3.2 L’eredità di Polissena

Il seguente saggio apparve nel 1992 nel volume offerto dal Dipartimento di studi storici a Gaetano Cozzi. Ho mantenuto inalterato il testo di allora, anche se i riferimenti bibliografici andrebbero integrati, così come alcune notizie più dettagliate inerenti Vincenzo Scroffa e la famiglia della moglie Violante. Va pure aggiunto che l’appassionante vicenda avrebbe meritato di essere affrontata in maniera più estesa per le sue implicazioni politiche e successorie. In ogni caso il saggio si sofferma su alcune questioni importanti inerenti la vita politica veneziana degli inizi del Secento (cfr. il punto precedente). Di seguito s’inseriscono alcuni dei documenti allora utilizzati, che meglio si prestano ad esaminare alcuni dei problemi delineati.

POLISSENA SCROFFA, FRA PAOLO SARPI E IL CONSIGLIO DEI DIECI. UNA VICENDA SUCCESSORIA NELLA VENEZIA DEGLI INIZI DEL SEICENTO

Claudio Povolo

Il 2 marzo 1612 Vincenzo Scroffa dettò il suo testamento al notaio Medoro Rigotto [1] . Egli non esercitava e non aveva mai esercitato alcuna di quelle attività che all’epoca lo avrebbero potuto collocare nella pur varia categoria professionale dei giuristi, ma non era certamente un uomo digiuno di diritto [2] . Di sicuro doveva conoscere molto bene il modo di testare che era allora in uso sia nella sua città di Vicenza che a Venezia, in cui aveva vissuto per lunghi anni. Ancora in quel secondo decennio del Seicento la prassi successoria nelle città della terraferma veneta era profondamente ispirata a norme e consuetudini assai antiche, che in gran parte trovavano un riscontro giuridico sia negli statuti municipali, che nelle più complesse elaborazioni giurisprudenziali d’impronta romanistica [3] .

Vincenzo Scroffa apparteneva a uno dei più antichi lignaggi aristocratici vicentini, che ancora rivestivano un ruolo importante nella conduzione della vita politica e amministrativa della città [4] . Ciascuno di questi lignaggi poteva vantare l’appartenenza di uno o più dei suoi membri al locale Collegio dei giudici. I loro archivi familiari cominciavano inoltre ad ampliarsi di documenti e di fascicoli processuali, intervallati da alberi genealogici che testimoniavano sia il passato illustre della casa che le sue vicende patrimoniali [5] .

Nel suo testamento Vicenzo Scroffa dimostrava però di possedere ben più di quella conoscenza superficiale che costituiva, in una certa misura, il patrimonio comune dei membri dell’aristocrazia cui apparteneva. Difficilmente, inoltre, un testamento come il suo poteva essergli stato suggerito da uno dei numerosi esperti di diritto che all’epoca affollavano sia il foro della sua città che quello della Dominante. Le modalità e le disposizioni in esso contenute non potevano provenire che dalla forma mentis di un uomo che conosceva in profondità lo spirito della legge e che era pure provvisto di un’esperienza alquanto originale. La successione ab intestato era stata regolamentata nei suoi principi fondamentali alla fine del terzo capitolo degli Statuti cittadini [6] . Così come in altre città dell’Italia Centro Settentrionale, nel caso di una persona defunta senza testamento, le leggi municipali vicentine prevedevano che i suoi beni venissero trasmessi agli credi, privilegiando nettamente i discendenti maschi legittimi e naturali. Pochi e incerti spazi erano dedicati alla successione testamentaria, la quale trovava invece una maggiore e ben più qualificata attenzione nell’elaborazione giurisprudenziale che era stata apprestata dai giuristi che si rifacevano direttamente al diritto comune [7] .

La sottolineatura che negli statuti municipali si faceva della successione legittima proveniva da una consuetudine plurisecolare di origine germanica, in cui i vasti poteri esercitati in precedenza dal pater familias romano avevano lasciato spazio a una forte coesione patrimoniale e personale della parentela, che aveva progressivamente esautorato il ricorso al testamento anche da parte della popolazione di origine e cultura latine. La profonda innervatura dei lignaggi aristocratici nelle città comunali italiane costituì il sostrato economico e politico, che permise la sostanziale continuità di un sistema successorio decisamente ispirato da valori ideologici imperniati sulla «casa» e sui legami di sangue. La successione per legittima garantiva evidentemente la coesione economica e politica della famiglia contro eventuali intemperanze o abusi da parte dei suoi membri. Il principio di agnazione e la filiazione patrilineare, che comportavano l’esclusione delle donne dalla successione legittima in presenza di figli maschi, erano solamente temperati dall’istituto della dote, che teoricamente doveva corrispondere alla quota di legittima [8] .

L’elaborazione giurisprudenziale del diritto romano nei corso del medio evo tentò di recuperare il ruolo e l’importanza che in quello aveva rivestito il testamento, testimoniando la forte influenza esercitata da ceti di giuristi qualificati sul piano dottrinario e politico. In realtà la previsione giuridica del testamento nelle leggi municipali ebbe per lo più il fine di favorire e di agevolare la successione legittima anche nelle situazioni piu complicate e difficili. La cosiddetta institutio heredis, che nel diritto romano aveva costituito l’essenza del testamento, prevedendo la trasmissione universale del patrimonio all’erede designato, perse molto del suo significato originario, di fronte al ruolo giocato dalla successione legittima nella conservazione e trasmissione del patrimonio della casa. La sua perdita d’importanza pose in secondo piano la classica distinzione tra testamento e codicilli o «cedole» testamentarie. Il testamento, come ancora ben dimostra la prassi successoria cinquecentesca, non sarebbe più essenzialmente servito per istituire un erede, bensì piuttosto a regolamentare una successione fitta di legati e di disposizioni varie, che potevano essere modificate o aggiustate in successivi codicilli, la cui natura giuridica era però divenuta la medesima [9] . Del resto, ad attestare il forte condizionamento cui era sottoposta la volontà del testatore stava ormai l’ampia diffusione di un istituto giuridico come il fedecommesso, il cui fine era di assicurare l’integrità del patrimonio familiare attraverso le successive generazioni [10] . I valori ideologici sottesi alla preminenza della successione legittima erano confermati dalle formalità giuridiche tramite cui i testamenti dovevano essere redatti [11] . A differenza di quanto avveniva nel mondo contadino, in cui era ampiamente diffuso il cosiddetto testamento «nuncupativo », dettato cioè dal testatore al notaio, negli ambienti aristocratici era assai comune ricorrere al testamento «solenne». Tale procedimento doveva avvenire alla presenza di ben sette testimoni, i quali, una volta che il notaio avesse chiuso l’atto testamentario, dovevano apporre sul retro la loro firma e un sigillo. Era questa formalità che caratterizzava la solennità del testamento, sia che esso fosse stato «segreto» e cioè consegnato chiuso al notaio, che dettato a lui apertamente dal testatore in presenza degli stessi sette testimoni. La conseguenza del testamento solenne consisteva essenzialmente nel fatto che esso, una volta chiuso, non era già insignito di quei requisiti giuridici che l’avrebbero reso immediatamente esecutivo alla morte del testatore, come invece avveniva nei testamenti nuncupativi. La sua «pubblicazione» sarebbe allora avvenuta «solennemente» con l’apertura del testamento da parte del notaio davanti al podestà della città e in presenza di almeno due dei sette testimoni, che avrebbero dovuto riconoscere la loro scrittura e il loro sigillo. La sanzione giuridica apposta dal massimo rappresentante della città qualificava dunque il testamento aristocratico, garantendo con il rispetto della volontà del testatore la continuità dei valori ideologici e culturali della casa. Una terza possibilità, non molto frequentemente usata in terraferma, consisteva nel testare tramite un semplice codicillo, scritto e sottoscritto dal testatore e poi conservato presso di lui o consegnato a un notaio. Era la cosiddetta maniera di testare per via di «cedola alla veneta», che acquisiva però le formalità del testamento segreto nel momento in cui la consegna al notaio avveniva alla presenza dei consueti sette testimoni [12] . La complessa e elaborata procedura formale adottata nella prassi successoria diffusa tra le aristocrazie di terraferma esprimeva sul piano rituale la stretta compenetrazione tra i valori ideologici della casa e la simbologia sottesa all’atto testamentario.

