrata all’ascesa della Casa in cui egli era stato cresciuto ed educato.

Uomo aduso alla mediazione e alle trattative, il Ferramosca intravide nel nuovo clima politico e sociale dominato dall’emergere della ricchezza e dall’indebolimento delle tradizionali gerarchie basate sull’antichità della nobiltà, una concreta possibilità di inserimento nell’ambito del ceto dirigente lagunare.

Divenuto consultore in iure della Repubblica l’aristocratico vicentino ebbe l’occasione di affrontare diversi problemi, spesso d’indubbia rilevanza politica, che via via il Collegio sottopose alla sua attenzione. Sulla scia di una ormai consolidata tradizione che trovava il suo punto di riferimento nella figura e nell’opera di Paolo Sarpi[ 8 ] , il Ferramosca improntò i suoi consulti ad una pronunciata nozione di sovranità e di giurisdizione statuale, senza tuttavia rinunciare agli schemi interpretativi e mentali provenienti dalla sua formazione di giurista imbevuto di quella sapienza giurisprudenziale che ancora caratterizzava intensamente il mondo di diritto comune[ 9 ] .

Tali aspetti emergono vividamente nella scrittura qui pubblicata e scritta nel 1633 agli inizi quindi della sua attività di consultore. Richiesto di fornire un parere intorno ad una complessa causa successoria avviatasi nella giurisdizione di Collalto, il Ferramosca coglie l’occasione per affrontare uno dei temi allora più controversi nell’ambito del ceto dei giuristi di Terraferma.

Dopo aver riassunto rapidamente i termini della causa il giurista vicentino sgombra rapidamente il campo da ogni ambiguità sottolineando come la questione possa essere risolta in via di principio da una decisione dei supremi organi giudiziari della Dominante, i quali, in virtù della loro superiore legittimità politica, sono in grado di pronunciare le loro sentenze senza entrare direttamente nelle specifiche ragioni dei contendenti:

“..la quale decisione abbia poi forza di legge come hanno le sentenze fatte da’ prencipi supremi, senza ascoltare la madre che ha ottenuta sentenza a suo favore e senza penetrare nelle ragioni della comunità di San Salvadore o nell’autorità delli signori conti di Collalto o nelli statuti di tante città suddite..”

Ma il Ferramosca non sembra assegnare molto affidamento a questa possibilità[ 10 ] . Gli statuti delle città di Terraferma, confermati dalla Serenissima, godono infatti di una propria gerarchia delle fonti, che rinvia, nei casi omessi, a quel diritto comune imperiale che di certo non può essere confuso con gli statuti di Venezia[ 11 ] :

“E quando ha approvati e confirmati l’munita sapienza di Vostra Serenità, a cui é notissimo che vi sono leggi civili e li statuti di Venetia; quando, dico, ha approvati e confirmati li statuti delle città suddite fatti innanzi o dopo la deditione loro, i quali si rimettano alle leggi civili, ben ha mostrato essere sua mente che queste leggi civili siano parte delli medesimi statuti e diventino leggi della Serenità Vostra, come da lei confirmate et approvate”.

Non diversamente da altri giuristi di Terraferma Scipione Ferramosca sembra rivendicare la legittimità giuridica del diritto comune giustinianeo e, indirettamente, l’autonomia politica delle città suddite della Terraferma. In realtà il suo discorso giuridico, abbandonando i Consueti stilemi linguistici, rivela infine la maggiore complessità che il dibattito sulla gerarchia delle fonti aveva ormai raggiunto nel corso del Seicento:

“Né restiamo di dire alla Serenità Vostra che ella con la suprema sua autorità ha fatte tre sorti di leggi. La prima é il statuto di Venetia, con cui si regge questa città dominante et il Dogado. La seconda sono gli statuti da Vostra Serenità confirmati, con cui si reggono le città suddite. La terza sono quelle leggi universali che si pubblicano per tutte le città e si registrano ben spesso nelle commissioni degli illusirissimi rettori. Queste ultime sole e non altre sono quelle che così commettendo Vostra Serenità possono derogare alli statuti delle città suddite”.

Venezia, dunque, esprimeva la sua sovranità tramite le proprie leggi universali, emanate per tutto lo stato e la cui esecuzione veniva affidata ai rettori. Erano tale leggi ad agire in deroga agli statuti di Terraferma e non gli statuti di Venezia.

Il giurista vicentino sembra suggerire come fosse ormai superato il punctum dolens del dibattito ancora in corso. Con la sua legislazione, via via infittitasi ed estesasi ad una grande varietà di problemi. la Repubblica non aveva tanto affermato la preminenza di un peculiare diritto (gli statuti di Venezia) sugli iura propria della Terraferma, quanto piuttosto la superiore legittimità (e sovranità) di un diritto gradualmente applicato a tutto il Dominio. Tale legislazione, proprio perchè di carattere universale, aveva superato lo scoglio degli antichi particolarismi, vincolando la stessa Dominante alle decisioni assunte[ 12 ] .

Pur provvista di accenti nuovi la scrittura del Ferramosca non rinuncia però agli schemi argomentativi tradizionali e tipici del giurista appartenente al ceto aristocratico di Terraferma. Nonostante si muova sul delicato terreno della sovranità e della giurisdizione del Principe egli non rinuncia, in questo come in altri consulti, a sottolineare indirettamente il particolare rapporto che si è ormai instaurato tra governanti e governati. Come nella pregevole scrittura sui confini, in cui affronta la natura dell’atto giurisdizionale:

“…atto che non sia giurisdicionale non può turbare o far pregiudicio alla giurisdicione. Alcuni di questi atti sono cli tal natura che non possono essere fatti se non dai Prencipi o di commissione loro. Per esempio piantar forti, custodia de’ confini, nuovi dacii..Altri atti sono di tal sorte che senza il Prencipe o senza sua particolare commissione possono essere fatti dai magistrati inferiori che lo rappresentano, come processi, proclami, sentenze et altre cose simili; i quali atti se ben dipendono dal Prencipe, in quanto il Prencipe é la vita et il fonte delle giurisdicioni infe. non, possono con tutto ciò senza particolar ordine di lui esser essercitati, non altrimenti che possa una mano da se stessa muoversi senza particolar consenso del cuore, benchè il fonte et il principio della vita sia il cuore…”[ 13 ].

Scipione Ferramosca. attraverso i consulti scritti intorno ai più svariati argomenti, coglie costantemente il nesso sottile ed incerto che unisce la sovranità del Principe alle prerogative dei centri sudditi e la loro reciproca interdipendenza. Per il giurista vicentino l’indubbia preminenza della sovranità statuale non si scinde infatti dal quel mondo composito, vivo e dotato di una propria identità qual é il dominio di Terraferma. Se la legislazione della Dominante ha un’indubbia preminenza, difficilmente essa è però in grado di supplire alla complessità delle istanze che muovono dalla società e a cui solo l’elaborata lezione del diritto comune è in grado di fornire le risposte adeguate: Appare difficile, se non pericoloso, superare quello che più che un diaframma appare ormai come un peculiare e complesso rapporto, non in grado, per la particolare natura politica dello stato veneziano, di intraprendere le vie più battute in altre realtà italiane[ 14 ] . Tali aspetti emergono chiaramente nel bel consulto steso intorno alla precedenza del Cancellier grande, in cui il tema della consuetudine, caro al Ferramosca, viene assunto come chiave interpretativa della specifica natura della legislazione veneziana:

“Le leggi sono di due sorti scritte e non scritte. Con le scritte si governò già Athene secondo gli ordini di Solone e con le non scritte Sparta secondo la consuetudine di Licurgo. Tutte però sono leggi ma perchè le leggi scritte procedono dalla assoluta volontà del Prencipe, a cui conviene, voglia o non voglia, il popolo ubbidisca e la consuetudine d una legge che il popolo con l’assenso del Prencipe da se stesso si impone, fu chi per tal rispetto comparò al re la consuetudine et al tiranno la legge scritta. Hor sia come si voglia la Serenissima Republica appoggia il sapientissimo suo governo all’una et all’altra di queste due sorti dileggi. La consuetudine s’ella è giusta é sempre tanto più forte quanto é più antica et allhora é fortissima quando é immemorabile, non si perde col tempo, anzi s’affina col tempo. mentre l’esperienza le mostra con la frequenza degli atti sempre più ragionevole e migliore.. Fa forza alla raggione chi sforza la consuetudine: non deve il Principe levarla, non é credibile che voglia levarla. Tutte le novità che s’introducono possono produr disordini, ma quelle indubitamente che quando sono introdotte sovertiscono tutt’i buoni ordini..”.[ 15 ]

Il consulto, come si é detto, riguardava, questioni di precedenza in cui era coinvolto il Cancellier grande. Ma nelle parole del Ferramosca sembra di leggere in filigrana quel leit motiv che ritroviamo in molti dei suoi consulti: il controverso rapporto tra il diritto veneto e il diritto (o i diritti) delle città suddite. Ma che cos’altro erano ormai gli statuti delle città suddite se non un’antica – ancorché consolidata ed illustre – consuetudine?

Claudio Povolo

Vicenza, 11 dicembre 1995

Di Scipion Ferramosca D. Cavalier e consultor del Serenissimo Dominio [ 17 ]

Per degnamente scrivere di Scipion Ferramosca celeberrimo Giureconsulto, honoratissimo Cavalier e singolarissimo Consultor del Serenissimo Dominio Veneto bisognerebbe che la mia penna fosse temperata e guidata dalla stessa mano del medesimo Scipione. il quale veramente meritò il nome di Magno, anzi massimo, molto più che il Romano cognominato dalla domazione dell’Africa fu detto Africano, non tanto per le meravigliose opere fatte in utile della sua patria, quanto per le sue ammirabili virtù cristiane, anzi religiose, per il che vivendo nel Secolo menava una vita molto più perfetta che alcuni Regolari non fanno ne sacri Chiostri legati a Dio con tre voti solenni.

Mi confesso inhabile ad esprimer non solo, ma inoltre anco ad insinuar gl’encomj di quest’huomo prodigioso da me conosciuto, veduto, praticato e ammirato come cosa sovra humana: dirò nondimeno quanto saprò, sebbene sempre resterà molto che dire in ogni genere d’esso, poiché in qualunque fu singolarissimo.

Nacque Scipione in Vicenza l’anno 1580 il giorno 21 di Settembre. Suo padre si chiamò Hettore, eccelentissimo Giureconsulto, che molti anni fu Giudice Assessor nelle principali Città dello Stato Veneto, e con grande prudenza, non meno che integrità, esercitò tale carico e poscia dal Senato Veneto fu fatto Cavalier con donargli una Colanna di scudi 300.

