2.3 Eredità anticipata o esclusione per causa di dote?

EREDITÀ ANTICIPATA O ESCLUSIONE PER CAUSA DI DOTE?

Un caso di pluralismo giuridico nel Friuli del primo ’500*

di Claudio Povolo

(saggio apparso in “Padre e figlia”, a cura di L. Accati, M. Cattaruzza, M. Verzar Bass, Torino 1994, pp. 41-73*)

Giurista e letterato, il notaio udinese Antonio Belloni era assai noto nella prima metà del ’500 per la profonda conoscenza delle consuetudini e dei costumi friulani. Non a caso la Curia patriarcale di Udine si era a lui rivolta per avere delucidazioni intorno alla complessa materia inerente i riti e le tradizioni nuziali. Una materia che il Belloni doveva conoscere assai bene, sia in virtù dell’esercizio della sua professione che l’aveva portato a redigere molti contratti dotali, sia per la corrispondenza che sull’argomento aveva tenuto già in precedenza con alcuni giuristi. Aveva persino scritto un opuscolo sulla questione, basandosi su una notevole quantità di patti dotali stesi sia alla sua epoca che nei decenni precedenti.

L’indagine del Belloni si era però infine arenata, come ebbe egli stesso a confessare, di fronte alla molteplicità delle situazioni locali, all’estrema complessità di riti e tradizioni, che erano ben lungi dal lasciarsi racchiudere in una uniforme e facilmente ravvisabile prassi consuetudinaria [1] . L’apparente inconcludenza della ricerca del notaio udinese trovò probabilmente giustificazione nell’estrema diversificazione politica ed istituzionale del Friuli in epoca veneta. Una regione ampiamente caratterizzata dalla presenza e dalla vitalità delle giurisdizioni feudali, nonché dalla persistenza di tradizioni giuridiche di origine longobarda, che non erano state scalfite se non lievemente dalla penetrazione ideologica e politica di un centro cittadino in grado di opporre una netta supremazia sul proprio contado [2] . Se a Udine infatti, sull’analoga esperienza delle altre città italiane, si era enucleato un ceto di giuristi provvisto di un proprio linguaggio tecnico e di una sapienza giurisprudenziale, la cui sostanza e gli stessi tratti ideologici trovavano la loro ragion d’essere nello spirito di quel diritto comune che da alcuni secoli si era imposto in tutti i più rilevanti centri cittadini dell’Italia centro-settentrionale; se a Udine, come si diceva, un fenomeno di carattere più generale aveva messo ben salde radici [3] , nel rimanente del Friuli la vitalità delle consuetudini orali si accompagnava all’assenza o comunque alla sostanziale irrilevanza di un ceto di professionisti in grado di coniugare un sapere fortemente denso di significati simbolici con un potere politico da cui traeva la sua stessa giustificazione.

In realtà, nonostante i suoi risultati apparentemente negativi, l’indagine del notaio udinese un qualche spunto di novità lo faceva ben intravedere. Essa rivelava innanzi tutto l’esigenza di chiarimento e di riflessione da parte di persone che appartenevano senza ombra di dubbio a quel ceto di intellettuali e di professionisti dotati di una forma mentis che nel diritto comune ritrovava i suoi connotati ideologici più distintivi. E tale esigenza mirava molto probabilmente a ridefinire, alla luce di parametri giurisprudenziali uniformi e sulla scorta di una tradizione giuridica scritta, la complessità di una realtà sociale assai multiforme [4] . Ma l’interesse maggiore della ricerca e delle riflessioni del notaio Belloni sono da intravvedere probabilmente nel loro risvolto giudiziario, in quella sorta di dialettica tra concezioni diverse sul modo di regolamentare i rapporti sociali ed economici, che quasi inevitabilmente veniva a confluire in maniera sempre più intensa nelle aule dei tribunali cittadini, sottraendosi alla tradizionale prassi di risoluzione dei conflitti.

Nella prima metà del ’500 la conflittualità giudiziaria era ancora ben lungi dall’aver intrapreso quei percorsi che nei secoli seguenti in maniera sempre più intensa, travalicando i consueti confini giurisdizionali, l’avrebbero condotta a confluire nei superiori tribunali del centro dominante [5] . Le giurisdizioni feudali mantenevano ancora quasi intatto quel potere politico coercitivo che legittimava l’esercizio della giustizia civile e penale. Ma anche nell’enclave feudale friulana l’influenza di una cultura giuridica dotta che si enucleava nella figura del giurista interprete e mediatore di una sapienza giurisprudenziale cominciava a far sentire i suoi effetti [6] . Si trattava di una cultura cittadina, che prima ancora di manifestarsi tramite i consilia e i trattati [7] tendeva ad imporsi attraverso il filtro delle istituzioni giudiziarie comunali, avallando l’ideologia dei ceti che detenevano il potere [8] . Era perciò quasi inevitabile che in decenni caratterizzati da una crescita economica e demografica di tutto rilievo, i ceti emergenti rurali fossero spinti a dirigere la conflittualità locale verso i tribunali cittadini, in cui i loro interessi potevano meglio essere rappresentati e difesi.

I percorsi conflittuali e le loro risoluzioni giudiziarie cominciarono quindi a manifestare intensamente, prima ancora che un confronto tra consuetudine e legge scritta, una dialettica politica che poneva in rilievo il ruolo sociale goduto, anche nel mondo rurale, da famiglie emergenti dotate di ricchezze e tese ad affermare l’intangibilità del proprio patrimonio. Materie squisitamente civili come i contratti di dote o le successioni testamentarie costituirono le tappe più significative di questi percorsi alternativi. Nell’ambito delle aule giudiziarie cittadine il trattamento dei conflitti veniva investito di nuovi significati ideologici; le parti contendenti si misuravano in un’arena in cui inevitabilmente emergeva una dialettica giuridica che si alimentava degli opposti interessi [9] .

In una prospettiva antropologico-giuridica il rilievo politico della conflittualità giudiziaria e i suoi percorsi dettati da assetti istituzionali gerarchici, ma fortemente dotati di autonomie giurisdizionali, appaiono elementi in grado di avvicinare lo studioso all’intima comprensione di alcuni temi ritenuti oggi importanti nell’ambito della storia della famiglia. In altre parole la disputa e il conflitto su alcune questioni di fondo come le successioni ereditarie o i contratti di dote sono tali da configurare non tanto e non solo un rapporto tra prassi giudiziaria e teoria giuridica, bensì pure i nessi profondi che costantemente mettevano in relazione gli assetti istituzionali della famiglia con le strutture economiche che la sorreggevano e, ancor più, con il ruolo sociale da essa occupato. In definitiva, attraverso lo stesso conflitto giudiziario, è possibile cogliere quella dimensione pluralistica del diritto, che troppo spesso, il livello normativo e trattatistico tendevano a porre in secondo piano sia di fronte all’emergere della legislazione statuale che all’affermazione ideologica del diritto comune [10] .

La vicenda presa qui ad esame emerge dal fascicolo processuale istruito nel 1538-39 dalla curia arcivescovile di Udine [11] in merito ad una questione successoria sorta a Forni di Sopra, piccolo centro della Carnia, la cui giurisdizione, insieme al vicino villaggio di Forni di Sotto, apparteneva alla famiglia Savorgnan. A differenza della giustizia penale, gestita dai feudatari tramite un loro rappresentante residente ad Osoppo, l’amministrazione della giustizia civile costituiva una prerogativa quasi esclusiva delle due comunità, che godevano pure del privilegio del reciproco appello per le sentenze che erano state emesse nei due villaggi [12] . La giustizia civile veniva dunque amministrata dagli anziani della comunità sulla scorta delle consuetudini vigenti nel luogo. Una procedura che, come vedremo, il processo del 1538-39, istruito da un tribunale esterno, avrebbe fatto emergere nelle sue caratteristiche più salienti e tradizionali [13] .

