5.1 Percorsi genealogici

Claudio Povolo

Percorsi genealogici.

Storie di donne in una famiglia dell’aristocrazia vicentina

Nel suo volume sulla nobiltà vicentina, scritto agli inizi del ‘700, Francesco Tommasini, acido e dissacrante genealogista, annotava a proposito dell’illustre casata dei Ferramosca, come un atto notarile del febbraio del 1447 fosse stato steso «in statione scapizarie panorum Nicolai quondam Cardini Feramosca patris mei notarii». Nicolò, capostipite dei Ferramosca, osservava con una punta di veleno il Tommasini, «esercitava dunque la professione di panni alla minuta ed era padre del notaio Cardino» [1] .

Al tempo in cui scriveva il Tommasini i Ferramosca erano indubbiamente tra le più illustri famiglie vicentine. Dai tre figli del notaio Cardino, Antonio, Baldissera e Nicolò si erano dipartiti vari rami, che il genealogista vicentino non aveva probabilmente faticato a seguire e descrivere, non solo perché l’accesso ad archivi pubblici e privati non gli doveva essere risultato difficile negli anni precedenti, ma ancor più perché la chioma dell’albero Ferramosca, che egli con dovizia di particolari si era apprestato a tracciare, si era ben presto ristretta sino infine a profilarsi sottile, simile ad una lama affilata, che contrastava nitidamente con il tronco che alla base la sorreggeva [2] .

Erano trascorsi più di 250 anni dal momento in cui il notaio Cardino aveva steso quell’atto notarile in casa del padre. Anni che avevano visto il succedersi di sei o sette generazioni e la lenta ma progressiva ascesa dei Ferramosca verso le più alte sfere del potere aristocratico vicentino, accanto alle più illustri ed antiche casate signorili, alla cui origine ben difficilmente avrebbe potuto risalire anche un genealogista così pervicace come il Tommasini.

Un’ascesa sospinta probabilmente agli inizi dalla ricchezza accumulata dall’umile tessitore di panni Cardino e poi, via via, estesa e rafforzata da un’attenta politica matrimoniale e dalle nuove leve di potere acquisite. L’antenato era stato ben presto dimenticato e rimosso dalla coscienza di famiglia e considerato come una macchia indelebile da occultare, poiché avrebbe offuscato il nuovo splendore raggiunto. Quello stesso nome, Cardino, che ricordava l’umile origine dei Ferramosca, non sarebbe più stato ripreso dai suoi più illustri discendenti, per essere sostituito da nomi più altisonanti di derivazione classica, come Ettore, Galeazzo e Scipione.

Nobiltà di toga possiamo certamente definire quella in cui i Ferramosca entrarono ben presto a far parte, sin dalla seconda metà del ‘400. Due dei tre figli del notaio Cardino, seguiti da molti dei numerosi nipoti, furono membri del collegio dei giudici, organo prestigioso, che permetteva l’accesso ad alcune delle più importanti cariche politiche gestite dal locale consiglio cittadino, nonché l’intrapresa di una carriera di più ampio respiro nell’ambito di quella burocrazia itinerante di cui lo stato veneziano si serviva per accompagnare e sorreggere l’attività dei propri rappresentanti nei centri del Dominio [3] .

Un’attività, quest’ultima, cui presto, insieme ai Ferramosca si sarebbero dedicate altre famiglie vicentine, alla ricerca di una rapida ascesa sociale che gli angusti e chiusi confini del potere oligarchico vicentino rendevano estremamente difficoltosa [4] . La graduale e complessa tessitura dei rapporti con il mondo politico veneziano, pur in una posizione di netta subordinazione, avrebbe ben presto conferito uno spazio politico, che assai difficilmente non avrebbe potuto essere speso vantaggiosamente a livello locale, anche se proprio quei rapporti suscitavano indubbiamente irritazione e diffidenza da parte della altolocata e facoltosa nobiltà di derivazione signorile, notoriamente antiveneziana. Non a caso, uno dei figli del notaio Cardino, Antonio, dottore in legge, dapprima notaio e poi membro del collegio dei giudici, che si era arricchito notevolmente con l’ingente eredità pervenutagli tramite la moglie, una Dalle Tavole, si era legato strettamente all’antica nobiltà filoimpenale, tanto da far parte del gruppo di ambasciatori che nel 1509 il consiglio cittadino inviava all’imperatore Massimiliano per proclamargli ufficialmente la fedeltà della città [5] .

Ma si era trattato di un’eccezione, che nel caso della famiglia Ferramosca, era ampiamente compensata dall’adesione al potere veneziano, che molti suoi membri continuavano a manifestare tramite l’esercizio dell’attività burocratica al seguito dei patrizi inviati a reggere le numerose città che facevano parte dello stato territoriale veneto. Uno stesso nipote di Antonio, Pietro, nel 1487 ricopriva la carica di vicario pretorio ad Udine, al seguito del luogotenente veneziano Luca Navager. E Vicenzo, figlio di Girolamo, fratello di quell’Antonio testé ricordato, moriva a Brescia nel 1528 mentre era vicario pretorio, carica che aveva ricoperto pure alcuni anni prima ad Udine, al seguito del patrizio Francesco Donà [6] .