La madre hebbe nome Ippolita de’ Fortezza, nobili di Vicenza, donna di gran valore. Hebbero questi due coniugati cinque figli maschj, Orazio, Scipione, Fabio, Gieronimo e Giacomo. De quali solamente Orazio prese moglie, con la qual hebbe cinque altri maschi. Scipione e Gieronimo attesero alle Lettere e s’addottorarono in utroque jure. Giacomo, dopo haver studiato leggi ed esser vicino ad addottorarsi, si fece Cappuccino e si chiama P. F. Giovan Battista predicatore, il quale con esser stato prima Lettor sette anni e poi Provinciale tre, molti anni Guardiano di Verona, Vicenza, Padova e Venezia e Diffinitor, grande honore tuttavia apporta sì alla patria come alla famiglia tutta.

Questa sì nobile e virtuosa discendenza viddero li sopraddetti due coniugati prima che passassero all’altra vita, come fecero Hettore del e Ippolita del..,.

Scipione imparò l’humanità nella patria, poi attese alle belle Lettere, nelle quali per la vivacità dell’ingegno divenne celeberrimo. Poscia dedicossi alli studj legali, de quali nella Città di Padova l’anno conseguì l’aureola del Dottorato e ritornato alla patria s’impiegò nel trattare cause civili e criminali. Subito si conobbe la sua profonda scienza nel consigliare, facondia, eloquenza e energia nell’orare presentando a Giudici le cause de suoi Clienti con maravigliosa vivezza di ragioni, onde ad esso, come ad Oracolo Delfico concorreva tutta la Città, dalla quale hebbe moltissime volte tutti quegli honori e carichi soliti darsi a più cospicui Cittadini. Ed egli la protesse in modo che veramente Padre della patria può chiamarsi, siccome per quanto fece contro di Marostica pienamente si conosce.

Sì per questa, come per altre azioni pubbliche che Scipione fece in Venezia (quali per brevità tralascio) s’acquistò tanto nome che quando si sapeva che dovesse parlare tutto il popolo lasciava qualunque importante negozio per udirlo e crebbe in sì gran riputazione che Sua Serenità l’elesse per Consultor di stato, creandolo Cavaliere del Pregai (favore a pochissimi concesso) l’anno 1620, sebbene prima era Cavaliere di San Marco, dandogli una Colanna di 200 Scudi e lo mandò a’ confini con lo stato di Milano, in ché si portò egregiamente con somma eloquenza e ragioni, mantenendo le giuste pretensioni del suo Principe, il che pure fece nel Ferrarese, dove fu inviato l’anno….per la stessa causa, con maraviglia de più celebri Giureconsulti Milanesi e Pontifizi, delle quali opere ne riportò dalla Repubblica preziosissimi doni d’argento e oro e più di cento Scudi al mese, mentre stava in Venezia per ordinar le scritture del Senato.

La Città di Vicenza donò a Scipione, per l’accennata vittoria riportata in Senato contro Marostica, una Colanna di 100 Scudi, la quale rifiutò dicendo esser obbligato servir la patria senza premio, sebbene finalmente per forza gli fu fatta pigliare.

Havendo speso molti anni nell’avvocare poi si ritirò in parte solo parlando in difesa degl’accusati, sebbene come arbitro decideva molte cause civili, che in esso erano compromesse, accettandole per carità, non per alcun guadagno, siccome per la medesima s’intrometteva nel pacificare i discordi, nel che fu singolarissimo. trattando con tanta gentilezza che s’obbligava qualunque e gli persuadeva quanto desiderava.

Stato così certo tempo, determinò ridursi a miglior vita (benché sempre havesse vissuto virtuosamente) perciò entrò nell’Oratorio di S. Gieroninio. sottoponendosi a tutte quelle mortificazioni che in esso si costumano, delle quali a suo luogo nel quinto libro dirò qualche cosa. Questa risoluzione fu a tutta la Città sì esemplare che ad imitazione di Scipione v’entrarono molti altri principali Gentiluomini di Vicenza, non sdegnando, anzi santamente ambendo, d’andare ogni settimana con la Cassella per le pubbliche piazze chiedendo limosina per i poveri infermi e poi portandogliela sino alle proprie case, nelle quali senza schiffo, sebbene puzzolenti, entrava; e se la limosina datagli per dispensare gli pareva picciola rispetto al bisogno d’alcuni, suppliva egli della propria borsa, e soleva chiamare i detti poveri Fratelli quali con dolcissime parole consolava, onde pareva che sotto la lingua portasse il miele.

Fu anco alcune volte Capo di detto Oratorio, nel qual tempo sermoneggiava come al Capo si conviene, con tanto spirito che infiammava tutti li Fratelli del divino amore, né poteva succedere altrimenti, essendone lui tanto ardente, come chiaro si vede da 52 discorsi che, currenti talamo, scrisse sopra d’alcune sentenze della Sacra Scrittura, quali appresso di me come preziosissimo tesoro conservo. E quantunque sì nel sermoneggiare a Fratelli come nello scrivere proccurasse d’usar semplici parole e un ordinario stile, nondimeno la naturale sua eloquenza non permetteva che fosse rozzo, né impolito.

Havendo con spirituali esercizj dell’Oratorio fatto un grosso peculio di meriti, piacque a Dio di dargli il premio, il quale acciò fosse più copioso gli mandò una lunga infermità, da lui sostenuta con somma pazienza. Per essa si ridusse con la sola pelle sopra l’ossa. In questo tempo non ammise alcuna visita che del Confessore e Medico e sempre si faceva dal Fratello Gieronimo legger qualche libro spirituale. Finalmente ricevuti con gran sentimento di divozione li Santissimi Sacramenti. diede a Dio l’anima sua l’anno 1646 alli 16 di Febbraro, circa le hore 24. dopo havere udito con grande attenzione il Passio di San Giovanni e risposto nel suo fine Amen, il che dicendo spirò e il giorno seguente fu seppellito in San Biasio vestito da Cappuccino, come nel suo testamento haveva ordinato.

Resta insinuare le sue virtù e primamente nella giudicatura civile fu giustissimo. dando a ciascheduno quanto per giustizia distributiva o commutativa gli si doveva; e per non errare con indicibile diligenza studiava le scritture ed attentamente udiva le ragione d’ambe le parti. Nella giudicatura criminale, siccome nelli casi accidentali fu molto pietoso, così nelli maliziosi o consuetudinari fu piuttosto rigoroso (però sempre fra i limiti della giustizia) sapendo che questi tali con pietoso castigo restano animati al recidivo negli stessi delitti e col rigore s’emendano.

Della castità fu zelantissimo e certamente si tiene che in tutta la vita sua giammai commettesse peccato carnale non solo con l’opera, ma ne anco col desiderio. Haveva verso le Donne antipatia sì grande che quasi non poteva vederle, onde bisognando di trattar con alcune teniva gl’occhi bassi agguisa di ben morigerato Religioso, senza manco vederle in faccia.

Nel parlare fu tanto circompetto che innanzi di proferire la parola osservava quanto San Bernardo avvisa di mandarla primieramente alla lima che alla lingua, perché maturamente pensava quello doveva dire per non errare, benché incautamente; anzi fu osservata una cosa singolare che giammai s’udì mormorare d’alcuno, ma non potendo dir bene taceva. Udendo alcun Predicatore lo lodava delle buone parti che haveva e col silenzio celava le cattive, cosa in vero maravigliosa, dicendo l’ Appostolo: Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir.

Fu inoltre pietosissimo verso i poverelli, a quali dispensava largamente limosine, come si é detto, né manco fu sollecito all’orazioni, nelle quali spendeva molte hore del giorno e la sesta dopo il pranso andava nella Chiesa ad insegnare a fanciulli la dottrina Cristiana non solo, ma il Pater e l’Ave Maria, con incredibile maraviglia di chi lo vedeva e lo conosceva per huomo sì dotto, ricco e sublime. Ogni giorno anco da Padri Teatini si faceva dire una messa, per la quale loro dava di limosina tre ducati alla Settimana. Spesso si confessava e comunicava oltre la consuetudine dell’Oratorio, al quale indusse anco il Fratello Gieronimo e i Nipoti.

La virtù della pazienza in esso fu molto celebre, non solo sopportando pazientemente l’infermità e altri travagli, ma inoltre le stesse ingiurie delle quali hebbe gran copia. E quantunque potesse e sapesse vindicarsene, non però volle, memore di quanto Cristo dice: diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos ecc.

Quanto al mangiar e bever si può dire che la sua vita fosse una perpetua e austera penitenza, poiché mangiava pochissimo e cibi ordinarj. Essendogli donato alcun cibo prezioso (il che spesso avveniva) come Trutte, Carpioni, Francolini, Pernici, Faggiani e simili, secretamente li faceva vendere e a poveri dispensava il denaro cavato. Nelle ultime infermità hebhe dalli Canonici di Vicenza, de quali haveva aggiustato una gran lite, un presente degno di chi lo mandava e a chi era mandato di Francolini, Pernici e altri uccelli di gran valuta e in molta copia. Voleva il fratello Gieronimo che ne mangiasse, ma egli rispose: in tutta la mia vita non ho usato tali cibi, non voglio cominciar ne anco addesso nel fine, fatteli vendere e a poveri donate il prezzo, giacché non si possono rifiutare a chi li ha mandati, che così non mangierò io in un pasto quanto a bisognosi servirà per molti giorni.

Nel vestire fu sempre, ma specialmente dopo entrato nell’Oratorio, positivo come anco nella servitù di casa, rare volte portando quelle preziosissime Colanne donategli dal Serenissimo Principe, né usando le vesti di Seta e Veluto che per l’innanzi s’era fatto, siccome ne anco mai adoperò quei bacini o catini d’argento donatigli da Sua Serenità, ma in Palazzo e in mezzo ad una ricchissima suppellettile viveva più poveramente che molti Religiosi non vivono ne’ Chiostri.

Ma soprattutto rende maraviglia che, havendo sì per la nascita come per la robba eloquenza ed applauso universale, tante occasioni d’insuperbirsi e vanagloriarsi, nondimeno conservasse una indicibile humiltà, per la quale non solo vivendo fuggì qualunque strepito popolare, ma inoltre non volle ne anco dopo morte alcuna ostentazione e per tanto comandò d’esser seppellito con l’habito da Cappuccino alle due hore di notte col solo Parroco di San Eleuterio e due frati di S. Biasio senza far suonar le Campane della Città, come a nobili Vicentini si costuma, sebbene ciò fu fatto d’ordine detti Signori Deputati per honorar sì degno e meritevole Cittadino tanto benemerito della Patria.