I protagonisti del conflitto giudiziario furono membri della famiglia Corradazzo, tra le più antiche di Forni di Sopra e sicuramente dotata di ricchezze e di un ruolo sociale che la ponevano in evidenza in quello sperduto villaggio montano della Carnia [14] . Il processo si aprì su istanza di Caterina Corradazzo figlia di Matteo e sposata dal 1536 a Floriano Cacitti di un vicino villaggio della Carnia. La giovane, in quanto unica figlia di Matteo Corradazzo, reclamò a due anni dal matrimonio il patrimonio che era appartenuto al padre. Rimasta orfana quando ancora era bambina ella aveva convissuto con gli zii sino al giorno in cui si era sposata. Le sue pretese si rivolsero nei confronti dei quattro fratelli del padre e cioè Giovanni, Floriano, Costantino e Sebastiano Corradazzo. In base alle antiche prerogative di Forni di Sopra la causa avrebbe dovuto essere giudicata dagli anziani della comunità, ma in realtà, poiché manca come si è detto la parte iniziale del processo, non sappiamo se Caterina Corradazzo e il marito avessero in via iniziale adito quel tribunale. Di certo con l’escussione dei testi presentati dalle parti, il processo passò da subito al foro giudiziario della curia patriarcale di Udine poiché Sebastiano Corradazzo, uno dei quattro fratelli era un ecclesiastico e da anni ricopriva il ruolo di parroco proprio a Forni di Sopra. Questo aspetto è di particolare importanza poiché evidentemente il conflitto giudiziario che ne seguì assumerebbe per noi una diversa rilevanza interpretativa qualora fossero stati proprio i fratelli Corradazzo, utilizzando a loro favore la normativa ecclesiastica, a spingere perché il processo si istruisse ad Udine piuttosto che a Forni di Sopra.

Il dibattito processuale si svolse secondo la classica procedura accusatoria contraddistinta dall’iniziativa delle parti tese a far prevalere le proprie ragioni sulla scorta di una serie più o meno argomentata di capitoli avvalorati da testimonianze [15] . Una procedura caratterizzata dunque dal contraddittorio giudiziario e in cui il ruolo del giudice avrebbe dovuto sostanzialmente limitarsi alla pronuncia della sentenza [16] . Erano le parti a caratterizzare l’andamento del conflitto e la sua stessa durata: ed è questo il secondo punto su cui ritengo sia importante soffermarsi prima di procedere all’analisi contenutistica del processo. Difatti, come è stato di recente osservato, in questa particolare forma di risoluzione dei conflitti il diritto processuale acquista una propria consistenza ed autonomia dal diritto sostanziale. La forma finisce per prevalere sulla sostanza del discorso e la stessa sentenza è infine giustificata dalla procedura e dallo scontro forense [17] . Nel presentare le loro argomentazioni e nell’avvalorarle con testimonianze che evidentemente dovevano sorreggerle, le parti in conflitto miravano a sottolineare la propria percezione della questione oggetto del contendere. Sono tali argomentazioni, scandite nei rituali capitoli e testimonianze, che poste a confronto possono rivelare le reali dimensioni giuridiche del conflitto e il suo spessore sociale.

La vicenda giudiziaria che ebbe come protagonista la famiglia Corradazzo si svolse dunque presso il tribunale arcivescovile di Udine secondo la classica procedura contraddittoria che vide la citazione di decine e decine di testimoni su richiesta di entrambe le parti. Come già si è detto non ci è rimasta la fase iniziale del processo e tantomeno quindi l’esatta formulazione dei capitoli che le parti presentarono al cancelliere arcivescovile per sostenere le loro richieste. Il loro tenore è però chiaramente deducibile dalle risposte che i numerosi testi diedero non solo agli stessi capitoli su cui di volta in volta vennero interrogati, ma anche alle domande di chiarimento che il notaio patriarcale rivolse loro.

Caterina Corradazzo e il marito Floriano Cacitti presentarono i capitoli che dovevano avallare le loro pretese nei confronti del patrimonio che era appartenuto a Matteo Corradazzo. Conviene elencarli per valutare gli effettivi obbiettivi delle due parti:

– che il defunto Tommaso Corradazzo ebbe sette figli, di cui cinque sono ancora viventi;

– che a Forni di Sopra esiste una consuetudine che prevede che le figlie, in assenza di loro fratelli, hanno diritto di succedere ab intestato al padre, escludendo ogni altro ascendente maschio;

– che i fratelli Corradazzo, figli del quondam Tommaso, possiedono beni per il valore di circa 200 ducati.

Ancora più argomentati furono i capitoli presentati da don Sebastiano Corradazzo e dai suoi fratelli. I primi dodici miravano a sottolineare le spese ingenti da loro sostenute di seguito all’incidente del 1522 e ad altri successivi imprevisti. Inoltre don Sebastiano Corradazzo aveva goduto e.godeva ancora di alcune rendite personali che in parte erano state utilizzate per aiutare i fratelli. Ma erano soprattutto gli ultimi capitoli che entravano direttamente nella questione controversa:

– Forni di Sopra appartiene alla Patria del Friuli e come tale sono ivi applicate le Costituzioni della Patria del Friuli;

– a Forni di Sopra non esistono giurisperiti e notai; le sentenze sono emesse dal gastaldo e ricordate a memoria dagli anziani;

– Forni di Sopra dista molte miglia da Udine e di conseguenza dal luogo dove esistono giurisperiti che conoscono le Costituzioni della Patria del Friuli;

– se nei giudizi seguiti a Forni si è proceduto contro quanto previsto dalle Costituzioni, questo è stato fatto più per ignoranza che «ex certa scientia»;

– che sia a Forni di Sopra che a Forni di Sotto, in prima istanza come in appello, si è giudicato che le nipoti di figlio premorto sono escluse dalla successione dell’avo in favore degli zii paterni;

– è pubblica fama che le femmine non succedano in presenza di maschi.

La formulazione dei capitoli, come già si è detto, è di estremo interesse poiché rivela gli obbiettivi che le parti si proponevano di raggiungere. La successiva escussione dei testi avrebbe infatti dovuto sottolineare quegli aspetti della verità che più sarebbero stati funzionali a ciascuno dei contendenti. La sentenza del giudice avrebbe infine dovuto teoricamente attenersi alle proposizioni della parte che meglio aveva saputo esprimere la bontà e la forza delle proprie ragioni. Il rilievo giuridico e formalistico della questione dibattuta denotava così le proprie ambiguità e complessità sotto la spinta delle forze contendenti.

I pochi capitoli presentati da Caterina Corradazzo e Floriano Cacitti rivelano come le loro pretese trovassero in linea di principio un forte consenso sociale nella Carnia del ’500. È un aspetto questo che venne ripetutamente confermato dai numerosi testi che il vicario patriarcale interrogò nel corso del processo [18] . La presunta .validità giuridica delle pretese dei due coniugi è del resto indirettamente avvalorata dai numerosi capitoli che don Sebastiano Corradazzo e fratelli redassero per sostenere le loro ragioni. Capitoli che nel loro insieme miravano senza ombra di dubbio a porre in rilievo come il capitale e i beni della famiglia si fossero notevolmente ridotti a seguito di una serie di calamità, ma soprattutto a sottolineare come in Forni di Sopra venissero applicate le Costituzioni della Patria del Friuli. Quest’ultimo punto rende inoltre notevolmente plausibile l’ipotesi, già inizialmente formulata, che a spingere perché la causa fosse dibattuta ad Udine fossero stati proprio i fratelli Corradazzo, le cui ragioni sarebbero forse state accolte con maggiore difficoltà nei tribunali dei due Forni Savorgnan.