Ma era soprattutto tra ‘500 e ‘600 che la famiglia Ferramosca intesseva stretti rapporti con il potere politico veneziano, pur mantenendo abilmente una posizione di rilievo all’interno del ceto di potere oligarchico vicentino, cui ormai apparteneva a pieno diritto. Con un’attenta politica matrimoniale, che trovava un referente sicuro in quell’ambito di famiglie come i Fortezza e i Ghellini, che pure si manifestavano per una prudente ma inequivocabile adesione al potere veneziano, un ramo dei Ferramosca riusciva negli ultimi decenni del ‘500 ad inserirsi in maniera decisiva nello scontro di potere che animava l’aristocrazia vicentina e che trovava il suo terreno più fertile nel consiglio cittadino [7] .

Artefice di questo inserimento fu Ettore, figlio di Giacomo e di Anna Mascarello. Entrato a far parte del collegio dei giudici nel 1569 [8] , Ettore ricopriva la carica di vicario pretorio a Padova nel 1589 e a Udine nel 1593 [9] . Sposatosi con Ippolita di Ercole Fortezza, nel 1580 ampliava il già considerevole patrimonio con l’eredità trasmessagli tramite fidecommisso dal cugino Girolamo che, sposatosi con Elisabetta figlia del medico Francesco Fortezza, era rimasto senza figli [10] , Negli ultimi due decenni del secolo Ettore Ferramosca diveniva uno degli esponenti più in vista dell’aristocrazia vicentina [11] . Per la sua posizione moderatamente filoveneziana, egli veniva inviato a Venezia in qualità di ambasciatore a difendere le cause che la città andava sostenendo in quel periodo sul piano delle proprie prerogative giurisdizionali [12] , Nei primi anni del ‘600, probabilmente per le sue capacità di mediazione e per il prestigio acquisito, veniva investito dal Senato veneziano della carica di Provveditore ai confini [13] .

Per rafforzare la rilevante posizione sociale raggiunta dalla famiglia, Ettore mandava in monastero due figlie e faceva sposare la terza a Vincenzo, figlio del più affermato notaio di Vicenza Francesco Cerato, con una dote di 7000 ducati [14] . Dei figli maschi solo Orazio veniva destinato al matrimonio, sposando Ghellina Ghellini, che portava alla famiglia una dote di 11000 ducati. Due degli altri tre figli, Girolamo e Scipione si avviarono all’attività forense. Quest’ultimo raggiungeva il massimo degli allori divenendo consultore in iure della Repubblica [15] .

Le basi di una più prestigiosa posizione politica e sociale erano state create. Gli angusti confini cittadini non potevano ora più contenere quelli che erano stati in realtà gli sforzi di più famiglie nel disegnare una insistente volontà di affermazione. Non mancava che l’occasione. E questa giungeva a metà secolo, quando la Repubblica, per rinsanguare le casse dello Stato, offriva la propria nobiltà alle famiglie che avessero donato un’ingente quantità di denaro. Con l’esborso di 100000 ducati i figli di Orazio divenivano patrizi veneti [16] .

Ma era ancor più inevitabile che solo uno di loro venisse destinato al matrimonio. Questi fu Ettore, che sposò la patrizia Elena Minotto. Da quest’unione così calibrata non nasceva però che una figlia, Ghellina.

La famiglia stava per estinguersi. Non restava che la ricerca di un’estrema ricomposizione nei meandri del proprio passato: Ghellina veniva destinata in matrimonio a Scipione, l’ultimo discendente maschio di quel ramo Ferramosca, che era dipartito dal filoimperiale Antonio. Inoltre si ricuperava, per rafforzare la nuova alleanza, una consanguinea naturale, Anna Ferramosca, che veniva destinata in matrimonio a Bonaventura Ferramosca, appartenente sempre allo stesso ramo.

Nel corso del ‘700 la famiglia Ferramosca si avviava all’estinzione. Il suo patrimonio sarebbe passato ad altre casate dell’aristocrazia. Quella logica inesorabile e calcolata, regolata da leggi scritte e non scritte, che presiedevano all’equilibrio e al mantenimento del potere nobiliare, conteneva in sé i germi dell’estinzione. L’estrema e raffinata elaborazione di codici culturali, che fissavano, all’interno, i meccanismi destinati ad equilibrare il sistema di potere nobiliare e a salvaguardare e rallentare, nei confronti dell’esterno, l’ascesa di nuovi ceti, che premevano per farne parte, nulla poteva infine di fronte all’ineluttabilità dell’evento biologico.