Finalmente per concluder fu ditale purità di coscienza, massime nell’ultima malattia che per intieramente confessarsi anco de peccati venialissimi, come sono i primi moti d’impazienza, li faceva scriver da suo Fratello Gieronimo; dacché si può argomentare quanto fosse lontano da mortali, dicendo Cristo che chi è fedele nelle cose minori sarà similmente nelle maggiori: qui in modico fidelis est el in majori fidelis erit. Per il che molto probabilmente si può credere che hora godi la gloria del Paradiso e poco tempo sii stato nelle pene del Purgatorio, per non dire che dirittamente sii dalla terra volato al Cielo.

Tanto basti haver scritto in lode di Scipione, sebbene (come dissi da principio) per molto che si scriva sempre resterà che dire: e chi volesse distintamente narrare le sue azioni pubbliche, come quante volte per interesse della Patria volasse a Venezia, quanto s’affaticasse in servizio del Serenissimo Dominio, l’orazioni che recitò, le dispute che fece, le lettere volgari e latine che scrisse, l’opere che compose, i consulti che diede, le differenze che terminò, le discordie che conciliò e altre cose memorabili, scnverebbe un grosso volume.

Alcuni giorni dopo la sua morte il Commendatore Pietro Paolo Bissaro nel Teatro (a che concorse tutta la città) recitò in lode di Scipione una elegantissima e ingegnosissima Orazione, provando che morto viveva e che vivendo era morto. Furono anco fatti varj versi.

Consulti di Scipione Ferramosca [ 18 ]

1) Nel fatto si supone che il brigantino al quale é stata tolta la fregata sia di corsari maltesi. Che vi siano corsari maltesi io non lo so. ben so che le galere et altri vascelli di Malta possono prendere e spogliare i Turchi..(senza data)

2) La rissolutione della difficoltà proposta, a mio parere depende dalla verità delli seguenti punti. Primo: degli hospitali come delle chiese può alcuno havere il jus patronato. Secondo: il Serenissimo Prencipe ha il jus patronatus dell’hospital della Pietà di Venetia. (27 marzo 1638).

3) Supplicano Vostra Serenità gli illustrissimi et eccelentissimi signori governatori dell’hospitale della Pietà di poter concorrere all’acquisto della possessione di Torre di Mosto lasciata dal quondam domino Francesco de Franceschi..(20 aprile 1638).

4) La supplica di Michiel Minozzi. sopra la quale Vostra Serenità ci commanda che diciamo il parer nostro contiene materia di momento e degna delle sue sapientissime deliberationi.. E’ morto Pietro Minozzi, la heredità del quale de ducati 3000 in circa é pretesa da Eugenia sua madre..(primo luglio 1633).

5) Serenissimo Principe. Riverita prima la maestà della Serenità Vostra che si é degnata di commandarmi e poscia la eminente virtù del signor Baitelli, dal quale Vostra Serenità é stata informata a pieno, restringo a tre punti il mio breve discorso: ragioni, novità, remedi. Quanto alle raggioni la Serenità Vostra ha il dominio che é proprio del Prencipe nella città di Brescia e suo territorio..( 10 agosto 1639).

6) Serenissimo Prencipe. A due capi si riducono le scritture sopra le quali si degna Vostra Serenità commettermi che io dica il mio parere. li primo é il mandato e l’editto fatti da monsignor illustrissimo vescovo di Brescia gli anni 1637, 1638..Quanto al primo il mandato 1637 3 settembre contien tre cose: titoli di dignità temporale, duca, marchese, conte, caducità de’ feudi, emphitheusi e livelli..(28 luglio 1639).

7) Serenissimo Prencipe. Sopra il mandato fatto da monsignor illustrissimo vescovo di Brescia al procurator della mensa episcopale 1637 3 decembre e sopra l’edito intimato a tutti i feudatarii, emphiteusii e livellari…(primo settembre 1639).

8) Serenissimo Prencipe. Portano a Vostra Serenità le lettere dell’eccelentissimo signor ambasciatore Cornero 7 e 14 ottobre prossimo passato il desiderio di madama serenissima di Savoia di vedere pienamente sodisfatta la Serenità Vostra sopra il libro de l’auttorità dei titoli regi pretesi da quella altezza e delle risolutioni del regno di Cipro..(2 dicembre 1639).

9) Serenissimo Prencipe. Sono stati finalmente esseguiti da noi, dopo vedute le scritture i commandamenti della Serenità Vostra..Poiché gli ordini dati dalla Serenità Vostra per li vascelli che capitano nella sacca di Goro e per le pescaggioni di quel mare..(3 giugno 1632).

10) All’eccelentissimo signor cavalier Alvise Valeresso savio del Consiglio. ..Non vuole la Serenissima Republica né deve volere ampliare il suo stato. né dalla parte del mare, né dalla parte della terra. Non hebbe mai questa pretensione contra i duchi di Ferrara, principi grandi sì, ma che si glonavano di havere la protettione della Republica…(21 marzo 1633).

11) Serenissimo Prencipe. Due cose habbiamo da discorrere per riverente et humile esecutione delli commandi di Vostra Serenità. La prima se sia lecito al sommo Pontefice fabricare un forte a Melara. La seconda se possa tirare una catena che traversi il fiume Po nel contorno di Bergantino..(13 novembre 1641).

12) Serenissimo Prencipe. Avisano Vostra Serenità gli eccelentissimi signori generali di Palma Civran e Zeno con lettere delli 3 giugno e 28 settembre prossimi passati che la Chiesa del Domo e l’altar maggiore eretto dalla Scola del santissimo sacramento et il tabernacolo et altro altare effetto dal piovano non sono consecrati..(7 novembre 1645).

13) Serenissimo Prencipe. Merita gran laude il signor Theodoro Gransurinchel il quale ha tanto

a cuore le raggioni di Vostra Serenità e ben é degno premio della sua gran virtù che dalla

Serenissima Republica sian gradite le sue eruditissime fatiche. 1 ho già veduto il cap. XI

del libro terzo Vindiciarum mans liberis che egli dissegna mettere alle stampe..(15 agosto

1637).

14) Serenissimo Prencipe. Negli stati della maestà cesarea da alcuni anni in qua sono stati accresciuti triplicatamente più del solito i dacii sopra il sale che dall’istria cavato nelli medesimi stati vien introdotto..(19 marzo 1640).

15) Serenissimo Prencipe. La esecutione dei comandi di Vostra Serenità sopra gli affari di Monfalcone dipende dalla rissolutione di due principali punti. Il primo contiene la forma del sindicato. Il secondo l’effetto che ne può seguire..(12 aprile 1642).

16) Serenissimo Prencipe. Sopra le lettere dell’illustrissimo signor Proveditor de Cividale di Friuli delli 7 marzo …ho havuta consideratione e quello che io ne senta brevemente é questo…che li confini del Stato di Vostra Serenità da quelli del Serenissimo Arciduca fossero già divisi..(12 aprile 1634).

17) Serenissimo Prencipe. Contengono li due proclami, l’uno della giuridizione di Presenino e l’altro di Goritia di materie di momento, mentre che toccano il Dominio, la navigatione, i datii e la pescagione del fiume Stella…(30 giugno 1642).

18) Serenissimo Prencipe. Obbediente ai commandi della Serenità Vostra discorrerò delle Reggie raggioni della Serenissima Republica..Instano i serenissimi elettori del Re de’ romani che dall’eletto imperatore Ferdinando terzo se li decreti la precedenza innanzi a tutte le republiche..(6 dicembre 1640).

19) Scrittura di precedenza dell’illustrissimo signor Cancellier grande di Venetia (senza data).

20) Scrittura in proposito delli canonici di San Marco di Venetia (senza data).

21) Scrittura in proposito de’ confini (senza data).

22) Scrittura in proposito del sepolcro del Doge Michiel..(senza data).

23) Scrittura agli eccelentissimi signori Avogadori..sopra la prova del Serenissimo Magior Consiglio domandata dal signor Nicolò Bragadino da Rettimo..(febbraio 1635).

24) Discorso in materia di libri prohibiti (senza data).

25) Scritture di difesa per l’illustrissimo signor Giovanni Grimani (senza data).

26) Scritture per gli illustrissimi rettori da mandare nell’eccelentissmo Senato (senza data).

Note

1. Archivio di Stato di Vicenza, Corporazioni soppresse, busta 2784, c. 5v: ingresso nel Collegio dei giuristi di Scipione Ferramosca in 2 sostituzione del defunto Antonio Vaienti.

2. Su Ettore Ferramosca e la sua famiglia cfr. C. Povolo. Percorsi genealogici. Storie di donne in una famiglia dell’aristocrazia vicentina, Vicenza 1990.

3. Nel 1614 il Ferramosca venne instruito a Venezia per opporsi alle pretese giurisdizionali della cittadina di Marostica. Sul suo discorso cfr. Archivio di stato di Venezia, Senato, Terra. filza 209; ed inoltre quanto riportalo dal Barbarano nel suo medaglione (cfr. in appendice).

4. Nel fascicolo processuale istruito nel 1611 per l’ingresso del fratello Girolamo al Collegio dei giudici di Vicenza furono elencati i numerosi membri della famiglia che vi avevano fatto parte dalla seconda metà del ‘400: Ferramosca e Girolamo di Baldassarre rispettivamente nel 1473 e 1489; Antonio di Cardino, 1499; Galeazzo di Francesco, 1526; Girolamo di Vincenzo, 1536: Ettore di Giacomo (padre di Scipione e Girolamo), 1560; Francesco di Galeazzo, 1568 in Archivio di stato di Vicenza. Corporazioni soppresse, b. 2840

5. Cfr. in appendice.

6. Dei cinque figli maschi di Ettore Ferramosca e Ippolita Fortezza solo Orazio si sposò. In tal modo il patrimonio familiare si consolidò permettendo a, nipoti di Scipione di raggiungere il tanto ambito inserimento nell’ambito del patriziato veneziano dietro il versamento della rilevante somma di 100.000 ducati. cfr. Archivio di stato di Venezia, Avogaria di comun, busta I.

