12. Suppliche in materia successoria (1611-1615) e (1637-1638)

Si inseriscono in questo punto alcuni esempi di suppliche in materia successoria. Come è tipico di questi documenti la descrizione del profilo giuridico della vicenda si alterna pure a quella che potremmo definire più propriamente di casi di vita. Lo stile e la retorica utilizzati sono infatti frutto della penna di avvocati che mirano innanzitutto all’accoglimento della supplica da parte della Signoria. La prima parte della documentazione è curata da Cristina Setti; la seconda da Alessandra Sambo.

(A cura di Cristina Setti)

1) ASV, Collegio, Risposte di dentro, b. 13 (1611-1614 m.v.)

La seguente supplica evidenzia delle questioni molto significative in materia successoria. La sua autrice, la nobildonna Isabetta Lion,denuncia infatti di essere stata defraudata dei suoi diritti ereditari dal fratello, Ferigo Lion, reo di essersi appropriato illegittimamente dei beni della madre, il cui lignaggio (la famiglia Signolo) aveva esaurito gli eredi maschi. Ciò sarebbe stato fatto in spregio alle norme varate dal Senato a partire dal 1586, che stabilivano che, per continuare ad avere possesso dei beni feudali, i legittimi eredi dovessero farsi rinnovare le investiture di tali beni dalla Serenissima Signoria, previo controllo dei Provveditori di Comun, cui era stato deputato il censimento di questo tipo di proprietà: evidentemente Ferigo non aveva le credenziali per poterlo fare. Solo in conseguenza di questa indebita “usurpatione” la supplicante è venuta così a conoscenza della sua facoltà di chiedere il rinnovamento delle investiture fatte a due suoi antenati (Marco e Stefano Signolo), con le quali si era a suo tempo stabilita, in caso di estinzione della linea maschile, la trasmissione dei beni in linea femminile. Di conseguenza, la signora Lion risulterebbe, a quanto pare, l’unica erede legittimata (dai Signolo) a fare questo tipo di richiesta; cosa che potrebbe aumentare il suo potere d’influenza soprattutto nella famiglia del marito (si suppone sia sposata, o vedova, visto ch’ella dichiara anche di avere dei figli), dato che nella famiglia di provenienza è il fratello ad avere una posizione predominante, forse perché già destinatario dell’eredità fedecommissaria dei Lion.

● Serenissimo Principe,

Non mancò mai la grandezza di questa felicissima Repubblica benigna contra li suoi fedelissimi sudditi dalche confidata io Isabetta Lion figliola del quondam Antonio, q. Ferigo, q. Nicolò, q. Ferigo, q. Maffeo q. Nicolò Lion e della quondam madona Benitia Signolo et esponendo a Vostra Serenità che fin l’anno 1209 furono investiti dall’Ecc.mo Signor Duca di Ferrara il quondam Steffano Signolo per nome suo e delli quondam Andrea e Piero suoi nepoti de alcuni beni posti in villa di Grompo, territorio di Rovigo, per raggion di feudo per se’, e heredi, e come in essa investitura alla qual si habbia relation, e perchè detta famiglia si è estinta, e per conseguentia li beni di essa investitura sarebbe devoluti nella Signoria Vostra, tuttavia io Isabetta soddeta confidatami nella benignità e clemenza di Vostra Signoria humilmente comparo a’ piedi suoi ignara, non havendo ancho prima che mo cognitione di essa usurpatione di haver possedesto beni, feudi senza legittimo titolo. Il che non mi sarebbe nianche avveduta se non fosse stato la molestia che al presente mi vien datta dal signor Ferigo Lion mio frattello dalla qual mi son accorta, e venuta in luce da tale usurpation da me fatta [=a me fatta] senza titolo niuno, ne senza mai haver tolto renovation de investiture, ne investiture de niuna sorte, et similmente essendo anco sta investito per ragion di feudo il q. signor Marco et Steffano Signolo l’anno 1203 et 1214 de altri beni posti nella villa del dose sotto Rovigo con condition che mancando li maschi, le femine, possi e debbi succeder; et essendoli occorso il caso che sono mancado la linea mascolina di Signoli per il …essi beni feudi, venero e capitorno nella q. madona Venitia Signola la qual si maridete nel quondam Signor Lion. Portò esso feudo nella casa nostra , e conseguentemente conforme esse investiture 1203, 1214, le femine sono fatte capaci di detto feudo hora, essendo che per legge dell’Ecc.mo Senato 1586-13-Decembre fu deliberato che domandando […] e denontiandosi se stessi di tenir et occupar beni feudali di esser habilitadi, di esser investiti. Per il che, essendo io Isabetta Lion descendente della sopradetta quondam Venitia Signolo, e benefficiata di esso feudo, e chiamata da esse investiture; perciò comparo a’ piedi della Seg.tà Vostra, humilmente supplicandola che in gratia si degni di commetter che mi sii fatte e renovate nella persona mia le investiture 1203, 1209, 1214, offerendomi insieme con li miei poveri figliolini pregar il Signor Iddio per la conservation di questo felicissimo stato. Alli piedi suoi humilmente me gli raccomando in gratia.