Ma quella stessa logica si manifestava in maniera più contraddittoria nel momento in cui si esprimeva nell’ambito del nucleo familiare nei confronti di tutti i suoi membri, in particolare di quelle donne, che erano chiamate a sacrificare, in nome dell’ascesa sociale e del prestigio della famiglia, il mondo degli affetti e dei sentimenti.

Anna Mascarello era una di costoro. Di lei non sappiamo molto [17] . Nata intorno ai primi anni del ‘500 , veniva data in sposa a Giacomo Ferramosca di Girolamo. Da questo matrimonio nascevano i figli maschi Cesare, Marcantonio, Giulio, Carlo ed Ettore, il quale ultimo, come già si ricordava, sarebbe stato il vero propulsore dell’ascesa sociale di questo ramo della famiglia Ferramosca.

Ma dopo la morte del Ferramosca, Anna aveva avuto una figlia dalla relazione che aveva intrattenuto con il nobile vicentino Francesco Mainente di Federico. Una relazione profonda e partecipe, tanto da indurla a definirsi, alcuni anni dopo, nel suo testamento, come sua sposa. Un’unione non mediata evidentemente dalla pura logica delle alleanze familiari e che probabilmente era stata tenuta segreta a tutti: solo l’evento drammatico della condanna a morte del Mainente, avvenuta a Firenze nel 1554, aveva forse contribuito a portarla alla luce. Prima di essere decapitato il nobile vicentino menzionava infatti nel suo testamento la figlia Isabella, nata dalla sua relazione con Anna Mascarello, alfine probabilmente di difenderne i diritti su parte del proprio patrimonio [18] .

La reazione di Ettore Ferramosca e dei suoi fratelli era violenta. Nel 1555, approfittando del fatto che la madre era residente in Sossano, dove la famiglia aveva vaste proprietà, la costringevano a far loro donazione dei suoi beni. Anna Mascarello non si assoggettava però alla prevaricazione. Rompendo traumaticamente con i figli, nel novembre dello stesso anno denunciava in un atto notarile la violenza subita, sconfessando la donazione che aveva loro fatto. Nel suo testamento, redatto nel 1560, ribadiva nuovamente tale decisione, lasciando parte dei suoi beni alla figlia avuta da Francesco Mainente.

Ben diverso percorso di vita fu invece quello di Anna Ferramosca. A differenza di Anna Mascarello, che in virtù del dramma che l’aveva travolta, era destinata a subire una sorta di espunzione genealogica, Anna Ferramosca, proprio in funzione di quella logica inesorabile di potere che animava la famiglia nobiliare, avrebbe ricoperto un ruolo sociale di primo piano. Di altra natura sarebbero state le contraddizioni che ella avrebbe vissuto nel corso della sua lunga vita, ma più intense e drammatiche proprio per la sua condizione di donna.

Anna era nata il 10 giugno 1644 in quello stesso centro di Sossano, che molti anni prima aveva visto la sua omonima Anna opporsi drammaticamente ai figli [19] . Il padre era Orazio Ferramosca, figlio naturale di quel Cesare, che insieme ad Ettore e ai fratelli si era opposto violentemente alla madre. La madre di Anna era un’umile contadina di Sossano, Elisabetta Stradiotta. Ma Anna non era, come il padre, figlia naturale. Un anno prima della sua nascita i genitori si erano sposati e il parroco di Sossano aveva così potuto porre fine alle nascite illegittime, che i due non si erano degnati di nascondere negli anni precedenti [20] . Che non si fosse trattato di un matrimonio di pura convenienza era attestato dal fatto che Orazio Ferramosca non si curava di legittimare, com’era previsto, i figli avuti in precedenza dall’unione con la Stradiotta.

Di lì ad alcuni anni entrambi i genitori di Anna morivano [21] . Nel suo testamento Orazio Ferramosca ricordava come avesse un figlio naturale, Cesare, ed una figlia legittima, Anna. Al primo lasciava l’usufrutto di alcune proprietà, che avrebbero però dovuto essere trasmesse, qualora fosse rimasto senza alcuna discendenza, alla sorella Anna, la quale veniva designata come unica erede di tutti i suoi beni [22] .

Orazio Ferramosca non solo dunque non si curava di legittimare il figlio tredicenne Cesare, ma sceglieva altresì, sorprendentemente, la figlia Anna, che allora aveva quattro anni, come erede. Una scelta che forse si spiega con le stesse vicende biografiche di Anna. Questa infatti passava sotto la tutela dell’influente Girolamo Ferramosca, figlio di Ettore e cugino in primo grado di suo padre. Proprio in quegli anni infatti Girolamo ed Orazio Ferramosca, altro figlio di Ettore, ottenevano la tanto sospirata nobiltà veneta [23] . Divenuti patrizi veneziani ed ormai padroni di una grandissima proprietà fondiaria si trovavano ora a difendere sul piano politico e finanziario il nuovo e prestigioso status sociale acquisito. Inoltre i due dovevano avere le loro buone ragioni per temere l’estinzione del ramo familiare. Dei figli di Orazio, solo Ettore si era sposato. Dal matrimonio con la patrizia Elena Minotto non era nata che un’unica figlia, Ghellina, la quale solo nel 1675 sarebbe andata in matrimonio a Scipione Ferramosca, discendente di un altro ramo dei Ferramosca.