7. Dopo la morte di Scipione, il fratello Girolamo divenne l’artefice dell’inserimento della famiglia Ferramosca nell’ambito del patriziato veneziano. Sono significative, a tal proposito, le annotazioni da lui scritte in una sua lettera del 1652: “questa nobiltà veneta é inestimabile e giuro a Dio che piuttosto che ritornare a Vicenza e restarne privo mi adatterei a vivere con cento miserabili ducati l’anno..: é pur una bella cosa il passare da un estremo all’altro e poter dire io era sudito ora più non lo sono e li miei possono avere tutti li onori, anche il Principato. Chiusa questa porta li miei discendenti saranno sudditi in eterno, comandati fin dal camerlengo..”, cfr. Biblioteca civica Bertoliana, ms. 35. Osservazioni che suggeriscono come, superato il tradizionale diaframma tra Dominante e Dominio, l’emergere della ricchezza, in molti casi, non potesse più essere contenuto e veicolato all’interni, dei rapporti di patronato.

8. Sulla figura dei consultori in iure cfr. A. Barzazi, I consultori in iure, in Stona della cultura veneta. Il Settecento, 5/Il, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi. Vicenza 1986, pp. 179-199.

9. Sul ruolo dei giuristi interpreti e il mondo del diritto comune cfr. R. Van Caenegem. Introduzione storica al diritto privato, Bologna 1995. pp. 53 e sgg.

10. Additata invece come un dato incontestabi1e, sul finire del Cinquecento, dal giurista Angelo Matteazzi nella sua De vita et ratione artificiosa iuris universi (edita a Venezia nel 1591 e dedicata al procuratore di San Marco Giacomo Foscarini).

11. Contestando che con il termine diritto comune si possano intendere gli statuti di Venezia il Ferramosca riprende argomentazioni che già da qualche decennio erano assai diffuse tra i giuristi di Terraferma, cfr. C. Povolo, Il giudice assessore nella Terraferma veneta, in L’assessore. Discorso del sig. Giovanni Bonifaccio, a cura di C. Povolo. Pordenone 1991, pp. 5-38.

12. Sul rapporto tra diritto veneto e diritto comune nei secoli XVII e XVIII cfr. G. Cozzi, Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento, in Idem, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982.

13. Archivio di stato di Venezia, Consultori in iure, busta 79ter.

14. Si veda intorno a questi problemi L. Mannori, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel Principato dei Medici (secc. XVI-XVIII), Milano 1994

15. Cfr. Archivio di Stato di Venezia, Consultori in jure, busta 791ter

16. A.S.V., Consultori in iure, busta 530: un’altra copia del consulto esiste nella busta 79bis. Questo, come alcuni altri consulti, venne sottoscritto anche da Ludovico Baitelli. Che sia opera del Ferramosca sembra fuori di ogni dubbio, in quanto venne pure inserito nel copiario dei consulti attribuiti al giurista vicentino

17. F. Barbarano de Mironi, Historia ecclesiastica della città, territorio e diocesi di Vicenza, iv. vicenza 1760, pp. 306-313. L’opera, pubblicata in più riprese, venne scritta nei primi anni ‘50 del Seicento. Il Barbarano, seppure da una prospettiva alquanto particolare, offre dunque una testimonianze diretta ed informata dell’attività di Scipione Ferramosca. Sul Barbarano cfr. G. Mantese, Lo storico vicentino p. Francesco da Barbarano 0.F.M. Cap. 1596-1656 e la sua nobile famiglia. in “Odeo olimpico”, IX-X. 1973, pp. 27.137

18. Archivio di Stato di Venezia, Consultori in lure, buste 79bis e 79ter, copiario dei consulti di Scipione Ferramosca. Nella busta 791ter oltre ai consulti indicati sono trascritti anche alcuni pareri del Ferramosca stesi in occasione di alcune controversie d’onore. Dei consulti senza titolo si riportato il brano iniziale per evidenziare il loro contenuto. Per un altro elenco parziale cfr. la b. 530.