Il 2 marzo 1612 nella casa di Vincenzo Scroffa, posta nella contrada di Santa Lucia, poco fuori le mura di Vicenza, oltre al notaio erano pure presenti, tra i testimoni, sei esponenti della nobiltà [13] . Ma lo Scroffa non aveva voluto ricorrere ai classico testamento solenne. Nel dettare le sue volontà al notaio egli annunciò di avere pure preparato due cedole segrete, le quali avrebbero dovuto essere aperte, l’una al momento della sua morte e l’altra nel gennaio del 1619, quando la nipote Polissena avesse raggiunto l’età di quindici anni. L’aristocratico vicentino, a diversità della prassi successoria diffusa all’epoca, dimostrava però di recuperare quella nozione giuridica del testamento che il diritto giurisprudenziale aveva elaborato sulla scorta del diritto romano. «Il fondamento delli testamenti è l’institutione dell’berede», egli infatti annunciò da subito, designando come sua erede universale la piccola nipote Polissena. Ai due codicilli segreti egli riservava invece il compito di prevedere disposizioni importanti, ma subordinate a quanto era previsto nello stesso testamento [14] . Vincenzo Scroffa, ricorrendo a formalità non solenni e non segrete [15] , aveva dunque voluto connotare simbolicamente il proprio testamento tramite quell’institutio heredis, che da tempo era ormai passata in secondo piano, di fronte a una prassi successoria ricca di legati e disposizioni varie. Che egli non volesse però allontanarsi dai valori ideologici che pervadevano intensamente la vita del lignaggio aristocratico, lo dimostravano le altre disposizioni inserite nel testamento. La designazione a erede della piccola Polissena era infatti accompagnata da una clausola giuridica molto antica, chiamata «sostituzione pupillare» [16] tramite la quale il padre poteva stabilire un erede al figlio o al discendente impubere, nell’ipotesi che questi potesse morire prima di aver raggiunto la capacità di testare [17] . Vincenzo Scroffa annunciava dunque che l’istituzione a erede di Polissena era subordinata a un fedecommesso, i cui presupposti erano impliciti nelle clausole previste nella seconda cedola [18] . Tutto lasciava prevedere che la sostituzione fosse diretta a beneficiare la discendenza di Polissena. In pratica ella sarebbe divenuta erede di tutti i beni del nonno, ma avrebbe dovuto destinarli, tali e quali, ai propri figli maschi [19] .

Lo spirito della casa aristocratica era dunque ben presente in Vincenzo Scroffa. Egli ricordò, inoltre, come Polissena fosse la sua unica discendente e come tale dovesse sposarsi tenendo presente le sue volontà. A tal fine aveva preparato quella seconda cedola, una copia della quale avrebbe dovuto essere depositata presso la Cancelleria ducale veneziana. Se Polissena non avesse aderito a quanto egli aveva deciso in merito al suo matrimonio, ella avrebbe dovuto accontentarsi di quanto la successione legittima prevedeva. Era dunque il destino del suo lignaggio che, insieme a quello della nipote, più preoccupava l’anziano aristocratico vicentino. I suoi timori e le sue speranze erano racchiusi in quella seconda cedola, che ancora nessuno conosceva; ma già nel testamento egli lasciava trapelare come avesse ben fondati motivi per temere che le sue volontà potessero non essere rispettate:

perchè a detto signor testator è molto ben noto, come è nota a tutto il mondo la carità et la pietà con la quale questa Serenissima Repubblica vuole et commanda che siano essequite le volonta de’ testatori. Et però dubitando che possa succedere che mancando esso signor testator possa o per malitia o per altro mezo non haver essecutione la sua volontà et che da alcuno sia fatto dissegno o sopra la vita o sopra la robba di detta sua nezza, però suplica con ogni humiltà, che seguita la morte di esso testatore sia presa la protettione di questa figliola dalli ill. et ecc. Sig. Capi dell’eccelso Consiglio di diece [20]

Vincenzo Scroffa affidava dunque le sue ultime decisioni ai Capi del Consiglio dei Dieci, i quali avrebbero inoltre dovuto provvedere all’apertura della seconda cedola, assicurandosi che Polissena sposasse la persona che egli aveva prescelto.