Ma in quegli anni Girolamo ed Orazio Ferramosca avevano pensato bene di premunirsi contro tale rischio, recuperando quel ramo naturale che si ricollegava direttamente al loro padre Ettore. Per far ciò, considerata l’illegittimità ditale ramo, che evidentemente mai avrebbe potuto essere accettata dalla nobiltà vicentina e veneziana, era necessario considerarne la sola discendenza femminile. E per fortuna era nata Anna, che bisognava destinare in matrimonio ad un membro della stessa famiglia Ferramosca. Nel 1646, due anni dopo la nascita di Anna, Leonardo Ferramosca, appartenente ad un ramo collaterale alquanto decaduto economicamente, aveva avuto dalla moglie Vittoria Berengan l’unico figlio Buonaventura [24] . Probabilmente sin da quegli anni il matrimonio tra i due veniva progettato per un futuro quanto più vicino possibile.

Anna veniva inviata in convento per la sua educazione, sotto la cura e sorveglianza di una governante. Girolamo Ferramosca, in alcune lettere scritte da Venezia, si informava intorno alla sua salute e a sua volta riferiva a Leonardo Ferramosca della crescita e dei progressi della sua futura nuora [25] .

In una lettera del dicembre del 1650 Girolamo Ferramosca, rivolgendosi alla persona che si occupava di Anna, si esprimeva: «confesso la mia tenerezza, l’Annetta è da me amatissima più che figlia, la farei una regina se potessi». E in quella del 2 settembre 1651: «lei mi ha fatto un grandissimo favore a non scrivermi il mal della mia Anneta, che ne haverei havuto grandissimo travaglio.., fin hora non vedo in casa altra posterità. . se Dio mi darà vita la alleverò a mio modo con una buonissima maestra in casa a mie spese…».

Manifestazioni di affetto, che erano però ben presto destinate a passare in secondo piano, man mano che l’evento programmato si avvicinava. Nella lettera del 14 maggio 1659, diretta a Leonardo Ferramosca, il neo patrizio veneziano manifestava ben altra urgenza:

«… domani con l’aggiuto del signor Iddio andarò a tuor l’Anneta et la porterò a casa et mi serà carissima per consegnarla poi al conte Buonaventura et prima alla Signora Vittoria et a V.S. Ill.; essa non conosce altri che Mad. Orseta et me: bisognerà prima domesticarla che è ancora putela, tutto serà con nostra consolatione. Non spenderà un soldo in veste, non ne so, non me ne intendo, niente ne voglio saper mai. Mad. Orseta le rapezzerà quella che si ritrova. Venuta la dispensa V.S. Ill. se ne venirà con la Signora Vittoria et conte Buonaventura et la vestiranno come le piacerà. Questo mese ha finito li anni 14 et mi par grande se ben è in scarpe…» [26] .

Pochi mesi prima, in marzo, era stato stabilito, evidentemente alla sua insaputa, il contratto di nozze tra Anna e il tredicenne Buonaventura Ferramosca. Leonardo Ferramosca e Girolamo Ferramosca si impegnavano, ciascuno per conto di uno dei due futuri sposi, in una promessa di matrimonio. Girolamo Ferramosca offriva in dote a nome di Anna, tutto quanto ella possedeva: campi, case, livelli e mobili. Il futuro suocero sarebbe stato tenuto alla conservazione della dote ed eventualmente alla sua restituzione, qualora fosse stato necessario «che Iddio benedetto non vogli» [27] .

Dalla potestà di Girolamo Ferramosca, Anna passava a quella del suocero. Il matrimonio avveniva nel febbraio del 1660. Anna l’aveva forse desiderato ardentemente: era l’occasione per uscire dalla chiusa situazione del convento e per proiettarsi nella vita sociale [28] .

Sarebbe stata una grande delusione: sia il suocero che il marito si rivelarono ben presto per degli inetti e degli incapaci a reggere le sorti del patrimonio familiare. Nel 1668, a seguito di contrasti con Leonardo Ferramosca, Anna e il marito uscivano di casa e chiedevano con un atto giudiziale di disporre della dote [29] .

Era l’avvio, per Anna, di una pur limitata forma di autonomia, che gradualmente le avrebbe permesso di prendere nelle sue mani le sorti della dissestata economia familiare. Ma si trattava anche dell’inizio di un periodo che l’avrebbe vista impegnata per lunghi anni, sino alla morte, in defatiganti e dispendiose cause giudiziarie volte a riassestare un patrimonio familiare intaccato da più parti. Il marito Buonaventura, sulle orme del padre, veniva coinvolto in un fatto criminale e relegato a Palma. Recatosi clandestinamente a Bassano veniva ivi ucciso impunemente nel 1676. In città si sussurrava allora che Anna non sarebbe stata estranea alla morte del marito [30] . È comunque certo che il suo carattere volitivo e intraprendente non avrebbe mancato di farsi notare negli anni seguenti. Nel 1678 Anna faceva inseguire da alcuni suoi dipendenti un gruppo di sbirri che si era recato a Brendola per sequestrare i beni di un suo affittuale. Inseguimento che avveniva, come riferiva il podestà di Vicenza, con «lei in carrozza… a briglia sciolta» [31] .