Quali erano in realtà i punti di attrito tra le due parti? Caterina Corradazzo, pur avendo ottenuto dalla famiglia d’origine la consueta dote, reclamava per sé i beni che erano appartenuti al padre. A suo dire, essendo l’unica figlia e non avendo fratelli, le consuetudini vigenti da tempo immemorabile a Forni di Sopra le garantivano questo diritto anche nei confronti degli zii paterni. Un’affermazione che i fratelli Corradazzo rigettavano con decisione. In presenza di maschi le femmine non avevano diritto a succedere, replicavano essi. Un’affermazione piuttosto generica che essi però convalidavano sostenendo che anche Forni di Sopra apparteneva alla Patria del Friuli e dunque venivano ivi applicate le Costituzioni del Friuli. Se talvolta non lo si era fatto, questo era avvenuto per pura ignoranza dei giudici locali e non certo per una scelta precisa. Del resto in quel villaggio non esistevano giurisperiti e notai, depositari di quelle leggi che venivano applicate in tutto il Friuli.

Da un lato, dunque, Caterina Corradazzo e il marito rivendicavano la specificità delle consuetudini del villaggio carnico che, a loro giudizio, rivolgevano un’attenzione particolare sul piano successorio alla discendenza femminile. Dall’altro don Sebastiano Corradazzo e fratelli opponevano la validità estensiva delle Costituzioni della Patria del Friuli, che all’opposto sottolineavano in materia successoria l’importanza del lignaggio. Essi facevano senza dubbio riferimento a quel capitolo delle Costituzioni che apriva la sezione dedicata alla successione ab intestato. Un capitolo importante, che definiva senza ambiguità l’importanza del principio di agnazione [19] :

Ut paternae et ceterorum masculorum superiorum diviciae in masculorum posteritatem perveniant, per quam honor familie solet conservari ac avorum plerunque fieri longa memoria, antiquis constitutionibus inherentes statuendo sancimus: quot si quis masculus sine testamento vel abintestato aut intestatus decesserit, ad ipsius successionem et hereditatem admittantur primo ipsius defuncti filii masculi, deinde caeteri descendentes masculi nati ex linea masculina defuncti… Et si dicto ascendenti ut supra defuncto sine testamento filii aut descendentes masculi ut supra ex linea masculina non extarent, tunc si supersint ascendentes masculi ex linea masculina – et dicto defuncto supersint fratres eius masculi ex utroque parente vel ex patre tantum coniuncti – tum dicti ascendentes proximiores in gradu una admittantur cum dictis fratribus defuncti ad eius hereditatem… Si vero non supersint dicti ascendentes masculi nec descendentes masculi ex linea masculina nec etiam defuncti fratres masculi, tunc si extant fratruum filii ipsi admittantur ad hereditatem defuncti patrui… [20]

Una piena affermazione della linea maschile, dunque, che vedeva privilegiati dapprima i discendenti del defunto e poi i suoi ascendenti e collaterali. Inoltre il principio di agnazione era ribadito dai diritti dei nipoti maschi (figli dei fratelli) del defunto, che succedevano in assenza degli altri parenti. La piena esclusione femminile era del resto pienamente esplicitata nel prosieguo del capitolo:

… quibus casibus filiae eo modo defuncti, ut superius dictum est, et caeterae feminini sexus eo descendentes ac descendentes ex eis mulieribus cuiuscumque sexus existant ac masculi ex ipsis feminis descendentes, ad successionem vel hereditatem, seu aliquam partem ipsius hereditatis predictae personae eo modo defunctae, nullatenus admittantur… [21]

I fratelli Corradazzo avevano dunque un esplicito interesse a rifarsi alle Costituzioni della Patria, le quali senza ombra di dubbio parevano escludere ogni diritto femminile sul patrimonio familiare. E non appare perciò azzardato il presupporre che don Sebastiano Corradazzo avesse fatto valere di sua iniziativa la prerogativa che gli competeva di essere giudicato presso il foro ecclesiastico di Udine. In verità qualche complicazione era ancora prevedibile. Lo lasciava presupporre il penultimo capitolo presentato dagli stessi fratelli Corradazzo. Si sosteneva, in quello, come una giovane non avrebbe potuto succedere al patrimonio del padre se questi fosse deceduto prima dell’avo. Era proprio il caso di Caterina Corradazzo, il cui padre Matteo, di seguito alla slavina di neve, era morto alcuni giorni prima del nonno Tommaso. Nei due Forni Savorgnan, a detta dei fratelli Corradazzo, la prassi giudiziaria si era attenuta a questa consuetudine. Ma perché essi si erano preoccupati di inserire questo capitolo? Se a Forni, come essi sostenevano erano le Costituzioni della Patria ad essere applicate, quale significato poteva valere tale affermazione, che tanto più poteva apparire come un cavillo giuridico?

In realtà quel capitolo dei fratelli Corradazzo lascia presupporre come anche nella piccola realtà sociale di Forni di Sopra la prassi in campo successorio fosse ben più complessa di quanto entrambe le parti lasciavano intendere con le loro rivendicazioni. Inoltre, sullo sfondo, una questione appariva ineliminabile, anche se non era formalmente esplicitata nei capitoli che costituivano il contraddittorio del processo: la dote assegnata alle figlie al momento del loro matrimonio era da considerarsi un’eredità anticipata, equivalente quindi alla legittima loro spettante, oppure all’incontrario la si poteva ritenere un’esclusione che mirava a favorire la linea agnatizia? Nel capitolo concernente le doti le Costituzioni friulane rivendicavano ancora una volta il primato della parentela agnatizia e della discendenza patrilineare. Nel caso in cui il padre fosse morto senza aver potuto dotare le proprie figlie, i maschi agnati eredi (discendenti, ascendenti e collaterali) avrebbero avuto solo l’obbligo di dotarle «secundum qualitatem et quantitatem hereditatis ac etiam statum et conditionem maritandarum» [22] . Si trattava del principio della dote congrua, introdotto negli statuti delle città italiane a salvaguardia del patrimonio del lignaggio e della discendenza patrilineare. Un principio che permetteva, evidentemente, di giocare sulla dote come forma di esclusione delle donne dall’eredità paterna, garantendo anche attraverso l’istituto del fidecommisso l’intangibilità del patrimonio familiare [23] .

Quel capitolo dei fratelli Corradazzo che mirava a sottolineare come il padre di Caterina fosse morto prima dell’avo, lasciava però trapelare il timore nei confronti di una smagliatura che le Costituzioni friulane facevano intravedere nel pur declamato principio di agnazione. A proposito infatti della successione ab intestato le leggi aggiungevano che qualora l’esclusione delle figlie fosse avvenuta ad opera degli ascendenti e collaterali del defunto, esse avrebbero potuto pretendere «de hereditate defuncti de qua agitur tantum quantum est sua legitima de iure communi, in ipsa legitima computatis dote constituta» [24] . La preminenza del principio di agnazione veniva dunque intaccata in parte da quello di discendenza, qualora a far concorrenza alle figlie fossero rimasti solamente ascendenti e collaterali [25] .