Vincenzo Scroffa possedeva un immenso patrimonio, in gran parte non vincolato da precedenti disposizioni fedecommissarie e perciò la scelta esplicita di ricorrere nel proprio testamento all’insitutio heredis, poteva derivare dalla necessità di indicare senza ambiguità il suo erede. I richiami ai valori ideologici della casa e la richiesta di protezione rivolta ai Capi del Consiglio dei Dieci indicavano però come nella distinzione tra testamento e codicilli, cui egli era ricorso nell’esprimere le sue volontà, giocassero considerazioni ben più complesse, che traevano origine dal suo passato. Nato a Vicenza nel 1539, Vincenzo Scroffa aveva dovuto abbandonare la città nel 1568, di seguito al coinvolgimento in una grave rissa sorta tra alcuni giovani dell’aristocrazia vicentina [21] . Colpito dal bando, si era rifugiato a Venezia. Nella città lagunare conobbe Gaspare Ribeira, un ricco mercante ebreo portoghese, che si era convertito al cristianesimo. Ne sposò la figlia Violante e si diede alla mercatura insieme al vecchio suocero. Sospettato di giudaismo, ne1 1580 Gaspare Ribeira venne processato dall’Inquisizione e morì l’anno seguente mentre era ancora in corso il procedimento penale avviato contro di lui [22] . Dopo la morte della moglie Violante, Vincenzo Scroffa ritornò a Vicenza con il giovane figlio Giulio Cesare.

Erede dell’immenso patrimonio dei Ribeira e dopo aver vissuto vent’anni nella città lagunare, a contatto di un mondo estremamente complesso per la sua collocazione ai confini di valori culturali e religiosi per molti versi antagonisti, Vincenzo Scroffa ritornò alla città natia provvisto di un’esperienza straordinaria. La nuova e più prestigiosa situazione economica venne sancita sul piano sociale dal matrimonio del figlio Giulio Cesare con Paola Martinengo, appartenente a una delle più potenti famiglie della terraferma. L’alleanza con la ricca famiglia bresciana era però destinata a interrompersi bruscamente per la morte precoce di Giulio Cesare, al quale era sopravvissuta un’unica figlia, di nome Polissena, che passò sotto la tutela del nonno [23] . in possesso di un enorme patrimonio e privo di discendenza maschile, Vincenzo Scroffa, ormai superati i settant’anni e dopo una vita avventurosa, vide nel recupero dei valori ideologici della casa la definitiva ancora di salvezza. Il suo voleva essere un ritorno alle origini, a quel passato da cui l’avevano strappato esperienze traumatiche, che l’avevano profondamente segnato. Il cammino che egli con intraprendenza, spinto anche dalla sorte, aveva compiuto verso l’esterno della consueta esperienza, contrassegnata dalla città natia, dalle sue tradizioni, dai suoi equilibri di potere, si era rivelato fallimentare [24] . Gli rimaneva ora, unica e preziosa, la piccola nipote Polissena, cui spettava il compito di proseguire l’antichità e il prestigio della casa. Ma come avrebbe potuto assicurarne il futuro? L’aveva designata erede, senza alcuna ambiguità e ricorrendo ai più sofisticati meccanismi giuridici, che godevano di un’autorità avallata dalla più illustre giurisprudenza.

Sulla nipote avevano però posto le loro mire persone potenti e influenti, legate da rapporti clientelari e di dipendenza con la stessa Dominante. Il conte Giovanni Martinengo si era già fatto avanti, chiedendo la mano di Polissena. Era un uomo potente. La madre era una da Porto, appartenente a uno dei più prestigiosi lignaggi aristocratici della città. Vincenzo Scroffa aveva rifiutato la nuova alleanza [25] . Non voleva persistere nei vecchi errori nei confronti della nipote Polissena. Solamente recuperando gli antichi valori della casa avrebbe potuto garantirne il futuro. Intuiva però che con quel rifiuto si era procurato dei nemici irriducibili. Con il testamento solenne e aperto cui era ricorso, Vincenzo Scroffa aveva voluto far intendere chiaramente a tutti come egli avesse ormai già predisposto il matrimonio della nipote. La designazione dello sposo in una cedola segreta derivava sia dalla necessità di non voler interferire, con questa decisione, nell’istitutio heredis prevista nel testamento, non prestando il fianco a cavilli giuridici, sia dall’intenzione di frenare le mire del potente gruppo avversario. La richiesta di protezione, rivolta ai Capi del Consiglio dei Dieci, costituiva il cesello politico di un elaborato disegno giuridico. Quei lunghi anni trascorsi nella Dominante e le vicende giudiziarie che l’avevano coinvolto insieme al suocero erano affiorate probabilmente nella sua mente mentre aveva assunto questa decisione.

Vincenzo Scroffa venne ucciso nell’agosto del 1613 da alcuni sicari inviati dal conte Giovanni Martinengo [26] . Con la sua morte fu aperta la prima cedola, in cui l’aristocratico vicentino aveva previsto una serie numerosa di ricchi legati alle istituzioni assistenziali della città [27] . Nei primi giorni di gennaio del 1619 il Consiglio dei Dieci ordinò infine l’apertura della seconda cedola. Vincenzo Scroffa aveva dato due possibilità alla nipote Polissena: avrebbe dovuto scegliere il suo sposo tra Ottavio Scroffa e Antonio Scroffa, appartenenti a due diversi rami collaterali della sua casa. Qualora avesse rifiutato, ella non avrebbe potuto pretendere che la legittima, mentre quasi tutto il rimanente dei suoi beni avrebbe dovuto essere distribuito a istituti assistenziali. Dopo la morte del nonno, Polissena era stata posta nel monastero di Santa Lucia di Vicenza. Conosciute le disposizioni dell’avo, ella pregò subito i rettori di Vicenza di poter presentare una propria scrittura ai Capi del Consiglio dei Dieci [28] . Sin da questo momento Polissena dimostrò di non gradire quanto Vincenzo Scroffa aveva predisposto sul suo destino, muovendosi con tale abilità e accortezza da lasciar intuire come dietro a lei ci fosse qualcuno che si era insinuato nel suo animo e mirasse a vanificare le disposizioni testamentarie che la volevano vincolata a una precisa scelta.