Si pubblica, in questo e nel successivo punto, l’opuscolo apparso nel dicembre 1995 ed incentrato su un consulto redatto dal consultore Scipione Ferramosca. La vicenda descritta si enuclea essenzialmente sulla questione inerente il sistema giuridico da applicare in una vicenda successoria seicentesca. Appare evidente che si tratta una questione emersa di seguito al trasferimento del conflitto dalla dimensione locale in cui era sorto, a quella della città dominante.SCIPIONE FERRAMOSCAScrittura intorno una sentenza fatta dal vicario di San Salvador giurisdizione dei Conti di Collalto(ovvero intorno alle leggi della Repubblica di Venezia. Anno 1633)Consuetudini e leggi nei consulti di Scipione FerramoscaBen pochi personaggi vissuti nella Vicenza della prima metà del Seicento svolsero un ruolo politico decisivo e importante come quello che, a buon ragione, può essere attribuito a Scipione Ferramosca (1580-1646). Provvisto di una robusta formazione giuridica acquisita presso l’Università di Padova, nel 1601 il Ferramosca entrò a far parte del Collegio dei giudici di Vicenza[ 1 ] . Non diversamente dal padre Ettore[ 2 ] , di cui ricalcò ben presto le orme, Scipione alternò la professione di avvocato e giudice con un’intensa attività politica che lo spinse rapidamente ai vertici del ceto dirigente vicentino.Inviato ripetutamente a Venezia per difendere le prerogative istituzionali della città, il Ferramosca si fece ben presto stimare per le sue doti di oratore e di profondo conoscitore dei complessi rapporti che univano la città berica a quella lagunare[ 3 ] .Discendente da un’illustre famiglia aristocratica che aveva annoverato tra le sue fila numerosi giudici e giuristi[ 4 ] Scipione Ferramosca apparteneva a quella generazione del ceto dirigente vicentino impegnata, in quel torno d’anni, a superare la difficile e dolorosa fase di ridimensionamento politico subito dalla città negli ultimi decenni del Cinquecento. Tra il 1610 e il 1620 erano venuti a mancare alcuni dei protagonisti più significativi di quel contrastato periodo: Leonardo Valmarana, Odorico Capra, Pompeo Trissino, Alvise da Porto e lo stesso Ettore Ferramosca. Si trattava di uomini che avevano vissuto intensamente la dimensione politica europea nella quale molte antiche famiglie aristocratiche vicentine si erano orgogliosamente proiettate nel corso del Cinquecento, ma che avevano pure assistito, impotenti, alla progressiva ed inarrestabile perdita dell’antica identità politica della città ad opera del brusco inserimento delle magistrature veneziane nella sua vita istituzionale. Tra gli esponenti di rilievo del ceto dirigente vicentino di questo periodo Scipione Ferramosca si distinse da subito per le sue indubbie capacità politiche, rivolte a salvaguardare quanto era sopravvissuto dell’autonomia giurisdizionale della città e ad intensificare i rapporti di amicizia e di patronato con il potente patriziato della città dominante.Il profilo, ancorché agiografico, tracciato dopo la sua morte dal padre Francesco Barbarano[ 5 ] , evidenzia nell’aristocratico vicentino le caratteristiche personali e le qualità politiche di un uomo che aveva trascorso la sua vita al servizio di una carriera individuale e familiare il cui traguardo, pure rivolto al di fuori degli angusti ed ormai inconsistenti confini cittadini[ 6 ] , si era definitivamente collocato nella Dominante e nella superiore condizione di status del suo ceto dirigente[ 7 ] .Inserita in profondità nella vita sociale politica vicentina l’attività personale e pubblica di Scipione Ferramosca raggiunse infatti i suoi momenti più significativi nella città lagunare, a stretto contatto di quel mondo che, seppure tendenzialmente estraneo alla sua forma mentis di giurista, rappresentava l’approdo inevitabile ed ambito di una carriera indefessamente consacrata all’ascesa della Casa in cui egli era stato cresciuto ed educato.Uomo aduso alla mediazione e alle trattative, il Ferramosca intravide nel nuovo clima politico e sociale dominato dall’emergere della ricchezza e dall’indebolimento delle tradizionali gerarchie basate sull’antichità della nobiltà, una concreta possibilità di inserimento nell’ambito del ceto dirigente lagunare.Divenuto consultore in iure della Repubblica l’aristocratico vicentino ebbe l’occasione di affrontare diversi problemi, spesso d’indubbia rilevanza politica, che via via il Collegio sottopose alla sua attenzione. Sulla scia di una ormai consolidata tradizione che trovava il suo punto di riferimento nella figura e nell’opera di Paolo Sarpi[ 8 ] , il Ferramosca improntò i suoi consulti ad una pronunciata nozione di sovranità e di giurisdizione statuale, senza tuttavia rinunciare agli schemi interpretativi e mentali provenienti dalla sua formazione di giurista imbevuto di quella sapienza giurisprudenziale che ancora caratterizzava intensamente il mondo di diritto comune[ 9 ] .Tali aspetti emergono vividamente nella scrittura qui pubblicata e scritta nel 1633 agli inizi quindi della sua attività di consultore. Richiesto di fornire un parere intorno ad una complessa causa successoria avviatasi nella giurisdizione di Collalto, il Ferramosca coglie l’occasione per affrontare uno dei temi allora più controversi nell’ambito del ceto dei giuristi di Terraferma.Dopo aver riassunto rapidamente i termini della causa il giurista vicentino sgombra rapidamente il campo da ogni ambiguità sottolineando come la questione possa essere risolta in via di principio da una decisione dei supremi organi giudiziari della Dominante, i quali, in virtù della loro superiore legittimità politica, sono in grado di pronunciare le loro sentenze senza entrare direttamente nelle specifiche ragioni dei contendenti:“..la quale decisione abbia poi forza di legge come hanno le sentenze fatte da’ prencipi supremi, senza ascoltare la madre che ha ottenuta sentenza a suo favore e senza penetrare nelle ragioni della comunità di San Salvadore o nell’autorità delli signori conti di Collalto o nelli statuti di tante città suddite..”
Ma il Ferramosca non sembra assegnare molto affidamento a questa possibilità[ 10 ] . Gli statuti delle città di Terraferma, confermati dalla Serenissima, godono infatti di una propria gerarchia delle fonti, che rinvia, nei casi omessi, a quel diritto comune imperiale che di certo non può essere confuso con gli statuti di Venezia[ 11 ] :“E quando ha approvati e confirmati l’munita sapienza di Vostra Serenità, a cui é notissimo che vi sono leggi civili e li statuti di Venetia; quando, dico, ha approvati e confirmati li statuti delle città suddite fatti innanzi o dopo la deditione loro, i quali si rimettano alle leggi civili, ben ha mostrato essere sua mente che queste leggi civili siano parte delli medesimi statuti e diventino leggi della Serenità Vostra, come da lei confirmate et approvate”.Non diversamente da altri giuristi di Terraferma Scipione Ferramosca sembra rivendicare la legittimità giuridica del diritto comune giustinianeo e, indirettamente, l’autonomia politica delle città suddite della Terraferma. In realtà il suo discorso giuridico, abbandonando i Consueti stilemi linguistici, rivela infine la maggiore complessità che il dibattito sulla gerarchia delle fonti aveva ormai raggiunto nel corso del Seicento:“Né restiamo di dire alla Serenità Vostra che ella con la suprema sua autorità ha fatte tre sorti di leggi. La prima é il statuto di Venetia, con cui si regge questa città dominante et il Dogado. La seconda sono gli statuti da Vostra Serenità confirmati, con cui si reggono le città suddite. La terza sono quelle leggi universali che si pubblicano per tutte le città e si registrano ben spesso nelle commissioni degli illusirissimi rettori. Queste ultime sole e non altre sono quelle che così commettendo Vostra Serenità possono derogare alli statuti delle città suddite”.Venezia, dunque, esprimeva la sua sovranità tramite le proprie leggi universali, emanate per tutto lo stato e la cui esecuzione veniva affidata ai rettori. Erano tale leggi ad agire in deroga agli statuti di Terraferma e non gli statuti di Venezia.Il giurista vicentino sembra suggerire come fosse ormai superato il punctum dolens del dibattito ancora in corso. Con la sua legislazione, via via infittitasi ed estesasi ad una grande varietà di problemi. la Repubblica non aveva tanto affermato la preminenza di un peculiare diritto (gli statuti di Venezia) sugli iura propria della Terraferma, quanto piuttosto la superiore legittimità (e sovranità) di un diritto gradualmente applicato a tutto il Dominio. Tale legislazione, proprio perchè di carattere universale, aveva superato lo scoglio degli antichi particolarismi, vincolando la stessa Dominante alle decisioni assunte[ 12 ] .Pur provvista di accenti nuovi la scrittura del Ferramosca non rinuncia però agli schemi argomentativi tradizionali e tipici del giurista appartenente al ceto aristocratico di Terraferma. Nonostante si muova sul delicato terreno della sovranità e della giurisdizione del Principe egli non rinuncia, in questo come in altri consulti, a sottolineare indirettamente il particolare rapporto che si è ormai instaurato tra governanti e governati. Come nella pregevole scrittura sui confini, in cui affronta la natura dell’atto giurisdizionale:“…atto che non sia giurisdicionale non può turbare o far pregiudicio alla giurisdicione. Alcuni di questi atti sono cli tal natura che non possono essere fatti se non dai Prencipi o di commissione loro. Per esempio piantar forti, custodia de’ confini, nuovi dacii..Altri atti sono di tal sorte che senza il Prencipe o senza sua particolare commissione possono essere fatti dai magistrati inferiori che lo rappresentano, come processi, proclami, sentenze et altre cose simili; i quali atti se ben dipendono dal Prencipe, in quanto il Prencipe é la vita et il fonte delle giurisdicioni infe. non, possono con tutto ciò senza particolar ordine di lui esser essercitati, non altrimenti che possa una mano da se stessa muoversi senza particolar consenso del cuore, benchè il fonte et il principio della vita sia il cuore…”[ 13 ].
Scipione Ferramosca. attraverso i consulti scritti intorno ai più svariati argomenti, coglie costantemente il nesso sottile ed incerto che unisce la sovranità del Principe alle prerogative dei centri sudditi e la loro reciproca interdipendenza. Per il giurista vicentino l’indubbia preminenza della sovranità statuale non si scinde infatti dal quel mondo composito, vivo e dotato di una propria identità qual é il dominio di Terraferma. Se la legislazione della Dominante ha un’indubbia preminenza, difficilmente essa è però in grado di supplire alla complessità delle istanze che muovono dalla società e a cui solo l’elaborata lezione del diritto comune è in grado di fornire le risposte adeguate: Appare difficile, se non pericoloso, superare quello che più che un diaframma appare ormai come un peculiare e complesso rapporto, non in grado, per la particolare natura politica dello stato veneziano, di intraprendere le vie più battute in altre realtà italiane[ 14 ] . Tali aspetti emergono chiaramente nel bel consulto steso intorno alla precedenza del Cancellier grande, in cui il tema della consuetudine, caro al Ferramosca, viene assunto come chiave interpretativa della specifica natura della legislazione veneziana:“Le leggi sono di due sorti scritte e non scritte. Con le scritte si governò già Athene secondo gli ordini di Solone e con le non scritte Sparta secondo la consuetudine di Licurgo. Tutte però sono leggi ma perchè le leggi scritte procedono dalla assoluta volontà del Prencipe, a cui conviene, voglia o non voglia, il popolo ubbidisca e la consuetudine d una legge che il popolo con l’assenso del Prencipe da se stesso si impone, fu chi per tal rispetto comparò al re la consuetudine et al tiranno la legge scritta. Hor sia come si voglia la Serenissima Republica appoggia il sapientissimo suo governo all’una et all’altra di queste due sorti dileggi. La consuetudine s’ella è giusta é sempre tanto più forte quanto é più antica et allhora é fortissima quando é immemorabile, non si perde col tempo, anzi s’affina col tempo. mentre l’esperienza le mostra con la frequenza degli atti sempre più ragionevole e migliore.. Fa forza alla raggione chi sforza la consuetudine: non deve il Principe levarla, non é credibile che voglia levarla. Tutte le novità che s’introducono possono produr disordini, ma quelle indubitamente che quando sono introdotte sovertiscono tutt’i buoni ordini..”.[ 15 ]Il consulto, come si é detto, riguardava, questioni di precedenza in cui era coinvolto il Cancellier grande. Ma nelle parole del Ferramosca sembra di leggere in filigrana quel leit motiv che ritroviamo in molti dei suoi consulti: il controverso rapporto tra il diritto veneto e il diritto (o i diritti) delle città suddite. Ma che cos’altro erano ormai gli statuti delle città suddite se non un’antica – ancorché consolidata ed illustre – consuetudine?Claudio PovoloVicenza, 11 dicembre 1995