Il contraddittorio tra le due parti si presentava di estremo interesse, filtrato come appariva sin dall’inizio del processo da una dialettica tra consuetudini locali e legge esterna. I testimoni che le parti in conflitto avevano chiamato a deporre avrebbero dovuto sostenere questa opposizione che qualificava le rispettive pretese giuridiche. In realtà il processo istruito nel 1538 in quello sperduto villaggio montano della Carnia avrebbe aperto uno scenario assai complesso in cui la rappresentazione della dialettica tra consuetudini orali e legge scritta si sarebbe arricchita di spunti e motivazioni inaspettati.

I primi testi ad essere esaminati furono quelli che erano stati chiamati a deporre da Caterina Corradazzo a sostegno dei propri capitoli. Quasi tutti sottolinearono l’isolamento geografico di Forni di Sopra. In paese non esistevano notai e tanto meno giurisperiti, di modo che la popolazione doveva ricorrere a quelli del Cadore o di Tolmezzo. Ma del resto, come la gran parte dei testi osservò, non è che nel villaggio carnico si sentisse molto il bisogno di un notaio. Le cause giudiziarie non avevano alcuna registrazione scritta e le sentenza emesse dal gastaldo e dai tre giurati locali venivano ricordate a memoria [26] . Se una causa veniva appellata a Forni di Sotto, il gastaldo incaricava alcuni anziani della comunità di comunicare il contenuto della sentenza ai giurati cui era destinato l’appello. Solo se l’iter giudiziario fosse proseguito ad Udine veniva chiamato un notaio di fuori con il compito di metter per iscritto quanto era stato deliberato dai giurati delle due comunità [27] . L’estesa oralità in Forni di Sopra era inoltre attestata dall’ampia diffusione di accordi e composizioni tramite cui si regolavano, senza alcuna esigenza di registrazione scritta, le divisioni e i conflitti all’interno delle famiglie del luogo [28] . Una copia delle Costituzioni della Patria del Friuli, si sosteneva, non s’era mai vista in Forni di Sopra, anche se, come affermava qualche teste della parte avversa, il contenuto di quelle leggi era ben conosciuto in paese e qualche giurato [29] le aveva ricordate nei giudizi [30] . Alle Costituzioni quasi tutti i testi opponevano comunque le consuetudini di Forni, una prassi orale che essi non sapevano però ben definire. Richiesto dal vicario patriarcale di definire la consuetudine un teste rispose «consuetudinem esse id quod fit a posteris ad imitationem maiorum suorum uno et eodem modo» [31] . La consuetudine, intesa come un mito che collegava il presente al passato è vissuta dagli abitanti di Forni come una pratica ripetitiva che risaliva agli antenati. Le sue caratteristiche mitiche e ripetitive erano altresì collegate alla sua spontaneità. Richiesto di definire la consuetudine un anziano della comunità rispondeva al vicario che «consuetudo est illa quando in hac villa semper aliquid consuevit fieri uno et eodem modo et nescit que et quot substantialia requirantur ad faciendam consuetudinem quia ipse est homo de monte et rudis et non potest hoc scire» [32] .

Consuetudine ed oralità costituivano dunque un binomio profondamente inserito nella vita comunitaria. Un binomio che trovava la sua giustificazione più profonda nella complessa rete di relazioni interindividuali, che pur organizzate in specifiche gerarchie individuavano però un comune campo decisionale politico, geografico e sociale [33] . Il richiamo alla consuetudine in opposizione alle leggi scritte, a quelle Costituzioni cui i fratelli Corradazzo tentavano di appigliarsi, seppure era strumentalmente finalizzato a sostenere una tesi ben precisa, era incontestabilmente avvalorato da una prassi giudiziaria improntata all’oralità e alla sua specificità comunitaria e compromissoria. Nel propugnarne la validità e persino la prevalenza sulla legge scritta esterna, i testi chiamati a deporre sottolineavano la specificità giuridica della comunità e la concretezza dei rapporti sociali che in quella rinvenivano la propria legittimità. Non a caso gli arbitrati e i compromessi, sempre all’insegna di una indiscussa oralità, godevano nei due villaggi di un’ampia diffusione.

Il richiamo alla consuetudine, soprattutto da parte dei testi citati a deporre su istanza di Caterina Corradazzo, era comunque finalizzato a sostenere la tesi che a Forni di sopra le figlie, in assenza di loro fratelli, ereditavano il patrimonio paterno. Sino a che punto questo richiamo poteva considerarsi strumentale sul piano giudiziario e conflittuale per contrastare il ricorso da parte dei contendenti ad una logica giuridica esterna? La risposta, come già si è osservato, è in parte fornita indirettamente dagli stessi capitoli dei fratelli Corradazzo, preoccupati di dimostrare un’influenza delle Costituzioni friulane nei due Forni Savorgnan. Il sostenere, come essi facevano, che se queste non erano state applicate era per l’assenza di giurisperiti o comunque per ignoranza significava avallare indirettamente la validità delle consuetudini locali anche in materia successoria. Ed in realtà, come molti dei testi escussi dichiararono, le figlie in Forni di Sopra godevano di ampi diritti nei confronti del patrimonio paterno.

Proprio alcuni decenni prima le due comunità avevano redatto alcuni statuti che regolamentavano gli appelli e, in particolar modo, talune questioni attinenti il pascolo e la vendita al minuto. Uno di questi capitoli, concernenti i pesi e le misure, iniziava addirittura con un richiamo esplicito alla Patria del Friuli [34] . Come lasciavano intendere alcuni loro passi, gli statuti erano stati probabilmente redatti per contrastare l’ingerenza dei Savorgnan negli affari interni delle due comunità. Quelle norme non facevano in realtà che sanzionare per iscritto alcune antiche consuetudini locali che erano state minacciate dai feudatari. Le norme scritte e il richiamo implicito a leggi esterne erano dunque utilizzate dalle comunità per difendere la loro autonomia sul piano giurisdizionale.

Era allora possibile intravedere nelle scelte dei fratelli Corradazzo un atteggiamento anticonsuetudinario, come sembravano del resto attestare le formulazioni dei loro stessi capitoli? In definitiva poteva il binomio consuetudine-oralità essere assunto come termine di paragone che veniva contrapposto alla legge scritta esterna per giustificare la presunta legittimità delle figlie ad ereditare il patrimonio paterno in conflitto con il lignaggio d’origine? La scelta che i fratelli Corradazzo avevano attuato nei confronti della nipote Caterina poteva veramente definirsi avulsa dal contesto sociale di Forni e dalle sue tradizioni?

Si tratta di una serie di domande cui la lettura del processo non può evidentemente che fornire delle risposte parziali, considerate la complessità e l’ambiguità sottese all’apparente semplicità di un enunciato (le figlie ereditano o non ereditano) che in realtà si prestava ad essere accolto o manipolato dalla molteplicità delle situazioni patrimoniali e familiari adottate nel contesto sociale che aveva originato il conflitto. D’altronde gli stessi testi, escussi su richiesta delle due parti, addussero a sostegno delle loro tesi un’ampia casistica giudiziaria che difficilmente avrebbe potuto facilitare il compito del giudice, che pure si inseriva spesso nelle loro dichiarazioni per chiedere spiegazioni e delucidazioni. Alcuni degli stessi precedenti erano poi ricordati dai testimoni di entrambe le parti per avvalorare i rispettivi capitoli presentati.