Di fronte alla richiesta della giovane, i Capi del Consiglio dei Dieci si rivolsero per consiglio a fra Paolo Sarpi e Servilio Treo. I due consultori furono dell’avviso che Polissena dovesse esprimere subito le sue intenzioni, manifestando la sua scelta nei confronti dei due che il nonno le aveva destinato. Messa alle strette, il 25 gennaio 1619 Polissena Scroffa si decise per Antonio Scroffa. Poiché questi non aveva superato che da poco i dodici anni, il matrimonio non avrebbe però potuto essere celebrato subito. In un lungo e bellissimo consulto fra Paolo Sarpi espose ai Capi le sue riflessioni sul caso. Il servita osservava come il testamento dello Scroffa fosse stato redatto con estrema abilità giuridica, ma l’aristocratico vicentino non aveva previsto che, all’apertura della seconda cedola, Antonio Scroffa non avrebbe ancora raggiunto l’età canonica al matrimonio, che per l’uomo era fissata ai quattordici anni. Egli aveva bensì aggiunto che, se fosse insorto «qualche accidente», il matrimonio avrebbe potuto essere rinviato [29] . Ma, osservava il Sarpi, non era questo il caso. Considerata la scelta di Polissena, il contratto matrimoniale tra i due giovani non avrebbe potuto infatti essere differito ed ella, avendo raggiunto i quindici anni, ne sarebbe stata vincolata. Ma nella scelta della giovane il servita colse subito l’insidia [30] . Il testamento di Vincenzo Scroffa aveva in effetti suscitato una generale contrarietà e probabilmente la scelta di Antonio Scroffa era stata voluta per aggirare le rigide disposizioni testamentarie. Se Polissena, pur non potendolo fare de iure, avesse de facto rotto gli sponsali de futuro stabiliti con Antonio Scroffa, la celebrazione di un matrimonio per verba de prasenti con altra persona sarebbe certamente stata considerata valida. Molto probabilmente, aggiungeva il servita, «il contratto primo resterebbe annullato e poi si potrebbe promover lite se ella havesse satisfatto col primo contratto all’obligatione impostali dall’Avo». Si trattava, infatti, di materia di sponsali e di matrimonio, le cui cause giudiziarie erano di tradizionale competenza ecclesiastica [31] . Per aggirare l’insidia, fra Paolo Sarpi propose allora un singolare contratto matrimoniale: i due giovani, distintamente e separatamente, avrebbero dovuto scambiarsi una reciproca promessa di matrimonio davanti a un rappresentante degli stessi Capi del Consiglio dei Dieci. Cosicché se Polissena avesse celebrato un altro matrimonio, aggiungeva il servita, «sarebbe irretrattabile de iure et se de facto ella volesse contravenirli perderebbe il beneficio del testamento».

La proposta di fra Paolo Sarpi era un sottile marchingegno, che tra l’altro, in una materia assai delicata e controversa, gli offriva l’occasione di sottolineare la sacralità insita nel potere politico. Una sacralità che, secondo il pensiero sarpiano, avrebbe ben potuto e dovuto imporsi a quella più ambigua e strumentale del potere ecclesiastico [32] . I Capi del Consiglio dei Dieci accolsero i consigli del servita e Polissena, pur riluttante, dovette acconsentirvi. La partita non era però che alle prime mosse. A chi stava dietro a Polissena non rimaneva che una scelta: nel 1613 il Consiglio dei Dieci aveva delegato a un’altra magistratura ogni contesa che fosse insorta sul patrimonio di Vincenzo Scroffa. Nel maggio del 1619 l’avvocato di Polissena presentò davanti al magistrato del Sopragastaldo una scrittura in cui esponeva come la sua assistita avesse acquisito diversi diritti sul patrimonio del nonno. Ella infatti pretendeva la sua quota dei beni dei Ribeira, che erano appartenuti al padre e al fratello defunti. Si trattava di pretese legittime, come avrebbero ben presto constatato i commissari testamentari, ma in tal modo alla giovane sarebbe pervenuta una grossa parte dell’intera facoltà del nonno, disattendendone in sostanza l’effettiva volontà. Si poteva ormai legittimamente sospettare che Polissena mirasse a ottenere pure il riconoscimento della legittima a lei spettante, senza una sua esplicita dichiarazione in merito al matrimonio, la cui competenza era ormai dei Capi del Consiglio dei Dieci, e soprattutto senza una rinuncia formale sul rimanente del patrimonio. Cosa che sarebbe invece avvenuta se ella avesse esplicitamente rifiutato di sposare Antonio Scroffa. In alcuni successivi consulti fra Paolo Sarpi e Servilio Treo osservarono comunque che la causa, avviata dagli avvocati di Polissena al magistrato del Sopragastaldo, non dovesse in ogni caso interferire con il testamento di Vincenzo Scroffa. Solo con la formale rinuncia alle disposizioni in esso contenute la giovane avrebbe potuto pretendere la propria legittima. Frattanto ella poteva ben tentare di provare, per via giudiziaria, che non tutta la facoltà dei Ribeira spettava di diritto a Vincenzo Scroffa [33] .

I due consultori avevano però dimostrato di sottovalutare il peso che la vicenda aveva ormai assunto. Le ingiunzioni giudiziarie, inviate dagli avvocati di Polissena ai commissari testamentari perché rilasciassero non solo la parte dei beni dei Ribeira, che in via successoria avrebbero dovuto pervenirle, ma anche la sua quota di legittima, accrebbero la tensione [34] . La vicenda si era inoltre ingrandita. Era ormai chiaro a tutti che Polissena non intendeva sposare Antonio Scroffa, nonostante la promessa che aveva formalmente rivolta ai Capi del Consiglio dei Dieci. Le sue mosse davano anzi l’idea che ella volesse appropriarsi del patrimonio dell’avo [35] . Tutta Venezia, probabilmente, seguiva incuriosita lo svolgersi dei fatti, che per molti versi sembrano assumere i contorni del ridicolo, con inevitabile derisione del potere politico. Non erano probabilmente in pochi a vedere in Polissena l’abile fanciulla che era in grado di prendersi gioco del riverito e temuto Consiglio dei Dieci. In un consulto dell’11 settembre 1619 fra Paolo Sarpi osservava come fosse necessario chiudere rapidamente la vicenda, costringendo Polissena a esprimersi nei confronti delle decisioni del nonno, «passando fama per questa città che ella habbia altro dissegno». Se ella, com’era assai improbabile, avesse voluto mantenere la promessa di sposare Antonio Scroffa, avrebbe dovuto abbandonare ogni pretesa nei confronti della legittima sui beni dell’avo [36] . Di fronte alla minaccia, il 23 settembre seguente Polissena Scroffa presentò una scrittura ai Capi, affermando finalmente di non intendere di sposare Antonio Scroffa, una scelta che, aggiungeva, il nonno le aveva imposto «per sodisfare alla propria sua passione» [37] .