Di Scipion Ferramosca D. Cavalier e consultor del Serenissimo Dominio [ 17 ]Per degnamente scrivere di Scipion Ferramosca celeberrimo Giureconsulto, honoratissimo Cavalier e singolarissimo Consultor del Serenissimo Dominio Veneto bisognerebbe che la mia penna fosse temperata e guidata dalla stessa mano del medesimo Scipione. il quale veramente meritò il nome di Magno, anzi massimo, molto più che il Romano cognominato dalla domazione dell’Africa fu detto Africano, non tanto per le meravigliose opere fatte in utile della sua patria, quanto per le sue ammirabili virtù cristiane, anzi religiose, per il che vivendo nel Secolo menava una vita molto più perfetta che alcuni Regolari non fanno ne sacri Chiostri legati a Dio con tre voti solenni.Mi confesso inhabile ad esprimer non solo, ma inoltre anco ad insinuar gl’encomj di quest’huomo prodigioso da me conosciuto, veduto, praticato e ammirato come cosa sovra humana: dirò nondimeno quanto saprò, sebbene sempre resterà molto che dire in ogni genere d’esso, poiché in qualunque fu singolarissimo.Nacque Scipione in Vicenza l’anno 1580 il giorno 21 di Settembre. Suo padre si chiamò Hettore, eccelentissimo Giureconsulto, che molti anni fu Giudice Assessor nelle principali Città dello Stato Veneto, e con grande prudenza, non meno che integrità, esercitò tale carico e poscia dal Senato Veneto fu fatto Cavalier con donargli una Colanna di scudi 300.La madre hebbe nome Ippolita de’ Fortezza, nobili di Vicenza, donna di gran valore. Hebbero questi due coniugati cinque figli maschj, Orazio, Scipione, Fabio, Gieronimo e Giacomo. De quali solamente Orazio prese moglie, con la qual hebbe cinque altri maschi. Scipione e Gieronimo attesero alle Lettere e s’addottorarono in utroque jure. Giacomo, dopo haver studiato leggi ed esser vicino ad addottorarsi, si fece Cappuccino e si chiama P. F. Giovan Battista predicatore, il quale con esser stato prima Lettor sette anni e poi Provinciale tre, molti anni Guardiano di Verona, Vicenza, Padova e Venezia e Diffinitor, grande honore tuttavia apporta sì alla patria come alla famiglia tutta.Questa sì nobile e virtuosa discendenza viddero li sopraddetti due coniugati prima che passassero all’altra vita, come fecero Hettore del e Ippolita del..,.Scipione imparò l’humanità nella patria, poi attese alle belle Lettere, nelle quali per la vivacità dell’ingegno divenne celeberrimo. Poscia dedicossi alli studj legali, de quali nella Città di Padova l’anno conseguì l’aureola del Dottorato e ritornato alla patria s’impiegò nel trattare cause civili e criminali. Subito si conobbe la sua profonda scienza nel consigliare, facondia, eloquenza e energia nell’orare presentando a Giudici le cause de suoi Clienti con maravigliosa vivezza di ragioni, onde ad esso, come ad Oracolo Delfico concorreva tutta la Città, dalla quale hebbe moltissime volte tutti quegli honori e carichi soliti darsi a più cospicui Cittadini. Ed egli la protesse in modo che veramente Padre della patria può chiamarsi, siccome per quanto fece contro di Marostica pienamente si conosce.Sì per questa, come per altre azioni pubbliche che Scipione fece in Venezia (quali per brevità tralascio) s’acquistò tanto nome che quando si sapeva che dovesse parlare tutto il popolo lasciava qualunque importante negozio per udirlo e crebbe in sì gran riputazione che Sua Serenità l’elesse per Consultor di stato, creandolo Cavaliere del Pregai (favore a pochissimi concesso) l’anno 1620, sebbene prima era Cavaliere di San Marco, dandogli una Colanna di 200 Scudi e lo mandò a’ confini con lo stato di Milano, in ché si portò egregiamente con somma eloquenza e ragioni, mantenendo le giuste pretensioni del suo Principe, il che pure fece nel Ferrarese, dove fu inviato l’anno….per la stessa causa, con maraviglia de più celebri Giureconsulti Milanesi e Pontifizi, delle quali opere ne riportò dalla Repubblica preziosissimi doni d’argento e oro e più di cento Scudi al mese, mentre stava in Venezia per ordinar le scritture del Senato.La Città di Vicenza donò a Scipione, per l’accennata vittoria riportata in Senato contro Marostica, una Colanna di 100 Scudi, la quale rifiutò dicendo esser obbligato servir la patria senza premio, sebbene finalmente per forza gli fu fatta pigliare.Havendo speso molti anni nell’avvocare poi si ritirò in parte solo parlando in difesa degl’accusati, sebbene come arbitro decideva molte cause civili, che in esso erano compromesse, accettandole per carità, non per alcun guadagno, siccome per la medesima s’intrometteva nel pacificare i discordi, nel che fu singolarissimo. trattando con tanta gentilezza che s’obbligava qualunque e gli persuadeva quanto desiderava.Stato così certo tempo, determinò ridursi a miglior vita (benché sempre havesse vissuto virtuosamente) perciò entrò nell’Oratorio di S. Gieroninio. sottoponendosi a tutte quelle mortificazioni che in esso si costumano, delle quali a suo luogo nel quinto libro dirò qualche cosa. Questa risoluzione fu a tutta la Città sì esemplare che ad imitazione di Scipione v’entrarono molti altri principali Gentiluomini di Vicenza, non sdegnando, anzi santamente ambendo, d’andare ogni settimana con la Cassella per le pubbliche piazze chiedendo limosina per i poveri infermi e poi portandogliela sino alle proprie case, nelle quali senza schiffo, sebbene puzzolenti, entrava; e se la limosina datagli per dispensare gli pareva picciola rispetto al bisogno d’alcuni, suppliva egli della propria borsa, e soleva chiamare i detti poveri Fratelli quali con dolcissime parole consolava, onde pareva che sotto la lingua portasse il miele.Fu anco alcune volte Capo di detto Oratorio, nel qual tempo sermoneggiava come al Capo si conviene, con tanto spirito che infiammava tutti li Fratelli del divino amore, né poteva succedere altrimenti, essendone lui tanto ardente, come chiaro si vede da 52 discorsi che, currenti talamo, scrisse sopra d’alcune sentenze della Sacra Scrittura, quali appresso di me come preziosissimo tesoro conservo. E quantunque sì nel sermoneggiare a Fratelli come nello scrivere proccurasse d’usar semplici parole e un ordinario stile, nondimeno la naturale sua eloquenza non permetteva che fosse rozzo, né impolito.Havendo con spirituali esercizj dell’Oratorio fatto un grosso peculio di meriti, piacque a Dio di dargli il premio, il quale acciò fosse più copioso gli mandò una lunga infermità, da lui sostenuta con somma pazienza. Per essa si ridusse con la sola pelle sopra l’ossa. In questo tempo non ammise alcuna visita che del Confessore e Medico e sempre si faceva dal Fratello Gieronimo legger qualche libro spirituale. Finalmente ricevuti con gran sentimento di divozione li Santissimi Sacramenti. diede a Dio l’anima sua l’anno 1646 alli 16 di Febbraro, circa le hore 24. dopo havere udito con grande attenzione il Passio di San Giovanni e risposto nel suo fine Amen, il che dicendo spirò e il giorno seguente fu seppellito in San Biasio vestito da Cappuccino, come nel suo testamento haveva ordinato.Resta insinuare le sue virtù e primamente nella giudicatura civile fu giustissimo. dando a ciascheduno quanto per giustizia distributiva o commutativa gli si doveva; e per non errare con indicibile diligenza studiava le scritture ed attentamente udiva le ragione d’ambe le parti. Nella giudicatura criminale, siccome nelli casi accidentali fu molto pietoso, così nelli maliziosi o consuetudinari fu piuttosto rigoroso (però sempre fra i limiti della giustizia) sapendo che questi tali con pietoso castigo restano animati al recidivo negli stessi delitti e col rigore s’emendano.Della castità fu zelantissimo e certamente si tiene che in tutta la vita sua giammai commettesse peccato carnale non solo con l’opera, ma ne anco col desiderio. Haveva verso le Donne antipatia sì grande che quasi non poteva vederle, onde bisognando di trattar con alcune teniva gl’occhi bassi agguisa di ben morigerato Religioso, senza manco vederle in faccia.Nel parlare fu tanto circompetto che innanzi di proferire la parola osservava quanto San Bernardo avvisa di mandarla primieramente alla lima che alla lingua, perché maturamente pensava quello doveva dire per non errare, benché incautamente; anzi fu osservata una cosa singolare che giammai s’udì mormorare d’alcuno, ma non potendo dir bene taceva. Udendo alcun Predicatore lo lodava delle buone parti che haveva e col silenzio celava le cattive, cosa in vero maravigliosa, dicendo l’ Appostolo: Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir.Fu inoltre pietosissimo verso i poverelli, a quali dispensava largamente limosine, come si é detto, né manco fu sollecito all’orazioni, nelle quali spendeva molte hore del giorno e la sesta dopo il pranso andava nella Chiesa ad insegnare a fanciulli la dottrina Cristiana non solo, ma il Pater e l’Ave Maria, con incredibile maraviglia di chi lo vedeva e lo conosceva per huomo sì dotto, ricco e sublime. Ogni giorno anco da Padri Teatini si faceva dire una messa, per la quale loro dava di limosina tre ducati alla Settimana. Spesso si confessava e comunicava oltre la consuetudine dell’Oratorio, al quale indusse anco il Fratello Gieronimo e i Nipoti.La virtù della pazienza in esso fu molto celebre, non solo sopportando pazientemente l’infermità e altri travagli, ma inoltre le stesse ingiurie delle quali hebbe gran copia. E quantunque potesse e sapesse vindicarsene, non però volle, memore di quanto Cristo dice: diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos ecc.Quanto al mangiar e bever si può dire che la sua vita fosse una perpetua e austera penitenza, poiché mangiava pochissimo e cibi ordinarj. Essendogli donato alcun cibo prezioso (il che spesso avveniva) come Trutte, Carpioni, Francolini, Pernici, Faggiani e simili, secretamente li faceva vendere e a poveri dispensava il denaro cavato. Nelle ultime infermità hebhe dalli Canonici di Vicenza, de quali haveva aggiustato una gran lite, un presente degno di chi lo mandava e a chi era mandato di Francolini, Pernici e altri uccelli di gran valuta e in molta copia. Voleva il fratello Gieronimo che ne mangiasse, ma egli rispose: in tutta la mia vita non ho usato tali cibi, non voglio cominciar ne anco addesso nel fine, fatteli vendere e a poveri donate il prezzo, giacché non si possono rifiutare a chi li ha mandati, che così non mangierò io in un pasto quanto a bisognosi servirà per molti giorni.Nel vestire fu sempre, ma specialmente dopo entrato nell’Oratorio, positivo come anco nella servitù di casa, rare volte portando quelle preziosissime Colanne donategli dal Serenissimo Principe, né usando le vesti di Seta e Veluto che per l’innanzi s’era fatto, siccome ne anco mai adoperò quei bacini o catini d’argento donatigli da Sua Serenità, ma in Palazzo e in mezzo ad una ricchissima suppellettile viveva più poveramente che molti Religiosi non vivono ne’ Chiostri.Ma soprattutto rende maraviglia che, havendo sì per la nascita come per la robba eloquenza ed applauso universale, tante occasioni d’insuperbirsi e vanagloriarsi, nondimeno conservasse una indicibile humiltà, per la quale non solo vivendo fuggì qualunque strepito popolare, ma inoltre non volle ne anco dopo morte alcuna ostentazione e per tanto comandò d’esser seppellito con l’habito da Cappuccino alle due hore di notte col solo Parroco di San Eleuterio e due frati di S. Biasio senza far suonar le Campane della Città, come a nobili Vicentini si costuma, sebbene ciò fu fatto d’ordine detti Signori Deputati per honorar sì degno e meritevole Cittadino tanto benemerito della Patria.Finalmente per concluder fu ditale purità di coscienza, massime nell’ultima malattia che per intieramente confessarsi anco de peccati venialissimi, come sono i primi moti d’impazienza, li faceva scriver da suo Fratello Gieronimo; dacché si può argomentare quanto fosse lontano da mortali, dicendo Cristo che chi è fedele nelle cose minori sarà similmente nelle maggiori: qui in modico fidelis est el in majori fidelis erit. Per il che molto probabilmente si può credere che hora godi la gloria del Paradiso e poco tempo sii stato nelle pene del Purgatorio, per non dire che dirittamente sii dalla terra volato al Cielo.Tanto basti haver scritto in lode di Scipione, sebbene (come dissi da principio) per molto che si scriva sempre resterà che dire: e chi volesse distintamente narrare le sue azioni pubbliche, come quante volte per interesse della Patria volasse a Venezia, quanto s’affaticasse in servizio del Serenissimo Dominio, l’orazioni che recitò, le dispute che fece, le lettere volgari e latine che scrisse, l’opere che compose, i consulti che diede, le differenze che terminò, le discordie che conciliò e altre cose memorabili, scnverebbe un grosso volume.Alcuni giorni dopo la sua morte il Commendatore Pietro Paolo Bissaro nel Teatro (a che concorse tutta la città) recitò in lode di Scipione una elegantissima e ingegnosissima Orazione, provando che morto viveva e che vivendo era morto. Furono anco fatti varj versi.Consulti di Scipione Ferramosca [ 18 ]1) Nel fatto si supone che il brigantino al quale é stata tolta la fregata sia di corsari maltesi. Che vi siano corsari maltesi io non lo so. ben so che le galere et altri vascelli di Malta possono prendere e spogliare i Turchi..