Evidentemente si trattava di una casistica che sottratta al contesto patrimoniale e familiare che l’aveva originata si prestava ad essere facilmente manipolata a livello giudiziario. Ad esempio molti dei testi escussi su richiesta di Caterina Corradazzo ricordarono il caso di Orsola figlia di Appollonio Poli, la quale aveva preteso di succedere al patrimonio paterno in contrasto con i fratelli del padre. Un compromesso aveva risolto la questione ed Orsola aveva ottenuto un appezzamento di terreno, nonostante il padre fosse morto prima del nonno. Baldassarre Corrisello aggiunse però che non era in grado di dire se gli arbitri assegnarono ciò alla donna «ratione dotis sue vel successionis in bonis paternis» [35] . Floriano de Pauli, un anziano della comunità, chiamato a deporre da don Sebastiano Corradazzo, ricordò lo stesso caso di Orsola Poli mettendo in evidenza altri aspetti della vicenda. La donna, sottolineò il teste, aveva ottenuto un giudizio negativo sia in prima istanza a Forni di Sopra che in appello a Forni di Sotto. Il gastaldo e gli anziani delle due comunità avevano pienamente dato ragione agli zii di Orsola [36] . Egli dimenticò di aggiungere però che di fronte alla minaccia della donna di proseguire la causa presso il foro del Luogotenente di Udine, gli zii erano addivenuti ad un compromesso [37] . In questo caso, dunque, nonostante la presunta attitudine consuetudinaria di considerare i diritti delle figlie nei confronti del patrimonio paterno, gli anziani delle due comunità avevano optato per il lignaggio originario. E solamente la minaccia di un ricorso ad Udine aveva indotto la parte vincente ad accettare un compromesso. L’opposizione consuetudine-legge scritta, a differenza del caso Corradazzo, si era per così dire invertita, manifestando dietro la diversa schermatura del linguaggio normativo e dei percorsi giudiziari la complessità del discorso giuridico sottoposto alla manipolazione interessata delle parti.

L’escussione dei testi aveva dunque progressivamente spinto il processo verso la questione centrale che contrapponeva Caterina Corradazzo agli zii paterni: la dote assegnata ad una donna poteva veramente considerarsi uno strumento definitivo di esclusione nei confronti del patrimonio paterno oppure, in realtà, si doveva ritenere una quota legittima a lei spettante? Nel primo caso, evidentemente, i rapporti successori della figlia con il padre o comunque con la famiglia di origine avrebbero dovuto interrompersi nel momento in cui la dote fosse stata assegnata. Nel secondo il rapporto giuridico si prospettava assai più complesso ed appariva sotteso ad una serie di interrelazioni familiari che potevano mutare, anche profondamente, nel corso del tempo.

La questione prospettata nel conflitto giudiziario accesosi in quel piccolo centro dell’Italia settentrionale ha indubbiamente uno spessore storico di notevole importanza poiché investe in definitiva l’organizzazione patrimoniale e culturale della famiglia in età medievale e moderna. Se ad esserne coinvolti, in primis, erano il sistema ereditario e i rapporti di alleanza tra i lignaggi familiari, nell’ambito più concreto delle relazioni giuridiche che definivano il passaggio da una generazione all’altra emergeva l’importanza del rapporto tra padre e figlia.

È stato merito dell’antropologo inglese Jack Goody l’avere evidenziato le strette relazioni esistenti tra l’istituto della dote e l’eredità femminile. Questo studioso delle popolazioni dell’Africa settentrionale, ma successivamente rivoltosi alla storia della famiglia europea, ha posto in rilievo come il mondo mediterraneo si caratterizzi da presto per una devoluzione delle proprietà che egli ha definito divergente. La dote, a detta dello studioso inglese, doveva considerarsi un’eredità anticipata. In società stabili, sedentarie ed agricole i diritti delle donne tendevano ad affermarsi ed esse ereditavano quindi, al pari dei maschi, il patrimonio del padre. L’affermazione di Goody era gravida di conseguenze, poiché la visione storica tradizionale aveva sempre considerato la dote come uno strumento utilizzato essenzialmente per limitare od escludere i diritti delle donne dal patrimonio paterno. Tale considerazione deve comunque essere rapportata alla forte tendenza esogamica che si manifesta nella società europea con l’affermazione del cristianesimo. Come potevano infatti le famiglie permettere che una parte del patrimonio potesse disperdersi tramite l’eredità femminile? [38]

La tesi di Goody è stata ripresa in un ampio saggio che la studiosa inglese Diane Owen Hughes ha dedicato all’affermarsi dell’istituto dotale e nel corso dell’età medievale e moderna. Ella ha notato come nell’ambito delle civiltà che si svilupparono nell’area mediterranea i doni concessi dallo sposo alla moglie tesero ad essere sopraffatti dall’apporto che la donna otteneva dalla famiglia e che portava nella nuova unione. Nelle società barbariche il dono del mattino (morgengabe) che lo sposo pagava alla sposa come segno di riconoscimento della sua verginità venne presto a sostituirsi al cosiddetto prezzo della sposa che il marito pagava alla famiglia della donna per l’esercizio del mundio. Tale dono si ampliò sino a divenire la quarta parte del patrimonio maschile [39] .

Attorno al IX secolo, a detta della Hughes, i diritti della donna ad alienare parte del patrimonio del marito si consolidarono al punto tale da divenire una consuetudine in certe aree dell’Europa mediterranea. Inoltre la pretesa delle vedove di possedere il proprio morgengabe finì per delimitare i tradizionali diritti d’eredità della parentela del marito. Tale fenomeno favorì ad esempio come in Linguadoca vere e proprie forme di comunione di beni tra coniugi, mentre nelle popolazioni di origine romana è probabile che si associasse il dono del mattino alla controdote. Le conseguenze di questo rafforzamento del dono del mattino furono, come osserva la Hughes, che il matrimonio non era più basato come nell’antica Roma sul consenso delle parti o come tra i Germani sul diritto d’acquisto. L’attenzione si spostò sull’atto sessuale, tant’è che nel primo medioevo la formale consumazione sanciva la validità del matrimonio e il morgengabe ne costituiva il simbolo più appariscente [40] .

Il risorgere della dote intorno all’XI secolo ridusse l’importanza del dono del mattino, la cui natura divenne strettamente usufruttuaria facendo dipendere il suo valore da quello della dote stessa. Al dono del mattino si sostituì la controdote, generalmente di molto inferiore alla dote. In tutto il mondo mediterraneo, osserva la Hughes, le donne cominciarono a dipendere meno dalla generosità dei mariti che da quella della propria parentela [41] . Giuristi e governi sottolinearono in tutte le città la relazione tra dote e diritti d’eredità e il diritto delle donne ad avere una dote come sostituto del patrimonio paterno divenne la regola più diffusa negli statuti dell’Italia settentrionale [42] . Ma mentre per una ragazza di umili condizioni esisteva una relazione più stretta tra dote e porzione d’eredità paterna, per le giovani appartenenti a famiglie ricche tale relazione non era così scontata [43] .

L’introduzione del regime dotale nel mondo mediterraneo allontanò l’attenzione dal legame coniugale per attirarlo sulla relazione tra la coppia e i parenti della moglie, i quali erano garantiti dalla dote nei diritti che essi rivendicavano nei confronti dei figli nati dal nuovo matrimonio. Inoltre il padre, anche tramite l’istituto dotale, divenne il principale garante e tutore della purezza sessuale di una giovane. La dote divenne un meccanismo di alleanze e di mobilità sociale. Se nelle grandi famiglie aristocratiche la dote portava con sé il significato della diseredazione [44] , una sorta di consolazione per l’esclusione dall’eredità, la sua associazione con lo status familiare accentuò l’interdipendenza tra padri e figlie [45] . Come ha osservato acutamente lo studioso J. P. Cooper la dote incoraggiò la piena integrazione delle figlie nel lignaggio, poiché nel corso del ’600-’700 in Europa si riscontra ovunque la preferenza assegnata alle figlie sul piano successorio, preferite ai collaterali maschi [46] .