Richiesto di esaminare la scrittura della giovane, fra Paolo Sarpi osservò, in un nuovo consulto, come la vicenda potesse ora considerarsi chiusa. Con l’accettazione della legittima, conseguente all’esplicito rifiuto di Polissena di sposare Antonio Scroffa, la volontà manifestata dall’aristocratico vicentino nel suo testamento poteva considerarsi rispettata. Se la giovane avesse avuto diritto a una quota aggiuntiva dei beni che erano appartenuti ai Ribeira, sarebbe stata la causa giudiziaria in corso a stabilirlo. Rimaneva quella promessa fatta ai Capi del Consiglio dei Dieci, che poteva dimostrare una certa irriverenza, ma «la fragilità del sesso et dell’età», osservava il servita, inducevano all’indulgenza. Con accortezza egli rinviò al consulto steso il primo giugno precedente insieme a Servilio Treo, in cui aveva ricordato che «nondimeno, non ostante questo, tutte le leggi divine et humane ordinano che la libertà non le sia levata» [38] . Si poteva legittimamente supporre che l’episodio sarebbe infine rientrato nell’alveo della normalità, da cui l’imprevedibile testamento di Vincenzo Scroffa l’aveva fatto emergere. Sennonché il 26 settembre 1619 la maggioranza del Consiglio dei Dieci respinse la proposta che, su parere di fra Paolo Sarpi, era stata avanzata di far proseguire la causa giudiziaria alla magistratura del Sopragastaldo, nonché di ordinare a Polissena di presentarsi davanti ai Capi, che avrebbero dovuto accettarne la formale ammissione di rinuncia [39] . Il 17 ottobre successivo lo stesso Consiglio dei Dieci deliberò che, mentre proseguiva la causa giudiziaria, sarebbe però rimasta operante la protezione che esso aveva accordato alla giovane [40] . Ciò significava, in sostanza, che il supremo organo veneziano non accettava il rifiuto che in extremis Polissena aveva manifestato nei confronti delle proposte del nonno. In definitiva ella doveva sposare Antonio Scroffa, in quanto s’era impegnata in una promessa di matrimonio celebrata davanti ai Capi del Consiglio dei Dieci.

Polissena Scroffa venne trasferita in un monastero veneziano. Le fu concesso di essere visitata solo dai suoi avvocati, ma in presenza della madre badessa e di altre monache. Le sue lettere vennero intercettate [41] . Le veniva ora impedita una scelta che solo alcuni mesi prima avrebbe potuto tranquillamente intraprendere. Spinta dalla disperazione [42] , alla fine di maggio del 1620 presentò una supplica ai Capi del Consiglio dei Dieci affermando ancora una volta che non intendeva sposare Antonio Scroffa e d’essere piuttosto disposta ad abbandonare la causa giudiziaria che aveva avviato. La giovane suggerì che, tramite i rettori di Vicenza, le si proponessero quattro o cinque persone della città, tra le quali avrebbe scelto il suo sposo [43] . Richiesto di un nuovo consulto, fra Paolo Sarpi ribadì come fosse ormai opportuno accogliere l’istanza della giovane, anche perché in tal modo veniva a essere rispettata la volontà di Vincenzo Scroffa. Rinunciando ai due terzi del patrimonio dell’avo, essa avrebbe potuto sposarsi, dietro consiglio dei parenti, «in soggetto di qualità conveniente » [44] .

Ancora una volta il consiglio di Sarpi non venne accolto. La supplica di Polissena Scroffa cadde nel vuoto. La donna venne liberata il 20 settembre 1620, dopo essersi formalmente impegnata a sposare Antonio Scroffa [45] . La lontananza da casa, le pressioni dei parenti e l’incognita del futuro l’avevano vinta infine, a distanza di un anno, sull’avversione nei confronti di una scelta che le si era voluto imporre. L’aveva in ultimo spuntata il Consiglio dei Dieci, o meglio quel clima di curiosità e di pettegolezzo che la vicenda aveva attirato intorno a sé. Il supremo organo veneziano aveva inoltre voluto dimostrare che un impegno nei suoi confronti era dotato di quella sacralità insita in ogni forma superiore di potere. Ma dietro alla decisione del Consiglio dei Dieci stava forse un sottile richiamo al più illustre dei suoi consultori: ogni assunzione di principio, come egli ben sapeva, una volta che era stata intrapresa andava condotta fin in fondo, pena la perdita di dignità.

A ben guardare Vincenzo Scroffa poteva ritenersi soddisfatto. Profondo conoscitore del mondo veneziano, delle sue magistrature, dei suoi complessi intrecci di potere, l’aristocratico vicentino aveva probabilmente previsto una cosa: che l’affidamento delle sue ultime volontà alla suprema magistratura veneziana avrebbe infine finito per creare una situazione a cui gli stessi suoi protagonisti ben difficilmente avrebbero potuto sottrarsi. Di certo, quel suo desiderio di ricreare un passato da cui le vicende della vita l’avevano traumaticamente allontanato si realizzò: la sua casa assurse a nuovo splendore e nel 1698 il nipote di Polissena e Antonio Scroffa, di nome Vincenzo, divenne patrizio veneziano [46] .

La scelta di Vincenzo Scroffa di affidare l’esecuzione del suo testamento ai Capi del Consiglio dei Dieci si colloca, comunque, in un contesto sociale e politico che proprio dalla seconda metà del Cinquecento aveva iniziato ad assumere una nuova fisionomia. La perdita di identità politica da parte delle aristocrazie di terraferma e la sostanziale delegittimazione dei centri sudditi avevano notevolmente complicato i percorsi della conflittualità giudiziaria. I tribunali del centro dominante avevano decisamente ampliato la loro sfera d’influenza, creando dei contraccolpi sull’attività delle magistrature civili e penali dei centri sudditi. Alla base della decisione assunta dall’aristocratico vicentino stava evidentemente la consapevolezza di come anche i più sofisticati strumenti giuridici non avrebbero potuto reggere di fronte a una conflittualità giudiziaria che sarebbe ricorsa strumentalmente ai tribunali veneziani [47] . Le alleanze e l’influenza di cui poteva disporre la potente consorteria avversaria gli consigliarono probabilmente di assumere l’iniziativa, contrassegnando politicamente e in base alla comprensione della sottile logica che animava la struttura di potere veneziano, scelte che traevano la loro ispirazione giuridica dalla più sofisticata elaborazione giurisprudenziale.

Gli stessi assetti legislativi locali si sarebbero d’altronde ridefiniti sotto la spinta di una conflittualità che non poteva più essere controllata da magistrature private dell’esercizio di autorità politica. Quelle consuetudini, che per secoli avevano contrassegnato la vita giuridica e amministrativa dei centri sudditi [48] e la cui funzione consisteva tra l’altro nel permettere ai ceti aristocratici dirigenti di risolvere agevolmente le proprie contraddizioni, furono costrette a emergere [49] per inserirsi nelle numerose riedizioni statutarie che nel corso del Sei-Settecento apparvero in quasi tutte le città della terraferma [50] . Affiancandosi ai precedenti giudiziari dei grandi tribunali della Dominante, la nuova normativa assunse così una diversa fisionomia giuridica, regolamentando i più complessi rapporti che sul piano antropologico e politico si erano venuti a intrecciare tra centro e periferia [51] .