Anna si sarebbe segnalata soprattutto per l’ostinazione e l’estrema risolutezza assunte nell’intraprendere cause giudiziarie volte ad assicurare il proprio patrimonio. Nel 1670 il marito e il suocero erano venuti ad un accordo con Girolamo e fratelli Ferramosca sulla liquidazione della gestione del patrimonio di Anna, che quest’ultimi, in qualità di commissari avevano curato per molti anni [32] . Un accordo in cui i due non avevano di certo saputo far rispettare i diritti di Anna, la quale alla morte del marito apriva una lunghissima causa. Ne avrebbe ricordato lei stessa le tappe nel 1719, giunta ormai alla fine della sua vita:

«Fui lasciata io Anna Ferramosca dal quondam signor Conte Orazio padre, toltomi dalla morte in età d’anni quattro circa, sotto la custodia e direttione del q. N.H. D. Girolamo Feramosca mio commissario, qua! puotè a sua balia disponere di tutta la riguardevole facoltà a me infante lasciata dal detto mio padre.

Cresciuta all’età nubile, fui da lui collocata in matrimonio al q. conte Bona Ventura Feramosca, sotto la di cui potestà e sotto quella del socero conte Lunardo vissi sin che ha piacciuto a Dio conservarmi il marito. Né per tanto delle cose della mia heredità e della mia dote a me è mai stato reso alcun conto, né data alcuna cognitione, havendosi solo intesi tra commissario e parte sua e tra miei socero e marito, senza alcuna mia partecipatione. In questa cecità ho dovuto patientare sino al presente, quando le multiplici vessationi et ingiustissime contese sussitate dal Signor conte Scipion Feramosca, herede ex utraque parte sì della commissaria come di chi deve conservar e restituir la mia dote, hanno posto me Anna sudetta in tanta afflittione e travaglio, che alla fine Dio Padre della verità, per sua bontà e misericordia, ha permesso che vengano alla mia cognitione quelle scritture che manifestano il grande et enorme defraudo fatto alla mia innocenza, pregiudicata di più migliaia de ducati…» [33] .

Una decina d’anni dopo la morte del marito, alla cui eredità aveva rinunciato a causa dei grossi debiti da lui accumulati [34] . Anna avviava un’altra lunghissima causa con gli eredi del fratello Cesare. Costui moriva a Sossano nel 1688, Lontano dalla vita cittadina e dai suoi più complessi e rigidi rapporti sociali, Cesare Ferramosca aveva seguito le orme del padre, rifiutando l’inserimento in una vita «civile», che pure avrebbe offerto delle contropartite sul piano sociale. Aveva mantenuto per lunghi anni una relazione irregolare con una donna di umili origini, che nel 1676 gli aveva dato un figlio, Girolamo [35] .

Giunto in punto di morte e memore delle disposizioni testamentarie del padre, egli sposava la sua donna, manifestando inoltre espressamente la volontà, con tale atto, di legittimare il figlio Girolamo.

Il giorno stesso della morte del fratello, Anna Ferramosca inviava un ufficiale giudiziario ad inventariare tutti i suoi beni, reclamandone il legittimo possesso. Era l’inizio di un’altra lunghissima causa giudiziaria, che si sarebbe per lei conclusa sfavorevolmente, ben oltre la sua morte [36] .

Anna Ferramosca aveva evidentemente dimenticato le sue origini. Spinta dagli avvenimenti a reggere le sorti della famiglia, ella finiva infine per assumere quel ruolo tradizionale di indiscusso tutore dei valori che ne difendevano l’integrità sociale e che pure così sensibilmente avevano influito sulla sua vita. Quel male oscuro, che colpiva in particolar modo le famiglie aristocratiche, trascinandole in un vortice spesso senza ritorno di liti e di conflittualità interne, sembrava averla presa in maniera irrimediabile. Dal suo matrimonio con il conte Buonaventura, Anna aveva avuto numerosi figli. Erano infine sopravvissuti Faustina, Laura, Vittoria, Giuseppe e Cesare. Questi ultimi due, giunti all’età dell’emancipazione, reclamando una maggiore autonomia, avviavano una causa giudiziaria contro la madre. Particolare intransigenza Anna manifestò nei confronti del figlio Cesare. Un compromesso stabilito nel 1688 stabiliva minuziosamente i limiti di una convivenza divenuta ormai impossibile. Nemmeno il bando che nel 1695 aveva penalmente colpito il figlio Cesare, tanto da indurlo a scrivere alla «madre pietosa e benigna a voler correre al mio sollevo», poneva fine alla controversia. Ancora nel 1712, un anno prima della morte del figlio Cesare, Anna dimostrava di tenere saldamente in pugno le sorti del patrimonio familiare [37] .