Poiché lo status delle Case sembrava dipendere dall’ammontare delle doti, queste finirono per divenire esse stesse status più che costituire parte del sistema ereditario. Solo laddove lo status coinvolto era minimo, come tra gli strati sociali medio-bassi, la dote era intesa come parte dell’eredità. Era in questi casi in cui la dote era per lo più ancora bilanciata dalla controdote che il contributo del marito rimase importante [47] .

Pur concordando con Jack Goody sulla sostanziale bilateralità della società europea, la Hughes ha però osservato come la dote medievale assunse preminenza come forma di diseredazione all’interno di potenti gruppi familiari la cui organizzazione interna era divenuta «meno bilaterale». Paradossalmente solo la dilatazione delle doti finì per far acquisire alle figlie maggiori diritti nella loro discendenza patrilineare. Comunque l’allontanarsi dell’aristocrazia dai principi bilaterali eliminò gli apporti maritali ed infine laddove la dote trionfò il potere sessuale dei mariti declinò introducendo la figura del cicisbeo [48] .

Queste ipotesi sono state riprese di recente da due studiosi anglosassoni che hanno approfondito sul piano antropologico e giuridico il tema del rapporto tra padre e figlia. Nella sua The History of the Family lo studioso inglese James Casey ha ribadito il rapporto esistente tra l’emergere delle doti e il rafforzamento dei diritti del lignaggio, sottolineando però la particolarità dell’esperienza inglese in cui il peso determinante del dovario o controdote ha permesso l’affermarsi dell’autonomia del rapporto coniugale. Se in quella situazione l’autorità del marito era molto forte, la controdote assegnata alla moglie le garantiva sicurezza in caso di vedovanza. Casey ha inoltre ribadito sulla scia di Cooper il ruolo fondamentale svolto dal sistema dotale nel favorire il passaggio da una società basata sulla gerarchia dell’onore ad una società in cui sarebbe prevalsa la gerarchia della ricchezza [49] .

Nella sua raccolta di saggi sulla società rinascimentale fiorentina lo studioso americano Thomas Kuehn ha approfondito questa serie di problemi, mettendo costantemente in relazione il dettato delle norme, l’interpretazione dei giuristi e la prassi quotidiana del conflitto. Nella sezione del suo libro dedicata alle donne Kuehn evidenzia il ruolo della patria potestà anche nei confronti della donna sposata [50] . Mettendo in discussione la visione tradizionale che vedeva nel matrimonio il momento di scissione dalla famiglia di origine e, tramite la dote, di esclusione della donna dalla proprietà paterna Kuehn ha posto in rilievo la continuità della patria potestà. Se il controllo del marito sulla donna è di tipo attivo, quello del padre si può infatti definire passivo, nel senso che rimaneva sotteso alle norme giuridiche più generali che regolamentavano i rapporti familiari. La patria potestà imponeva ad una figlia sposata restrizioni sul piano successorio e le impediva di compiere determinati atti giuridici come ad esempio scrivere un testamento, alienare una proprietà o prendere parte ad un procedimento penale senza l’autorizzazione paterna. Ma la patria potestà comportava dei limiti anche per il padre, poiché sino a quando permaneva un padre non poteva rapportarsi con la figlia da eguale, non poteva stabilire con lei un formale contratto e le proprietà non potevano passare tra di loro. E questi limiti gravavano ovviamente anche sugli altri. L’emancipazione delle donne sposate era uno strumento per creare capacità legali e situazioni che potevano essere utilizzate da chi vi era coinvolto.

È però sulla presunta esclusione per causa di dote che Kuehn avanza alcune tra le osservazioni più interessanti. In particolare egli si è soffermato sul ruolo interpretativo e mediatorio svolto dai giuristi, spinti da un lato a salvaguardare il principio di agnazione e dall’altro a motivare le diversificate richieste dei clienti. Egli ha dimostrato che non esisteva comunque una chiara dicotomia tra una concezione maschile della parentela come 1’agnazione e quella di consanguineità. Tra il principio di agnazione e quello di cognazione esistevano infatti forti ambiguità e le donne potevano considerarsi agnati, usando strumentalmente sul piano giudiziario questa nozione di parentela laddove poteva risultare vincente, come ad esempio contro la parentela maschile più lontana [51] .

In questo filone storiografico più attento alla normativa giuridica e alle sue implicazioni antropologiche il rapporto padre-figlia è divenuto dunque uno dei temi centrali nell’ambito della storia della famiglia. Gli istituti della dote e della controdote sono stati esaminati in una prospettiva volta ad accertarne le conseguenze e il reale significato in una rete complessa di rapporti interfamiliari. In questa direzione normativa giuridica e casistica giudiziaria hanno costituito il binomio inscindibile per verificare la reale dimensione storica di istituti che regolarono a lungo la vita della famiglia.

Nel processo istruito a Forni di Sopra nel 1538 il dibattito giudiziario si innestò sin dalle prime battute in una dialettica giuridica che le parti avviarono strumentalmente per raggiungere il loro obbiettivo. Caterina Corradazzo rivendicò la prerogativa delle consuetudini locali per affermare i suoi diritti a succedere nel patrimonio paterno in assenza di fratelli. Consuetudini che, a suo dire, garantivano alle figlie ampi diritti pure nei confronti dei membri maschili del lignaggio paterno. Nei suoi capitoli non si faceva alcun cenno alla dote che ella aveva a suo tempo ricevuto e tanto meno alla sua costituzione in funzione della quota ereditaria. È possibile che la dote in Carnia fosse essenzialmente connessa al rapporto patrimoniale tra coniugi e, di conseguenza, le figlie godessero liberamente della legittima sul patrimonio paterno? [52]

A diversità dei testi di Caterina Corradazzo, quelli chiamati a deporre da don Sebastiano Corradazzo entrarono invece direttamente nella scottante questione del rapporto tra dote e successione. Osvaldo Venier fu tra i più espliciti:

l’è consueto sì in Forno di Sopra como di Sotto che quando la riman qualche puttella la si dotta secondo la possibilità de quello ha la sua famiglia et la non ha altra rason oltra essa dotta perché la robba è del padre tanto quanto el dura lui, dappoi la sua morte è de li figlioli masculi viventi; et si ben è morto alcuno de essi suoi figlioli avanti de lui che habbino lasciate nezze doppo de lui, quelle tal nezze non poteno domandar cosa alcuna altro che la sua dote… [53]

Non diversamente Floriano Sclavini osservò che

semper vidit quod silicet femine, existentibus masculis, in loco Furni Superioris non succedunt quemadmodum et in reliqua Patria et quod dantur eis tantummodo prestamenta et earum dotes constituunt solumodo in pezzamentis et prestamentis et non in alijs bonis, neque in pecunijs… [54]

Per questi testi la dote assegnata alle giovani delle due comunità era dunque comprensiva di ogni altro diritto ereditario sul patrimonio paterno. Dalle loro affermazioni la dote, sganciata da qualsiasi correlazione con la legittima, appariva inoltre assumere le tipiche caratteristiche dell’esclusione [55] . Sembrava quasi di sentir recitare il dettato delle Costituzioni friulane che, a loro giudizio, erano ampiamente applicate in Forni di Sopra così come nel resto della Patria del Friuli.