[1] Il testamento di Vincenzo Scroffa è conservato a Vicenza, Archivio di Stato (in seguito ASVi), Notai di Vicenza, b. 9356. Su questo aristocratico vicentino si e soffermato G. Mantese, Lo storico vicentino p. Francesco da Barbarano O.F.M. Cap 1596-1656 e la sua nobile famiglia, in «Odeo olimpico», IX-X (1970-73), pp. 129-34.

[2] Mantese, ibid., p. 127, riporta una sentenza arbitraria pronunciata dallo Scroffa nel 1608 per dirimere una controversia in materia di dote.

[3] Su questa materia, anche se con particolare riferimento a Vicenza, si soffermò Antonio Lorenzoni nelle sue Istituzioni del diritto civile privato per la provincia vicentina, 2 torni, Vicenza 1785, I, pp. 69-234.

[4] Sugli Scroffa cfr. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana (in seguito BCBVi), Giovanni da Schio, Persone memorabili in Vicenza, rns. 3397.

[5] Intorno a questo problema cfr. il numero 46 (1991) delle « Annales E.S.C.», dedicato a La collare généalogique , in particolare il testo di R. Bizzocchi, Culture généalogique dans l’Italia da seizième siècle , pp. 789-805.

[6] Jus municipale vicentinum, Venezia 1567.

[7] Intorno a questi problemi, di cui si prospettano qui di seguito solo alcune indicazioni di carattere generale, cfr. E. Besta, La successione nella storia del diritto italiano, Padova 1935; C. Giardina, voce Successioni (Diritto intermedio), in Novissimo digesto italiano, XVIII, Torino 1971, pp. 727-751; M. Bellomo, voce Erede (Diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XV, Milano 1966, pp. 184-95.

[8] Cfr. F. Zonabend, Della famiglia. Sguardo etnologico sulla parentela e la famiglia, in Storia universale della famiglia, trad. it. a cura di A. Leone, 2 voll., Milano 1987-88, I, pp. 15-76. Su questi problemi e sul dibattito storiografico ancora in corso si vedano: J. Goody, Inheritance, Property and Women: Some Comparative Considerations, in Familv and lnheritance Rural Society in Western Europe, 1200-1800, a cura di J. Goody, J. Thirsk, E.P. Thompson. Cambridge 1976, pp. 10-36; D. Owen Hughes, From Brideprice io Dowrt in Mediterranean Europe, in «Journal of Family History», 111(1978), pp. 262-96; T. Kuehn, Law, Family, Women. Toward a Legai Anthropology of Renaissance Italy , Chicago 1991.

[9] Un’ampia casistica testamentaria per Vicenza è riportata nei lavori di G. Mantese, in particolare Memorie storiche della Chiesa vicentina, 3/Il, Vicenza 1964, e 4/I-I!, Vicenza 1974.

[10] M. Caravale, voce Fedecommesso (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XVII, Milano 1968, pp. 109-14.

[11] Lorenzoni, Istituzioni cit., I, pp. 86-90.

[12] In ogni caso queste cedole avrebbero dovuto essere «pubblicate» all’Ufficio del sigillo della città, che avrebbe svolto la funzione del notaio. In un’anonima scrittura settecentesca si osserva come questa forma di testare fosse «di uso non molto frequente»: BCBVi, Archivio Torre, b. 506, fasc. 4, cc. 1-2, Circa li testamenti e! ultime volontà […]. Ovviamente anche il testamento nuncupativo richiedeva la presenza dei sette testimoni, il cui nome era riportato dallo stesso notaio. Il Lorenzoni ricorda inoltre anche il testamento per breviario, cui si ricorreva per imminente pericolo di morte e che veniva considerato valido anche alla presenza di soli due o tre testimoni. Su questo tipo di testamento, diffuso a Venezia, cfr. E. Garino, Insidie familiari. Il retroscena della successione testamentaria a Venezia alla fine del XVIII secolo, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, 11, Roma 1985, pp. 312-13.

[13] La presenza dei testimoni segnava spesso le complesse reti di alleanze che attraversavano e dividevano i lignaggi aristocratici cittadini. Al testamento di Vincenzo Scroffa erano presenti Eleno di Giovan Battista Fracanzan, Girolamo di Troilo Muzzan, Marzio di Francesco Muris, Conte di Giacomo Trissino, Lucio di Giuseppe Ghellini, Marcantonio di Girolamo Borselli, tutti nobili vicentini: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356

[14] Infatti nelle sue intenzioni «le dette cedule er il presente nuncupativo testamento» avrebbero dovuto costituire «un solo testamento et non dui, acciò sopra ciò non possa nascer alcuna difficoltà»: ibid.

[15] Il suo era dunque un classico testamento nuncupativo affidato al notaio e in quanto tale già insignito dei previsti requisiti giuridici, che l’avrebbero reso immediatamente esecutivo dopo la sua morte. Non così per le due cedole segrete, che avrebbero richiesto la pubblicazione davanti al podestà e alla presenza di alcuni dei testimoni che avevano assistito alla loro consegna al notaio. Il testamento segreto costituiva dunque, sul piano formale, un’ulteriore garanzia di affidabilità. Ma l’intenzione di Vincenzo Scroffa era che la sua designazione d’erede, sottoposta a delle clausole segrete, fosse resa pubblica. Il ricorso da parte di taluni aristocratici al testamento nuncupativo aveva in effetti per lo più il fine di rapportarsi immediatamente con i propri eredi. Un caso interessante è ad esempio il testamento di Francesco Trissino di Ludovico, altro esponente di rilievo dell’aristocrazia vicentina della seconda metà del Cinquecento: cfr. ivi, Archivio Trissino, b. 339, fase. 453, 18 luglio 1587.

[16] «Dechiara et vuole che il presente testamento ad ogni buon fine movente l’animo del detto signor testator resti palese che in dette cedule fa una sustitutione pupillare a detta signora Polissena sua nezza et esistente sotto la sua potestà, acciochè in caso che morisse inanzi l’espirar della sua età pupilare, s’intendi morta con detto testamento che è la pupilar sustitione»: ivi, Notai di Vicenza, b. 9356.

[17] V.R. Casulli. voce Sostituzione ordinaria e fedecommissaria, in Novissimo digesto italiano cit., XVII Torino 1970, p. 973.

[18] «Dechiara anco che in caso che morisse quandocumque, tanto con figli quanto senza, tanto maritata quanto non, in detta cedola ha fatto un fideicommisso del tenor come in quello»: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.