Unico conforto alle traversie familiari, giungeva ad Anna, negli ultimi anni della sua vita, da parte della figlia Laura e del genero Lorenzo Tornieri, divenuto in quegli anni celebre dottore in diritto civile ed ecclesiastico. Nel suo testamento del primo marzo 1723 Anna Ferramosca designava il Tornieri commissario testamentario dei suoi beni e lo investiva, insieme alla moglie Laura, della parte più consistente della sua eredità. Anna moriva nella notte del 15 agosto 1723 [38] .

L’erede di Anna Ferramosca non poteva propriamente definirsi un parvenu, ma la sua famiglia non vantava che una recentissima nobiltà, raggiunta dapprima con la ricchezza accumulata tramite il commercio e poi consacrata con la professione forense. Degli inizi del ‘600 sono le poche notizie relative ad un certo dottor Tornieri, che avrebbe avuto tra i suoi figli, Filippo, padre per l’appunto di Lorenzo Tornieri, il quale era nato nel l656 [39] . Una nobiltà troppo recente perché non fosse considerata con una buona dose di sufficienza da parte della più antica nobiltà vicentina. Ma Lorenzo Tornieri, vero creatore della fortuna della propria famiglia, aveva saputo ben gestire la nuova posizione sociale raggiunta. A questa capacità aveva inoltre saputo unire, come pochi, una profonda ed acuta predisposizione a cogliere la sensibilità e l’animo di chi gli stava vicino. L’eredità pervenutagli da Anna Ferramosca denotava queste qualità.

Ma gli eredi di Lorenzo Tornieri erano destinati a divenire tra i più grandi proprietari terrieri vicentini di lì ad alcuni anni, in virtù del testamento, apparentemente bizzarro, che il conte Gaspare Arnaldi redigeva nel 1726 dalle prigioni veneziane del Consiglio dei dieci, in cui era stato condannato a rimaner chiuso per tutta la vita per fatti di cui era stato ritenuto colpevole alcuni anni prima [40] . Una condanna per cui l’Arnaldi non s’era dato pace, che l’aveva tormentato in tutti quegli anni trascorsi in carcere e che l’aveva persino spinto a precludere la possibilità di un matrimonio segreto della moglie, «perché havendo sofferto molti persecutori non voglio che tal uno di questi divenisse marito e poi godere il frutto della mia eredità e facoltà». Come erede l’Arnaldi designava il primo figlio maschio, che avrebbe dovuto chiamarsi Arnaldo Arnaldi, che sarebbe nato da uno dei quattro figli maschi di Lorenzo Tornieri [41] . Gaspare Arnaldi giungeva a questa risoluzione per ripagare la casa Tornieri di tutte le cure ed attenzioni che i suoi membri gli avevano prestato durante la prigionia. Ma probabilmente si trattava anche di una decisione che esprimeva il senso di rivalsa che Gaspare Arnaldi aveva accumulato durante la sua prigionia nei confronti di una nobiltà nell’ambito della quale egli aveva individuato alcuni suoi persecutori e che gli permetteva di rompere quegli schemi, quelle strutture informali che sorreggevano gli assetti e gli equilibri nobiliari. Ora una famiglia di parvenus veniva proiettata, con il suo nome e con le sue ricchezze, all’interno della struttura di potere nobiliare.

Nella figura di Lorenzo Tornieri si concretizzava egualmente il destino del ramo di una più antica famiglia, quella dei Ferramosca, che pur avendo fallito nel suo tentativo di ricompattazione e pur esprimendo vistosamente le sue contraddizioni interne, aveva saputo manifestare l’estrema raffinatezza delle strutture che in maniera informale sorreggevano l’assetto di potere nobiliare. In un sistema giuridico e consuetudinario che privilegiava nella trasmissione del patrimonio la linea maschile e lo spirito di stirpe, il ruolo della donna, lungi dal Costituire una mera funzione di scambio tramite cui si stabilivano alleanze e parentele, poteva divenire, proprio in virtù di quei simboli in negativo, che socialmente la rappresentavano, uno strumento malleabile, che permetteva alla struttura di potere nobiliare di rinsaldare e potenziare le sue fila, aggirando di fatto quei vincoli che ne costituivano l’asse portante [42] .

Un filo sottile e quasi invisibile collega la tragica figura di Anna Mascarello a quella di un Lorenzo Tornieri, il quale aveva saputo coniugare la logica dell’interesse familiare con quella di un ideale di vita più armonioso ed equilibrato. Un filo tracciato da drammi e conflitti, per lo più silenziosi e che talvolta potevano emergere come nel caso delle due donne di cui si sono narrate le vicende, concretizzandosi in vivide figure di protagonisti.