Quali erano dunque i punti di contatto tra le due versioni, che in apparenza non sembravano trovare alcuna conciliabilità? Evidentemente se Caterina Corradazzo avesse sostenuto che la dote doveva in ogni caso essere comprensiva della legittima avrebbe dovuto conseguentemente dimostrare che quanto aveva ricevuto dagli zii al momento del matrimonio era stato insufficiente a garantire i suoi diritti. Nei rogiti del primo notaio di Forni di Sopra, che inizia ad operare intorno ala metà del secolo, le cosiddette «remissioni» che accompagnavano gli inventari di dote sono molto frequenti [56] . Con questo atto formale di rinuncia la sposa dotata si impegnava nei confronti dei fratelli e dei genitori di «far fine, remissione, quietatione». I due sposi, in definitiva, rinunciavano ad avanzare future pretese nei confronti del patrimonio della famiglia della donna [57] . Il valore delle doti assegnate, estremamente variabile, dipendeva ovviamente dalla consistenza del patrimonio e dal ruolo lavorativo svolto dalla donna nella famiglia d’origine. Sarebbe però azzardato considerare questi patti come attestazioni del fatto che la dote si dovesse considerare sempre come una sorta di esclusione definitiva dal patrimonio paterno. La sua equivalenza alla legittima era infatti rapportata alla situazione patrimoniale e familiare del momento in cui essa era stata costituita. L’atto di rinuncia mirava innanzi tutto a salvaguardare i diritti dei figli maschi una volta che fosse venuta meno la persona, per lo più il padre, su cui incombeva l’obbligo di dotare. La congruità della dote, che poteva essere rapportata più o meno strettamente alla legittima, dipendeva dall’organizzazione patrimoniale e culturale della famiglia [58] . Come ha osservato David Sabean le formulazioni giuridiche devono rapportarsi in ogni caso a quella che egli ha definito time-dimension. Nel cercare di capire la natura della famiglia appare fuorviante focalizzare l’attenzione su uno solo dei suoi momenti di vita. La costituzione del nuovo patrimonio familiare è infatti da correlare in prospettiva con la situazione che verrà a crearsi alla morte dei genitori degli sposi [59] . In questa direzione è significativo il rapporto economico e patrimoniale che si stabiliva tra i coniugi al momento e durante il matrimonio e i legami della stessa natura che essi intrattenevano con le famiglie d’origine.

Gli atti di rinuncia stipulati a Forni di Sopra contemplavano per lo più anche l’esplicita dichiarazione da parte dello sposo e della sua famiglia che non solo la dote non avrebbe dovuto essere intaccata ma che essa sarebbe stata garantita da una apposita controdote, che consisteva in realtà in un aumento dotale che la donna, in caso di vedovanza, avrebbe potuto recuperare insieme alla stessa dote [60] . L’esistenza della controdote è l’attestazione dell’evoluzione che avevano subito a ’500 inoltrato i più antichi apporti maritali [61] . Tale istituto stava a significare come in Forni di Sopra l’accento fosse posto per lo più sulla nuova unione coniugale che si veniva a formare piuttosto che sui vincoli di natura agnatizia e di parentela organizzata nel lignaggio. Era invece in quest’ultima ottica che la dote aveva presto assunto i caratteri dell’esclusione e in cui il lignaggio della donna manteneva una possibilità di controllo e di influenza sulla nuova coppia [62] . Laddove la dote era bilanciata dalla controdote è molto probabile invece che il suo valore potesse avvicinarsi, se non coincidere, con la quota di legittima spettante alla ragazza che lasciava la famiglia d’origine. È ipotizzabile che in tale situazione l’atto di rinuncia sancisse per lo più sul piano formale la definitiva scissione della sposa dalla famiglia d’origine. Probabilmente in una società come quella carnica, caratterizzata da un costante e intenso flusso emigratorio maschile, le doti e le quote di legittima stentavano però ad inserirsi in un quadro normativo che definisse stabilmente i rapporti giuridici tra i diversi membri della famiglia [63] . È probabile che nel corso del ’500, di seguito al forte incremento demografico e migratorio che si registrò ovunque in Europa, l’unità familiare divenisse più instabile e l’esclusione dei figli (e figlie) dotati finisse conseguentemente per essere frequentemente ridiscussa alla morte del padre di famiglia, prospettandosi infine come una consuetudine ormai interiorizzata dalla comunità [64] .

Il richiamo di Caterina Corradazzo alle consuetudini locali sembrava dunque plausibile. Pur provvista di dote ella ora reclamava una parte di quanto era appartenuto a suo padre. Di fronte a lei stava una prassi successoria ormai consolidata che permetteva alla figlia, dopo la morte del padre ed in assenza di fratelli, di ridefinire la quota di legittima che era stata loro assegnata. Con l’esplicita richiesta della propria legittima ella avrebbe potuto in realtà impadronirsi di una buona fetta del patrimonio paterno. Ella proveniva da un’unità familiare allargata, in cui il vincolo agnatizio si era saldato intorno al patrimonio comune. Per vanificare le richieste della donna gli zii paterni si erano premuniti di sottolineare nel loro penultimo capitolo come Matteo, loro fratello, fosse morto alcuni giorni prima di Tommaso loro padre. Tramite la comune ascendenza la quota di patrimonio di Matteo era dunque confluita nella Casa Corradazzo, vanificando ogni pretesa della giovane Caterina, che del resto a suo tempo era stata dotata ed aveva abbandonato la residenza dei Corradazzo in Forni. Ma quei pochi giorni di differenza tra la morte di Matteo Corradazzo e quella del padre Tommaso, evocata da Sebastiano e fratelli Corradazzo nei loro capitoli si prospettava sin troppo apertamente come un cavillo giuridico [65] . Caterina difatti era vissuta sin dalla più tenera età con gli zii, che erano subentrati nel compito di dotarla. La dote a lei concessa si poteva presumibilmente ritenere una sorta di esclusione da ogni suo diritto sul patrimonio familiare sino a che i fratelli Corradazzo fossero vissuti in comunione di beni [66] . La congruità della dote si era modellata molto probabilmente sull’organizzazione patrimoniale della famiglia tesa a difendere gli interessi della parentela agnatizia [67] . Tale situazione giuridica aveva difatti congelato quei rapporti che si erano venuti reciprocamente a creare tra la nipote e gli zii dopo la morte di Matteo Corradazzo. Ma proprio nel 1538, a causa di forti dissensi interni, i fratelli Corradazzo si erano divisi. Non a caso Caterina Corradazzo aveva avanzato le sue pretese di seguito alla divisione degli zii. Da quel momento ella non si trovava più di fronte ad un solido aggregato familiare che in base ad una sua logica interna l’aveva esclusa, ma a diversi spezzoni del nucleo originario. La mutata situazione patrimoniale e giuridica di Casa Corradazzo aveva infatti spinto a riaffiorare quei diritti patrimoniali che erano stati sottratti alla giovane in virtù di un’organizzazione familiare che nel principio di agnazione, inteso nella sua massima estensione, trovava la sua forma di regolazione interna. Con il venir meno di quella, Caterina Corradazzo aveva colto l’occasione per avanzare le sue pretese nei confronti degli zii. I quali, evidentemente, guardavano alle Costituzioni friulane e ai suoi interpreti cittadini, come l’ancora giuridica di salvataggio che avrebbe permesso loro di respingere ogni rivendicazione della nipote.