[19] Il Lorenzoni osservò come la sostituzione pupillare non fosse «propriamente che un testamento che faceva il padre per figlio, la quale cessava subito poiché era questo arrivato alla pubertà»: cfr. Lorenzoni, Istituzioni cit., I, pp. 209-10.

[20] ASVi, Notai di Vicenza, b. 9336.

[21] Sull’episodio cfr. Cronaca di Fabio Monza, ed. Vicenza 1888, pp. 19-21.

[22] Su Gaspare Ribeira, la figlia Violante e i loro rapporti con Vincenzo Scroffa cfr. B. Pullan, Gli ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, trad. it. Roma 1983. pp. 357-77 e passim.

[23] Sulle vicende biografiche di Vincenzo Scroffa cfr. da Schio, Persone memorabili cit.; all’epoca il da Schio poté disporre dell’archivio familiare degli Scroffa.

[24] Nella seconda cedola segreta Vincenzo Scroffa affermò come fosse sua intenzione che la nipote si maritasse «in Vicenza, che non intendo sia maritata fuori di questa città a modo alcuno, essendo mia ferma intentione et per il bene di detta mia nezza, resta lei et la mia facoltà nella mia patria; conoscendo et per esperienza veduto tutte quelle hereditarole, che alli miei giorni sono state maritate fuora della nostra città, qual fine habbiano havutesi et anco io ne posso parlare per haverne havuto assai buona esperienza et beati quelli che all’altrui spese impara. Prohibendo dico in ogni tempo in tutto et per tutto che non sia maritata fuori della nostra città di Vicenza»: ASVi, Nota: di Vicenza, b. 9356. Constatazione che molto probabilmente traeva origine, in questo torno d’anni, dalla difficoltà da parte dei lignaggi aristocratici di gestire alleanze di più ampio raggio che sfuggivano al controllo politico locale e alla reciproca interdipendenza.

[25] Giovanni Martinengo era figlio del condottiero Giovan Battista e di Elena da Porto di Paolo, sposatisi nel 1570. Cfr. M. da Porto, La famiglia da Porto dal 1000 ai giorni nostri, dattiloscritto datato 1979 (di cui esiste copia in BCBVi e in ASVi), p. 116. Su quest’opera cfr. M. Scremin, La storia della famiglia da Porto, in «Annali veneti», I (1984), pp. 183-84. Non c’è dubbio che il timore di Vincenzo Scroffa si appuntasse, sin da questo momento, sul potente gruppo che riuniva tra l’altro le case Martinengo e da Porto, come appare da quanto egli affermò nella sua seconda cedola a proposito dell’eventualità che la nipote Polissena non avesse potuto sposare chi egli aveva designato. I commissari testamentari avrebbero dovuto «delegere il miglior suggetto che sarà in essere a quel tempo in questa nostra città. Prohibendo in tutto et per tutto che non voglio sia maritata in casa della fameglia da Porto, perché non voglio che la mia roba né la fiola vadi in questa casa per giuste cause che movono l’animo mio et anco per il meglio di detta mia nezza »: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.

[26] La sua uccisione — «Memoria come el signor Vicenzo dala Scrova, andando a casa a cavalo, fu arsaltà fora dala porta da Santa Lucia et li fu sbarà due archibusate et restò ferito, che quasi pasò subito di questa vita presente» — venne ricordata in una cronaca dell’epoca: BCBVi, ms. 165. Memoria 1..] di Girolamo di Masi, c. 30. Proclamato dal Consiglio dei Dieci il Martinengo venne poi bandito il 23 settembre 1613: cfr. F. Capretti, Mezzo secolo di vita vissuta a Brescia nel Seicento, Brescia 1934, p. 188.

[27] Come commissari testamentari lo Scroffa elesse alcuni aristocratici vicentini e il patrizio veneziano Zaccaria Sagredo, cui nella seconda cedola destinò la somma di 10.000 ducati, qualora Polissena non avesse aderito alla sua proposta. Ad essi suggeriva di non stupirsi per la straordinaria quantità di denaro destinato ai legati, «perché io so molto bene che la mia facultà et l’entrada il può fare». Ordinò inoltre di essere sepolto, accanto al padre e al figlio, ai piedi dell’altare centrale del santuario di Monte Berico, di cui nel 1590 aveva curato il restauro e l’abbellimento: cfr. ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356

[28] Sulla vicenda di Polissena Scroffa venne istruito un fascicolo processuale contenente i testamenti di Vincenzo Scroffa, gli atti emanati dalle diverse magistrature nonché le suppliche e i consulti che scandirono il suo evolversi sino al 26 settembre 1620. ASV, Consiglio dei Dieci, Processi criminali. Dogado, b. 1: Scritture diverse nel negotio di D. Pulissena Scroffa. Per brevità, non rinvierò a questo fascicolo se non nel caso di riferimenti precisi.

[29] Polissena avrebbe dovuto sposarsi all’età di quindici anni e mezzo «Che se per qualche accidente succedesse che non si potesse essequir compitamente il matrimonio nel sudetto millesimo 1619, sia in ogni modo questo beneffitio di quelli al tempo de’ quali sarà compito almeno con le solite scritture et obligationi irretratabili ». Lo Scroffa aveva previsto che qualora i due possibili pretendenti fossero mancati di vita, i commissari testamentari avrebbero dovuto scegliere lo sposo di Polissena tra i membri dell’aristocrazia vicentina: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9336.

[30] Consulto di fra Paolo Sarpi non datato, ma certamente della fine di gennaio del 1619: ASV, Scritture diverse, cc. 2 1-23.

[31] Su questi problemi cfr. G. Cozzi, Il dibattito sui matrimoni clandestini Vicende giuridiche, sociali, religiose dell’istituzione matrimoniale Ira medioevo e età moderna, dispensa del corso di storia delle istituzioni politiche e sociali, Dipartimento di studi storici, Università di Venezia, a. a. 1985.86: «Gli sponsali per verba de futuro consistevano nell’impegno assunto da due persone, che avessero come minimo sette anni, di contrarre tra loro in avvenire il matrimonio; sponsali per verba de praesenti si avevano invece quando le due persone, che avessero raggiunto come minimo l’età della pubertà, s esprimessero reciprocamente e liberamente la loro volontà di essere da quello stesso momento marito e moglie». Uno scambio di consensi che, con il concilio di Trento, avrebbe dovuto avvenire alla presenza del parroco e di due testimoni. Si trattava comunque di una materia notevolmente complessa e ambigua, in cui l’interpretazione delle norme giuridiche che la regolamentavano era fortemente condizionata dalle pressioni delle forze in gioco.