[1] Sulla figura del Tommasini (o Tornasini), che a causa della sua opera subì un processo, si soffermò nel secolo scorso D. Bortolan, Un genealogista processato, in «Atti dell’Accademia Olimpica di Vicenza», XXII (1888), pp. 103-138. Ma si veda anche, per altre testimonianze ed osservazioni E. Franzina, Vicenza. Storia di na città, Vicenza 1980, pp. 9 e 70-71.

[2] Il Tommasini poté forse disporre di alcuni documenti almeno degli archivi privati della famiglia Ferramosca. Il volume contestatogli si trova oggi presso la biblioteca civica Bertoliana di Vicenza (= BCB), ms. Gonz. 26.8. Attualmente è possibile consultare, sempre alla Bertoliana, il Catastico di tutte le carte sì pubbliche che private di ragione del N.S. Conte Leonardo Ferramosca, redatto in due tomi nel 1805 da Girolamo Voltolini. All’archivio di stato di Vicenza (=ASVI) esiste inoltre il fondo privato di un altro ramo della famiglia, provvisto di un Sommario per ordine cronologico degli istromenti, scritture private, testamenti, codicilli, estimi, etc. tutto attinenti ad un colonello estinto Ferramosca e di un analogo Indice per alfabeto.

Il conte Girolamo da Schio, cultore di memorie patrie e nobiliari, nel suo noto manoscritto Persone memorabili in Vicenza (BCB, mss. 3403-3404) affermava nel secolo scorso di disporre («presso di me») dell’archivio privato del ramo principale della famiglia, che a metà del ‘600 sarebbe stato cooptato dall’aristocrazia veneziana. Non mi risulta che tale fondo sia oggi depositato presso biblioteche od archivi pubblici della città.

[3] Non esiste ancora uno studio specifico su questa importante e prestigiosa istituzione, che si collocava in posizione influente nell’ambito del centro di potere cittadino. Per alcune indicazioni di fondo cfr. B. Bressan, Serie dei Podestà e dei Vicari della città e territorio di Vicenza con lo statuto e la matricola de’ dottori collegiali vicentini durante la signoria veneziana, Vicenza 1877. Presso l’archivio di stato di Vicenza, fondo Corporazioni soppresse, è conservata una parte dell’antico archivio del Collegio, comprensiva, tra l’altro, dei fascicoli processuali che venivano istruiti in occasione dell’accesso dei nuovi membri.

[4] Su questa burocrazia itinerante, relativamente a Vicenza, cfr. C. Povolo, Da una città suddita dello stato veneziano, in «Società e storia», 40, (1988), pp. 291-293

[5] Per l’ambasceria all’imperatore si veda il manoscritto del Tommasini citato poco sopra; il riferimento all’eredità Dalle Tavole è tratto dal Catastico di tutte le carte…, ms. cit.

[6] Per queste notizie rinvio alle genealogie del Tommasini e del da Schio, citate precedentemente.

[7] Interpretazione, quest’ultima, avanzata in quel mio breve saggio ricordato poco sopra. I riferimenti ai rapporti con altre famiglie sono tratti, qui come altrove, dai fondi privati Ferramosca e dalle tavole genealogiche del Tommasini e da Schio.

Sintomo di un certo stato di disagio e delle tensioni esistenti nell’ambito dell’aristocrazia vicentina è il testamento di Giovan Battista Valmarana di Antonio. Nel 1609 egli designava come eredi entrambi i figli Antonio e Piero. Ricordando «l’horibil caso» che aveva coinvolto il figlio Antonio, per cui era stato «dellegato et presentato nelle pregioni dell’eccelso Consiglio di dieci et.. havuto in tormentis et rellasciato», li esortava a vivere da «boni christiani et poi fideli al Ser. Principe di Veneria, nostro natural signor». I due figli e i loro eredi avrebbero dovuto essere privati dei loro diritti qualora in futuro avessero commesso delitti che li privassero della «gratia del Ser. Principe». Che non si trattasse di una mera clausola difensiva, per evitare l’analoga e rovinosa sorte cui erano andate incontro molte altre famiglie nobiliari, di seguito ai provvedimenti penali in cui erano incorsi taluni loro esponenti, è del resto attestato dalla clausola successiva tramite cui Giovan Battista Valmarana sottoponeva tutti i suoi beni al vincolo del fidecommisso. Se i suoi figli fossero rimasti senza eredi, egli aggiungeva, il suo patrimonio avrebbe dovuto andare ad alcuni altri rami della famiglia Valmarana, Ma coloro cui fosse giunto il suo patrimonio non avrebbero dovuto «haver pensione di sorte alcuna da Principe straniero se non havessero licentia dalla Serenissima Repubblica». Giovan Battista Valmarana intendeva evidentemente escludere con questa clausola quel ramo dei Valmarana, notoriamente filo imperiale, che aveva come suo massimo e prestigioso esponente Leonardo, il quale riceveva una congrua pensione dal re di Spagna, verso cui non si peritava di nascondere le sue simpatie (ASVi, Notai di Vicenza, busta 934, 20.1.1609).