Il richiamo di Caterina Corradazzo alle consuetudini di Forni di Sopra assumeva dunque in apparenza i toni della strumentalità giudiziaria nel momento in cui ignorava volutamente la complessità della situazione locale e in particolare della famiglia da cui ella proveniva [68] . Una strumentalità d’altronde ampiamente bilanciata, come già s’è potuto notare, dalla corrispettiva inconciliabilità delle tesi della parte avversaria, decisa a negare ogni diritto della donna a succedere ab intestato, pur di fronte alla mutata situazione patrimoniale che si era venuta a creare dopo le divisioni familiari. Per comprendere l’esatta portata delle affermazioni delle due parti l’attenzione si deve dunque soffermare più propriamente all’interno del discorso giudiziario entro cui queste vennero ad affrontarsi senza risparmio di testimoni. Un discorso che se nella sua sostanza intrinseca rivelava, come si è visto, gli obbiettivi delle due parti contendenti, nel suo linguaggio formale manifestava altresì chiaramente l’intervento di tecnici del diritto assai sperimentati quali erano gli avvocati che frequentavano il foro udinese. Era compito di costoro estrinsecare sul piano delle formulazioni giuridiche gli obbiettivi delle parti contendenti, rendendole quanto più attendibili e convincenti fosse possibile.

L’iniziativa giudiziaria è dunque comprensibile nella sua pronunciata dialettica giuridica in virtù di un contesto che per le sue peculiarità geografiche, culturali e politiche era estremamente frammentato e godeva di una forte autonomia decisionale anche nei confronti del centro dominante. Il discorso giudiziario enunciato dalle due parti rinviava infatti quasi inevitabilmente alla complessità istituzionale e giuridica della Patria del Friuli [69] . La dialettica giuridica tra un complesso legislativo unitario così elaborato come le Costituzioni della Patria che erano la diretta emanazione del Parlamento friulano e la molteplicità degli statuti e delle consuetudini locali era stata una costante della vita politica ed istituzionale del Friuli. L’ultimo capitolo delle Costituzioni riformate affermava senza ombra di dubbio l’intangibilità degli statuti locali [70] . In realtà l’estrema complessità istituzionale, la molteplicità delle forze in gioco, e il ruolo determinante giocato dal Luogotenente veneziano contribuirono a non rendere sempre così scontata la funzione sussidiaria delle Costituzioni [71] . Come avrebbero ad esempio rivelato le successive forti tensioni all’interno della Patria queste leggi sarebbero state sollecitate sia dai castellani che in esse vedevano la sanzione dei loro privilegi giurisdizionali, sia dalla città di Udine che si volgeva a considerarle come una espressione della sovranità statuale [72] . Inoltre le Costituzioni si ponevano come il riferimento giuridico più diretto di quel ceto di professionisti cresciuto nell’orbita del diritto comune. La loro interpretazione, filtrata da un sapere giurisprudenziale uniforme, non poteva infine non svolgere una funzione di amalgama [73] .

Non dobbiamo dimenticare che quel processo venne istruito dalla cancelleria patriarcale di Udine su iniziativa di una delle più facoltose famiglie di Forni di Sopra. I Corradazzo del resto già da anni intrattenevano frequenti rapporti di scambio con alcuni mercanti di Udine [74] . La loro attività commerciale li poneva dunque in stretto contatto con il centro politico ed economico del Friuli. Don Sebastiano Corradazzo, promotore dello spostamento della causa giudiziaria ad Udine, era inoltre curato di Forni di Sopra e svolgeva dunque un ruolo di primo piano all’interno della comunità. Il peso della famiglia e il ruolo influente del curato assunsero presumibilmente una forza determinante nel raccogliere l’adesione e il consenso di testimoni disposti a sostenere la loro tesi, la cui ambiguità si prestava facilmente ad essere manipolata [75] . Ma quelle tesi che, al di là del conflitto in corso, mettevano fin troppo apertamente in discussione la realtà politica e sociale da cui essi stessi provenivano riflettevano pure la loro ambivalenza o meglio la loro doppia identità fortemente sbilanciata verso l’esterno.

L’amministrazione della giustizia civile, gestita dalle due comunità carniche, permetteva loro in realtà di risolvere le proprie contraddizioni, mantenendo una forte coesione politica e culturale che nemmeno la famiglia Savorgnan era riuscita sostanzialmente ad indebolire. L’iniziativa dei Corradazzo, pur giocata sul piano personale, si inseriva come già si è osservato, in un’ottica estremamente predisposta al confronto giuridico, ma in definitiva, così com’era formulata, si prospettava come una messa in discussione della coesione sociale e politica delle due comunità. La formalizzazione del discorso giuridico da parte degli avvocati di Caterina Corradazzo che evidentemente si inseriva nella medesima logica appariva dunque ampiamente motivata. Agli occhi dei testi citati il richiamo all’oralità e alla consuetudine, caposaldo dei capitoli di Caterina Corradazzo, difficilmente non avrebbe potuto assumere i toni di una rivendicazione dell’autonomia politica locale, che significava in primo luogo la salvaguardia di un comune campo decisionale e normativo, minacciato da un’iniziativa che volutamente si rifaceva alla legge scritta ed interpretata da professionisti del diritto. Se l’oralità costituiva la valorizzazione delle relazioni interindividuali all’interno della comunità, la consuetudine ne costituiva l’indispensabile legittimità [76] . I suoi interpreti erano infatti gli stessi anziani della comunità, unici depositari delle tradizioni culturali e dell’assetto politico. Tramite l’oralità essi conservavano e trasformavano i valori culturali insigniti del mito della consuetudine [77] . I compromessi e gli arbitrati costituivano gli elementi più distintivi di una prassi conflittuale che interlocutoriamente e strumentalmente si inseriva nell’ambito delle istituzioni giudiziarie che conservavano ancora l’impronta dell’antico placito [78] . Come avrebbero potuto sottrarsi i testi ad un simile richiamo? E i giudici avrebbero potuto non prestare attenzione ad una prassi consolidata che assumeva le stesse sembianze del diritto?

Il ricorso alla legge scritta esterna da parte dei fratelli Corradazzo appariva sin troppo apertamente come una messa in discussione dei valori normativi comunitari e dei suoi contenuti politici. L’inserimento della norma scritta dotata di una forte capacità di astrazione e di un diverso controllo del tempo e delle cose [79] avrebbe infine messo in discussione una società comunitaria gerarchicamente organizzata secondo una coerenza interna i cui elementi erano strettamente interdipendenti. Lo stesso potere di trasmettere oralmente le tradizioni consuetudinarie di cui erano insigniti gli anziani della comunità sarebbe stato fatalmente messo in discussione dal diverso valore probatorio di cui la norma scritta e la scrittura erano portatrici. Probabilmente l’iniziativa dei fratelli Corradazzo scaturiva dall’incapacità da parte della comunità di gestire le proprie contraddizioni interne di fronte all’emergere di famiglie i cui interessi erano fortemente rivolti verso l’esterno e la cui organizzazione mirava ad imitare quella dei gruppi parentali che si erano insediati nelle città. Di certo il processo avviato nel 1538 si inseriva in un fenomeno più generale, che ovunque avrebbe portato ad una crescita della dimensione giuridica dotta e al suo impossessamento da parte di un personale tecnico specializzato [80] . E del resto cosa non erano quegli atti notarili, che nella stessa comunità di Forni di Sopra si incominciarono a rogare nella seconda m

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