(senza data)2) La rissolutione della difficoltà proposta, a mio parere depende dalla verità delli seguenti punti. Primo: degli hospitali come delle chiese può alcuno havere il jus patronato. Secondo: il Serenissimo Prencipe ha il jus patronatus dell’hospital della Pietà di Venetia. (27 marzo 1638).3) Supplicano Vostra Serenità gli illustrissimi et eccelentissimi signori governatori dell’hospitale della Pietà di poter concorrere all’acquisto della possessione di Torre di Mosto lasciata dal quondam domino Francesco de Franceschi..(20 aprile 1638).4) La supplica di Michiel Minozzi. sopra la quale Vostra Serenità ci commanda che diciamo il parer nostro contiene materia di momento e degna delle sue sapientissime deliberationi.. E’ morto Pietro Minozzi, la heredità del quale de ducati 3000 in circa é pretesa da Eugenia sua madre..(primo luglio 1633).5) Serenissimo Principe. Riverita prima la maestà della Serenità Vostra che si é degnata di commandarmi e poscia la eminente virtù del signor Baitelli, dal quale Vostra Serenità é stata informata a pieno, restringo a tre punti il mio breve discorso: ragioni, novità, remedi. Quanto alle raggioni la Serenità Vostra ha il dominio che é proprio del Prencipe nella città di Brescia e suo territorio..( 10 agosto 1639).6) Serenissimo Prencipe. A due capi si riducono le scritture sopra le quali si degna Vostra Serenità commettermi che io dica il mio parere. li primo é il mandato e l’editto fatti da monsignor illustrissimo vescovo di Brescia gli anni 1637, 1638..Quanto al primo il mandato 1637 3 settembre contien tre cose: titoli di dignità temporale, duca, marchese, conte, caducità de’ feudi, emphitheusi e livelli..(28 luglio 1639).7) Serenissimo Prencipe. Sopra il mandato fatto da monsignor illustrissimo vescovo di Brescia al procurator della mensa episcopale 1637 3 decembre e sopra l’edito intimato a tutti i feudatarii, emphiteusii e livellari…(primo settembre 1639).8) Serenissimo Prencipe. Portano a Vostra Serenità le lettere dell’eccelentissimo signor ambasciatore Cornero 7 e 14 ottobre prossimo passato il desiderio di madama serenissima di Savoia di vedere pienamente sodisfatta la Serenità Vostra sopra il libro de l’auttorità dei titoli regi pretesi da quella altezza e delle risolutioni del regno di Cipro..(2 dicembre 1639).9) Serenissimo Prencipe. Sono stati finalmente esseguiti da noi, dopo vedute le scritture i commandamenti della Serenità Vostra..Poiché gli ordini dati dalla Serenità Vostra per li vascelli che capitano nella sacca di Goro e per le pescaggioni di quel mare..(3 giugno 1632).10) All’eccelentissimo signor cavalier Alvise Valeresso savio del Consiglio. ..Non vuole la Serenissima Republica né deve volere ampliare il suo stato. né dalla parte del mare, né dalla parte della terra. Non hebbe mai questa pretensione contra i duchi di Ferrara, principi grandi sì, ma che si glonavano di havere la protettione della Republica…(21 marzo 1633).11) Serenissimo Prencipe. Due cose habbiamo da discorrere per riverente et humile esecutione delli commandi di Vostra Serenità. La prima se sia lecito al sommo Pontefice fabricare un forte a Melara. La seconda se possa tirare una catena che traversi il fiume Po nel contorno di Bergantino..(13 novembre 1641).12) Serenissimo Prencipe. Avisano Vostra Serenità gli eccelentissimi signori generali di Palma Civran e Zeno con lettere delli 3 giugno e 28 settembre prossimi passati che la Chiesa del Domo e l’altar maggiore eretto dalla Scola del santissimo sacramento et il tabernacolo et altro altare effetto dal piovano non sono consecrati..(7 novembre 1645).13) Serenissimo Prencipe. Merita gran laude il signor Theodoro Gransurinchel il quale ha tantoa cuore le raggioni di Vostra Serenità e ben é degno premio della sua gran virtù che dallaSerenissima Republica sian gradite le sue eruditissime fatiche. 1 ho già veduto il cap. XIdel libro terzo Vindiciarum mans liberis che egli dissegna mettere alle stampe..(15 agosto1637).14) Serenissimo Prencipe. Negli stati della maestà cesarea da alcuni anni in qua sono stati accresciuti triplicatamente più del solito i dacii sopra il sale che dall’istria cavato nelli medesimi stati vien introdotto..(19 marzo 1640).15) Serenissimo Prencipe. La esecutione dei comandi di Vostra Serenità sopra gli affari di Monfalcone dipende dalla rissolutione di due principali punti. Il primo contiene la forma del sindicato. Il secondo l’effetto che ne può seguire..(12 aprile 1642).16) Serenissimo Prencipe. Sopra le lettere dell’illustrissimo signor Proveditor de Cividale di Friuli delli 7 marzo …ho havuta consideratione e quello che io ne senta brevemente é questo…che li confini del Stato di Vostra Serenità da quelli del Serenissimo Arciduca fossero già divisi..(12 aprile 1634).17) Serenissimo Prencipe. Contengono li due proclami, l’uno della giuridizione di Presenino e l’altro di Goritia di materie di momento, mentre che toccano il Dominio, la navigatione, i datii e la pescagione del fiume Stella…(30 giugno 1642).18) Serenissimo Prencipe. Obbediente ai commandi della Serenità Vostra discorrerò delle Reggie raggioni della Serenissima Republica..Instano i serenissimi elettori del Re de’ romani che dall’eletto imperatore Ferdinando terzo se li decreti la precedenza innanzi a tutte le republiche..(6 dicembre 1640).19) Scrittura di precedenza dell’illustrissimo signor Cancellier grande di Venetia (senza data).20) Scrittura in proposito delli canonici di San Marco di Venetia (senza data).21) Scrittura in proposito de’ confini (senza data).22) Scrittura in proposito del sepolcro del Doge Michiel..(senza data).23) Scrittura agli eccelentissimi signori Avogadori..sopra la prova del Serenissimo Magior Consiglio domandata dal signor Nicolò Bragadino da Rettimo..(febbraio 1635).24) Discorso in materia di libri prohibiti (senza data).25) Scritture di difesa per l’illustrissimo signor Giovanni Grimani (senza data).26) Scritture per gli illustrissimi rettori da mandare nell’eccelentissmo Senato (senza data).Note1. Archivio di Stato di Vicenza, Corporazioni soppresse, busta 2784, c. 5v: ingresso nel Collegio dei giuristi di Scipione Ferramosca in 2 sostituzione del defunto Antonio Vaienti.2. Su Ettore Ferramosca e la sua famiglia cfr. C. Povolo. Percorsi genealogici. Storie di donne in una famiglia dell’aristocrazia vicentina, Vicenza 1990.3. Nel 1614 il Ferramosca venne instruito a Venezia per opporsi alle pretese giurisdizionali della cittadina di Marostica. Sul suo discorso cfr. Archivio di stato di Venezia, Senato, Terra. filza 209; ed inoltre quanto riportalo dal Barbarano nel suo medaglione (cfr. in appendice).4. Nel fascicolo processuale istruito nel 1611 per l’ingresso del fratello Girolamo al Collegio dei giudici di Vicenza furono elencati i numerosi membri della famiglia che vi avevano fatto parte dalla seconda metà del ‘400: Ferramosca e Girolamo di Baldassarre rispettivamente nel 1473 e 1489; Antonio di Cardino, 1499; Galeazzo di Francesco, 1526; Girolamo di Vincenzo, 1536: Ettore di Giacomo (padre di Scipione e Girolamo), 1560; Francesco di Galeazzo, 1568 in Archivio di stato di Vicenza. Corporazioni soppresse, b. 28405. Cfr. in appendice.6. Dei cinque figli maschi di Ettore Ferramosca e Ippolita Fortezza solo Orazio si sposò. In tal modo il patrimonio familiare si consolidò permettendo a, nipoti di Scipione di raggiungere il tanto ambito inserimento nell’ambito del patriziato veneziano dietro il versamento della rilevante somma di 100.000 ducati. cfr. Archivio di stato di Venezia, Avogaria di comun, busta I.7. Dopo la morte di Scipione, il fratello Girolamo divenne l’artefice dell’inserimento della famiglia Ferramosca nell’ambito del patriziato veneziano. Sono significative, a tal proposito, le annotazioni da lui scritte in una sua lettera del 1652: “questa nobiltà veneta é inestimabile e giuro a Dio che piuttosto che ritornare a Vicenza e restarne privo mi adatterei a vivere con cento miserabili ducati l’anno..: é pur una bella cosa il passare da un estremo all’altro e poter dire io era sudito ora più non lo sono e li miei possono avere tutti li onori, anche il Principato. Chiusa questa porta li miei discendenti saranno sudditi in eterno, comandati fin dal camerlengo..”, cfr. Biblioteca civica Bertoliana, ms. 35. Osservazioni che suggeriscono come, superato il tradizionale diaframma tra Dominante e Dominio, l’emergere della ricchezza, in molti casi, non potesse più essere contenuto e veicolato all’interni, dei rapporti di patronato.8. Sulla figura dei consultori in iure cfr. A. Barzazi, I consultori in iure, in Stona della cultura veneta. Il Settecento, 5/Il, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi. Vicenza 1986, pp. 179-199.9. Sul ruolo dei giuristi interpreti e il mondo del diritto comune cfr. R. Van Caenegem. Introduzione storica al diritto privato, Bologna 1995. pp. 53 e sgg.10. Additata invece come un dato incontestabi1e, sul finire del Cinquecento, dal giurista Angelo Matteazzi nella sua De vita et ratione artificiosa iuris universi (edita a Venezia nel 1591 e dedicata al procuratore di San Marco Giacomo Foscarini).11. Contestando che con il termine diritto comune si possano intendere gli statuti di Venezia il Ferramosca riprende argomentazioni che già da qualche decennio erano assai diffuse tra i giuristi di Terraferma, cfr. C. Povolo, Il giudice assessore nella Terraferma veneta, in L’assessore. Discorso del sig. Giovanni Bonifaccio, a cura di C. Povolo. Pordenone 1991, pp. 5-38.12. Sul rapporto tra diritto veneto e diritto comune nei secoli XVII e XVIII cfr. G. Cozzi, Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento, in Idem, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982.13. Archivio di stato di Venezia, Consultori in iure, busta 79ter.14. Si veda intorno a questi problemi L. Mannori, Il sovrano tutore. Pluralismo istituzionale e accentramento amministrativo nel Principato dei Medici (secc. XVI-XVIII), Milano 199415. Cfr. Archivio di Stato di Venezia, Consultori in jure, busta 791ter16. A.S.V., Consultori in iure, busta 530: un’altra copia del consulto esiste nella busta 79bis. Questo, come alcuni altri consulti, venne sottoscritto anche da Ludovico Baitelli. Che sia opera del Ferramosca sembra fuori di ogni dubbio, in quanto venne pure inserito nel copiario dei consulti attribuiti al giurista vicentino17. F. Barbarano de Mironi, Historia ecclesiastica della città, territorio e diocesi di Vicenza, iv. vicenza 1760, pp. 306-313. L’opera, pubblicata in più riprese, venne scritta nei primi anni ‘50 del Seicento. Il Barbarano, seppure da una prospettiva alquanto particolare, offre dunque una testimonianze diretta ed informata dell’attività di Scipione Ferramosca. Sul Barbarano cfr. G. Mantese, Lo storico vicentino p. Francesco da Barbarano 0.F.M. Cap. 1596-1656 e la sua nobile famiglia. in “Odeo olimpico”, IX-X. 1973, pp. 27.13718. Archivio di Stato di Venezia, Consultori in lure, buste 79bis e 79ter, copiario dei consulti di Scipione Ferramosca. Nella busta 791ter oltre ai consulti indicati sono trascritti anche alcuni pareri del Ferramosca stesi in occasione di alcune controversie d’onore. Dei consulti senza titolo si riportato il brano iniziale per evidenziare il loro contenuto. Per un altro elenco parziale cfr. la b. 530.