[8] ASVI, Corporazioni soppresse, reg. 2784, c. 7.

[9] Archivio di stato di Venezia (= ASV), Capi del consiglio dei dieci Giuramento dei rettori, reg. 4.

[10] BCB, Fondo privato Ferramosca, libro E, cc. 178-193. Negli anni ‘60 e ‘70 del ‘500 Girolamo Ferramosca fu ripetutamente assessore in alcune città dello stato veneto, cfr. ASV, Capi del Consiglio dei dieci, Giuramenti dei rettori, reg. 4

[11] Dagli ultimi decenni del ‘500, Ettore Ferramosca ricopre ripetutamente le più importanti cariche politiche della città, cfr. BCB, Archivio Torre, reg. 866-867

[12] Per un caso, fra i tanti, a titolo di esempio. cfr. BCB, Archivio Torre, reg. 866, e. 176, 14 ottobre 1393: invio di quattro ambasciatori, tra cui il Ferramosca, per ovviare alla richiesta della Scuola dei bombardieri di essere sottoposta al foro del Capitano.

[13] Per questo incarico cfr. ASV, Collegio, Lettere segrete, filza 42: Provveditori soprainiendenti alla camera dei confini, buste 115-117; Senato Terra; reg. 75, c. 168.

[14] ASVI, Notai di Vicenza, busta 8766, alla data 17.3.1593.

[15] Alcuni suoi consulti in ASV, Consultori in jure, filze 481, 527, 530, 368, 573.

[16] ASV, Avogaria di comun, filza 1.

[17] Le poche notizie su di lei sono tratte dal da Schio, Persone memorabili. ms. cit.

[18] Nel suo testamento (ASV, Notai, Testamenti, busta 657, 9 maggio 1560) Anna Mascarello si dichiara vedova in secondo matrimonio del Mainente. Questi però, a detta del da Schio, che ebbe il modo di vederne il testamento, dichiarò Isabella sua figlia «naturale». Probabilmente i due avevano contratto un matrimonio segreto

[19] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153.

[20] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153: registrazione del matrimonio avvenuto il 18 maggio 1643; la registrazione di battesimo dell’altro figlio, Cesare, designava Elisabetta Stradiotta come concubina

[21] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153

[22] ASVI Fondo Ferramosca, mazzo 150: testamento dell’11 agosto 1648

[23] Cfr. a tal proposito Franzina, op. cit., p. 534.

[24] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153: battesimo impartito nella cattedrale di Vicenza il 14 marzo 1645.

[25] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 164.

[26] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 161

[27] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 162

[28] Nella lettera dell’8 ottobre 1659 Girolamo Ferramosca scriveva: «Oggi ho avuto una lettera dell’Anna, è allegra e sta bene, non vedo I’hora che siamo a febbraio, serà finito tutto», ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 161.

[29] ASVI Fondo Ferramosca, mazzo 164.

[30] Ho tratto queste notizie dal da Schio, Persone memorabili…, ms. cir., che pure, a proposito del suocero di Anna riporta: «Uno degli uomini che più di altri hanno goduto in vita della stima dei concittadini. Dopo la sua morte si rinvenne a casa sua in uno scrigno un bacino di metallo d’oro frutto delle sue stronzature.

[31] ASV, Capi del Consiglio dei dieci, Lettere dei rettori, busta 233: lettera del 24 settembre 1678.

[32] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 163: accordo stabilito in Venezia il 12 settembre 1670.

[33] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 160.

[34] Debiti per imposte non pagate e che Anna nel 1708 ottiene dal Consiglio dei cento della città di versare in più rate, ASV1, Fondo Ferramosca, mazzo 88.

[35] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153.

[36] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 153; nel 1729 il podestà di Vicenza emetteva una sentenza a favore degli eredi di Cesare, ibidem, mazzo 150.

[37] I contrasti con i figli sono ampiamente documentati in ASVI, Fondo Ferramosca, mazzi 86-88

[38] ASVI, Fondo Ferramosca, mazzo 166.

[39] Sulla famiglia Tornieri si veda il lavoro di G. e N. Garzaro, La madonnetta di Casa Torniero in Montecchio Precalcino, Vicenza 1983.

[40] Sulla figura dell’Arnaldi cfr. G. Cozzi, «Ordo est ordinem non servare»: considerazioni sulla procedura penale di un detenuto dal Consiglio dei dieci, in «Studi storici», 29 (1988), pp. 309-320.

[41] ASVI, Fondo Piovene Orgiano, mazzo 71.

[42] Un fenomeno che probabilmente era più diffuso nell’ambito del patriziato veneziano, che non nelle aristocrazie di terraferma, maggiormente vincolate da schemi e codici culturali che mediavano con notevole rigidità l’inevitabile osmosi con i nuovi ceti.