[32] Id., Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino 1979.

[33] Cfr. i consulti del i giugno e 9 agosto 1619: ASV, Scritture diverse, cc. 34-35, 38.

[34] Da parte dei commissari testamentari la causa venne evidentemente sostenuta da Zaccaria Sagredo, il quale ricorse anche al parere di alcuni giuristi sulla legittimità delle richieste di Polissena: cfr. ibid., cc. 42-43.

[35] Si veda ad esempio la scrittura presentata da David Cavazza, avvocato di Polissena, in cui venivano minutamente descritte le rivendicazioni sul patrimonio familiare e la formale richiesta avanzata dalla giovane il 12 agosto 1619 per ottenere un terzo del patrimonio dell’avo, corrispondente alla sua quota di legittima: ibid., c. 36, 1 giugno 1619

[36] Ibid., cc. 46-47.

[37] Ibi d., c. 48.

[38] Consulto deI 28 settembre 1619: ibid., c. 49.

[39] Ibid., e. 8. La «parte» venne respinta con otto voti contro e sette a favore.

[40] Ibid., cc. 54-57. Il 9 ottobre il commissario testamentario Zaccaria Sagredo riferì ai Capi che Polissena l’aveva fatto chiamare nel monastero in cui ella si trovava e gli aveva espresso che «quando ben anco havessi a rimaner in camisa non sarà già mai mio marito il Signor Antonio Scroffa et me ne dicchiarirò sempre et in ogni luogo». Al consiglio che il Sagredo le aveva rivolto di scegliere l’altro Scroffa, ella rispose: «Tanto peggio, l’uno è povero, l’altro è mendico », ibid., cc. 52-53.

[41] Ibid., cc. 38-64.

[42] In una lettera diretta ai Capi del Consiglio dei Dieci Polissena scrisse «che in quatro zorni mi par quatro ani e ogni zorno mi vanza la vogia di tuor il Signor, non facio altro che pianger et io non volgio far rider niuno»: ibid., c. 59, lettera del 27 ottobre 1619.

[43] Ibid., c. 71.

[44] Ibid., cc. 75-76, consulto steso insieme a Servilio Treo il 20 luglio 1620. È significativo che il consulto iniziasse ricordando che i Capi avevano «commandato che noi dobbiamo esporli il parer nostro in qual maniera sia giusto et conveniente metter fine al negotio del matrimonio di D. Polissena Scroffa, raccomandata alla Carità et protettione loro»

[45] Ibid., nota apposta sul frontespizio del fascicolo: «Fu liberata per maritarsi in Vicenza, come nella parte.

[46] Nella seconda cedola l’aristocratico vicentino aveva ordinato che la sua casa «posta in contrà de Lisiera sotto la sindicaria di Santa Lucia, con tutto quello che mi ritrovo in detta contrà e lochi circonvicini, così di case come terreni e fitti, siano del primogenito di detta mia nipote, il qual debba bayer nome Vicenzo et perché debbano ditta casa e beni passar di primogenito in primogenito deffi descendenti di detta mia nepote in infinito»: ASVI, Notai di Vicenza, b. 9356, L’istituto della primogenitura iniziò a diffondersi tra l’aristocrazia vicentina a partire dalla seconda metà del Cinquecento, sotto la spinta di una tensione interna che mirava a connotare sul piano simbolico i valori ideologici che sorreggevano e perpetuavano la casa: cfr. C. Povolo, La primogenitura di Mario Capra, Vicenza 1990. Sull’ascrizione degli Scroffa al patriziato veneziano cfr. BCBVi, ms. 2527. Nel discorso letto in Senato da Vettor Zane il 26 luglio 1698 si ricordò come Vincenzo Scroffa avesse registrato «fra le domestiche sue memorie che il dovitioso suo patrimonio sia stato per la maggior parte fondato con il fortunato matrimonio d’una figliola unica erede della famiglia Scroffa raccomandata dal padre alla decorosa tutella dell’Eccelso Consiglio».

[47] È significativo che nel suo testamento lo Scroffa avesse ricordato a proposito delle sue decisioni che «né vuole, né intende che li sia ammessa alcuna scusa di qual si voglia sorte; et prega et suplica ogni il. et ecc, giudice che havesse da giudicare, voler essequir pontalmente et senza alcuna interprettatione questa sua dispositione et le ne carica la conscienza, seben detto signor testator resta certo et sicuro che li giudici vinetiani et massime li ecc. consegli si sottopongono come a leggi nelli loro giudicij alla volonta dcli testatori et tutti li sudditi di questa Serenissima Republica vivono con questa certezza che le loro volontà siano formalmente essequite »: ASVi, Notai di Vicenza, b. 9356.

[48] In materia successoria, per far fronte alla conflittualità giudiziaria che si dirigeva verso le magistrature della Dominante, Vicenza fu costretta a inserire negli statuti cittadini antiche consuetudini che sino ad allora non erano mai state formalmente messe in discussione: cfr. BCBVi, Archivio Torre, bb. 306 e 714 intorno alla richiesta avanzata dalla città nel 1634 per ottenere la conferma delle consuetudini che regolavano la «solennità» dei testamenti.

[49] Intorno a questo problema cfr. le riflessioni di J. A. Maravail, Stato moderno e mentalità sociale, 2 volumi, Bologna 1991, lI, pp. 483-526.

[50] Per Vicenza efr. B. Munari, Notizie sulle leggi che regolarono la città e provincia di Vicenza, Vicenza 1861. Più in generale G. Cozzi. Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982

[51] Alla fine del Settecento Antonio Lorenzoni osservò nelle sue Instituzioni che le successioni legittime «presso di noi vengono dirette dalle Leggi nostre Municipali, le quali si rapportano al Diritto Romano, cui non fanno che alcune alterazioni […]. […] non conviene presso di noi decidere i casi di un tal genere con altre Leggi, in esistenza delle nostre Municipali o delle Romane». In altro punto della sua opera egli rilevò tuttavia che in una materia così «involuta» come quella successoria «conviene però avere in vista due riflessioni, cioè primieramente che la Legge comune unitamente alla Municipale non provedono alcuna volta determinatamente a tutti questi possibili casi e che in conseguenza in allora non si può rapportarsi se non a ciò che sembra uniforme ai Veneti Giudizj in questa materia»: Lorenzoni, Instituzioni eh., pp. 111, 190. A giudizio del giurista vicentino i precedenti giudiziari dei grandi tribunali dello Stato venivano così a integrare una legislazione locale ancora profondamente ancorata alla tradizione, ma, evidentemente, dotata di una diversa legittimità istituzionale.