SCIPIONE FERRAMOSCAScrittura intorno una sentenza fatta dal vicario di San Salvador giurisdizione dei conti di Collalto (1).(ovvero intorno alle leggi della Repubblica di Venezia)Serenissimo PrincipeLa supplica di Michiel Minozzi sopra la quale Vostra Serenità ci comanda che diciamo il parer nostro contiene materia di momento e degna delle sue sapientissime deliberazioni.E’ morto Pietro Minozzi, l’eredità del quale de ducati 3000 in circa è pretesa da Eugenia sua madre e da Michiele fratello di suo padre. Il signor vicario di San Salvatore ha pronunciata sentenza a favore della madre e la causa in appellatione ora é commissa dalli signori conti di Collalto a giudice delegato che si decida.Fa instanza Michiel suo zio e supplicante che Vostra Serenità o dia ordine all’illustrissimo signor podestà di Treviso o in altra maniera provveda perché il giudice di appellatione giudichi secondo li statuti di Venetia e non secondo la forma della legge civile, per la qual via intende d’assicurare la vittoria della causa col taglio della sentenza già seguita, asserendo che questo caso della successione di Pietro suo nipote, se si aspetti alla madre o a lui suo zio, non sia deciso dalli statuti di Collalto, e che dovendosi nelli casi ommessi per la forma delli medesimi statuti ricorrere al jus commune, debbano li statuti di Venetia essere, li quali dano la successione al zio e non le leggi civili che la dano alla madre.Noi quanto all’ordine umilmente diciamo a Vostra Serenità che in questa causa concorrono gli interessi di varie persone, cioé d’Eugenia madre, la quale già ha ottenuto sentenza a favor suo, della comunità di San Salvatore, degli statuti della quale ora si tratta, i quali oltre le parole di quelli, a nostro parere assai chiare, può essere che dalla consuetudine approvata a favor della madre più volte siano stati interpretati dalli signori conti di Collalto, i quali avendo fatti li statuti, che già molti anni si osservano senz’altra confermatione della Serenità vostra, crediamo che abbiano qualche giurisditione con autorità di dare le leggi et in conseguenza di dichiararle et interpretarle e finalmente di molte città suddite le quali hanno i suoi statuti che decidono vari casi con particolari decisioni e gli altri con una generale decisione rimettendosi alle consuetudini, alle leggi civili e al jus commune.Li quali tutti interessi della madre, della comunità di San Salvadore, delli signori conti di Collalto e delle altre città suddite se si possano decidere decidendo una causa d’un particolare, la quale decisione abbia poi forza di legge come hanno le sentenze fatte da’ principi supremi. senza ascoltare la madre che ha ottenuta sentenza a suo favore e senza penetrare nelle ragioni della comunità di San Salvadore o nell’autorità delli signori conti di Collalto o nelli statuti di tante città suddite dalla Serenità Vostra confirmati e che da tempo immemorabile in qua si praticano, noi umilmente a Vostra Serenità li rimettiamo.E se comanda che alcuna cosa si dica nel merito sopra questo punto le diremo umilmente che due sorti di statuti vi possono essere. Alcuni decidono molti casi particolari con particolari decisioni e degli altri casi niente dicono. Altri decidono con particolari decisioni molti casi e gli altri casi decidono con una decisione universale, dicendo che si abbiano da decidere secondo le consuetudini o, se quelle non vi sono, secondo le leggi civili et il jus comune.Li casi non decisi dalla prima sorte de’ statuti, che niente d’essi parlano, sono casi veramente ommessi. Li casi poi decisi dalla seconda sorte de’ statuti con una decisione generale, rimettendosi alla consuetudine o alle leggi civili o al jus comune, non sono casi ommessi, anzi sono casi decisi espressamente perciocché non ommette il legislatore la decisione di un caso quando ad un’altra legge la rimette, anzi quell’altra legge a cui li statuti si rimettono diviene parte delli medesimi statuti. E quando Vostra Serenità li conferma con questa remissione diventano li statuti leggi di Vostra Serenità, e leggi di Vostra Serenità parimente diventano quelle alle quali li statuti si rimettono: e la Serenità Vostra viene ad essere il legislatore che comanda, che secondo questi statuti e secondo queste leggi chiare in essi debban vivere i suoi sudditi.Di questa seconda sorte di statuti e non della prima sono quelli di Collalto perché decidono alcuni casi particolari con le sue particolari decisioni et altri non l’ammettono ma generalmente li decidono, rimettendosi alle consuetudini et alle leggi civili et al jus comune. E di questa seconda sorte sono anche li statuti di molte città suddite, alle quali avendo Vostra Serenità date le leggi e comandato, confirmando i statuti, che vivano e secondo quelli e secondo le leggi civili et il jus comune riferito in quelli, debbano essere ubbidite, né altro si ha da vedere se non ciò che s’abbia da intendere per le sudette parole leggi civili ejus comune.Per le quali parole. attesa la proprietà del parlare, non si può intendere a parer nostro il statuto di questa inclita e serenissima città perciocché li statuenti delle città suddite se non ebbero notitia, quando fecero li statuti loro, delli statuti di Venetia. non potero con quelle parole leggi civili, ovvero jus comune, intendere cosa a loro incognita: e se n’ebbero notitia non é possibile credere che volendosi rimettere alli statuti di Venetia avessero quelli piuttosto nominati con queste parole leggi civili o jus comune, che ogni altra cosa significano che con parole le quali chiaramente dicessero statuti di Venetia.E se li statuti furono fati prima che le città fossero suddite alla Serenità Vostra non potero, riportandosi alle leggi civili et al jus comune, intendere delli statuti di questa inclita città a cui non erano suddite. E se sono stati fatti dopo mentre li statuenti hanno parlato delle leggi civili e non delli statuti di Venetia non possono sotto nome dileggi civili aver inteso delli statuti di Venetia. E quando ha approvati e confirmati l’infinita sapienza di Vostra Serenità, a cui é notissimo che vi sono leggi civili e li statuti di Venetia: quando, dico, ha approvati e confirmati li statuti delle città suddite fatti innanzi o dopo la deditione loro, i quali si rimettano alle leggi civili, ben ha mostrato essere sua mente che queste leggi civili siano parte delli medesimi statuti e diventino leggi della Serenità Vostra, come da lei confirmate et approvate.Alla qual cosa crediamo che Vostra Serenità sia condescesa sapendo che nacquero queste leggi civili nella antica repubblica di Atene e che di là fossero portate alla repubblica di Roma, e che chiamate Leggi delle dodeci taule, ampliate poi da diversi decreti di quella sapientissima e potentissima repubblica, fin a tanto che per la legge regia, essendo stata dal popolo romano trasferita tutta la potestà in un principe solo, ebbero accrescimento dalle costitutioni dei principi e dai responsi dei prudenti che furono uomini scielti da tutto il mondo et i cui pareri ebbero autorità e vigore dileggi e tutte queste furono dette leggi civili et jus comune, perché erano leggi comuni a tutti li cittadini romani, sotto il qual nome si comprendevano tutti quelli che abitavano in Orbe romano. E così di questa civiltà tutti i cristiani popoli godevano, i quali di quelle, come di proprie leggi, si sono sempre serviti anco nei tempi nei quali tutto quel mondo, che la repubblica romana unito et ubbidiente ebbe il dominio, fra molti principi si divise: e se con li statuti le hanno mutate in parte si sono anche dichiariti non volerle mutare nel resto, anzi a quelle si sono rimessi, e ciò hanno approvato i principi et in particolare Vostra Serenità con l’assenso della quale fatte sue leggi proprie si é conservata nella loro osservanza l’intiera loro forza e vigore.Et all’ultimo, perché si osservino la Serenità Vostra ha fatte sue leggi proprie, confermando i statuti che a quelle si rimettono, e volendo inoltre che molte cause si decidano da’ magistrati a consiglio di savio et ordinando che pubblicamente nello Studio di Padova si leggano e che gli assessori, i quali servono gli illustrissimi rappresentanti in quelle si dottorino: cose del tutto superflue quando, sbandite queste leggi da’ tribunali, dovessero da tutti esser lasciate in abbandono: il che se fosse per essere di servitio pubblico o di danno, quando fra sudditi non vi fosse chi in questa profondissima scienza procurasse d’avvanzarsi sopra gli altri Vostra Serenità con la sua somma prudenza ben l’intende.Né restiamo di dire alla Serenità Vostra che ella con la suprema sua autorità ha fatte tre sorte dileggi. La prima è il statuto di Venetia, con cui si regge questa città dominante et il Dogado. La seconda sono gli statuti da Vostra Serenità contirmati, con cui si reggono le città suddite. La terza sono quelle leggi universali che si publicano per tutte le città e si registrano ben spesso nelle commissioni degli illustrissimi rettori. Queste ultime sole e non altre sono quelle che così commettendo Vostra Serenità possono derogare alli statuti delle città suddite.Abbiamo anco osservato nelli statuti di Collalto, nel titolo de appellationibus, nel fine di quel titolo parole espresse per le quali proibendosi in una causa l’appellarsi tre volte non é possibile intendere per jus comune altro che le leggi civili.In Venetia, primo luglio 1633.Di Vostra Serenità,umili servi e sudditi, Scipion Ferramosca, Ludovico Baitelli1. A.S.V., Consultori in iure, busta 530: un’altra copia del consulto esiste nella busta 79bis. Questo, come alcuni altri consulti, venne sottoscritto anche da Ludovico Baitelli. Che sia opera del Ferramosca sembra fuori di ogni dubbio, in quanto venne pure inserito nel copiario dei consulti attribuiti al giurista vicentino