1611, …marzo [m.v.]

Che alla sopradetta suplicatione rispondano li Provveditori sopra i feudi…

2) Nella seconda scrittura assistiamo invece alle richieste di una vedova che intende recuperare la propria dote dai beni del defunto marito, finiti alla Zecca in seguito a un’asta fatta dai Sopraconsoli; la dote non era stata restituita per un intoppo “burocratico”; è quindi interessante vedere come la supplicante, morto il marito e con prole da mantenere, possa rivendicare i suoi diritti e ridivenire titolare dei propri beni dotali. Altro dato rilevante è che questa supplica ci può dare un’idea dell’entità di una dote in famiglie benestanti: 3700 ducati, probabilmente una somma assai cospicua, rivelatrice di uno status economico-sociale altolocato.

● Serenissimo Principe

Fu fatta vendita al publico incanto, per l’officio delli Clarissimi Signori Sopraconsoli de diversi beni, sì mobili, come stabili, di raggion del quondam Signor Iseppo Finardi, il tratto de’ quali in gran parte fu’ portato in Cecca dal quondam Clarissimo Signor Vettor Bragadin, già Giudice e Cassier del domino Clarissimo Officio de’ Sopraconsoli nel tempo (per quanto vien detto) della fuga del Contador di Cecca; et havendo io Isabetta Ventura, relitta [= vedova] del sopradetto quondam Signor Iseppo, fatto pagamento di dote sopra ducati 3700, parte sopra detto tratto di beni di esso quondam mio marito, e volendo hora quelli conseguir, et haver il mio mandato dal detto Officio de’ Sopraconsoli per poter quelli ellevar dalla Cecca, mi vien detto dalli ministri d’esso che sebene si ritrova in esser detto deposito insieme anco con molti altri che furno portati in Cecca dal sopradetto quondam Clarissimo Bragadin cassier, che però all’hora non furno zirate le partite a’ credito d’esso magistrato per li sopradetti depositi, sì che per tal causa non mi possono conceder il detto mio mandato; però io, Isabetta predetta, riccoro a’ piedi della Signoria Vostra e reverentissimamente la suplico che, essendo al presente in esser nella sua Cecca detto deposito di raggion di mio marito, la si degni dar quel ordine, in questo proposito, che alla summa prudentia parerà, a’ fine ch’io poverina vedova, carica d’otto creaturine, possi conseguir li sopradetti dannari, per me come di sopra tolti in pagamento di dotte, e con essi sostentar esse mie creature, pregar il Signor Iddio per la conservatione della Sovranità Vostra, et per la felicità et prosperità di questo Serenissimo Dominio. Gratiae

1611, …maggio

Che alla sopradetta suplicatione rispondano li Provveditori in Cecca…

3) Nella lettera riportata qui di seguito, la supplicante rivendica un’eredità promessa ai suoi parenti ascendenti, evidentemente privi di altri successori; eredità che consisteva in 2 botteghe di farina promesse dalla Signoria a un suo avo e fatte da questo intestare ai propri figli, zii defunti della donna. In loro mancanza, e non essendosi mai veramente concretizzato il conseguimento dell’eredità, la donna richiede di ottenere ciò che le spetta, sottolineando le sue difficoltà economiche. Ciò fa pensare, assieme alla natura di “premio” delle botteghe, che la famiglia in questione possa appartenere all’aristocrazia povera, se non a ceti inferiori; in quest’ultimo caso tale supplica fornirebbe degli interessanti spunti di riflessione intorno al tema della mobilità sociale, segnatamente a come cambino i criteri di ascesa economica (e politica) in età moderna, in contesto repubblicano peculiare come quello della Serenissima.

● Serenissimo Principe,

Le singolar et egreggie operationi devenute da tutta la famiglia de Penacchi ascendenti di me infelice Hellena, si come furono egregie e segnalate, operate così nelle guerre de terra, come de mare, con grandissimo beneficio publico; così eccitorno la somma sua Clemenza a’ dover conceder l’anno 1587 una aspettativa a’ D. Hieronimo Penacchi mio Avo de due botteghe de farina nel fontego di questa città, da esser posta in nome de uno de suoi figliuoli. Questo effetto della sua molta benignità non ha potuto mai esser adempito, e questi hanno tutti finito la vita, et io sola misera orfana figliola de questi, son restata senza parenti senza sostanze e senza alcun agiuto in grandissima inopia, et calamità, né havendo altro hereditato che li soli meriti, et la memoria della loro devotione. Prostrata a’ Clementissimi piedi di Vostra Serenità, humilissimamente la supplico che si degni vivificar detta gratia, non mai adempita, nella persona mia, dovendo questa intendersi cominciata l’anno 1587 XII Agosto al tempo a’ punto che fu’ concessa a’ detto quondam mio Avo, e ciò nonostante la parte 1579, XI Aprile, la qual … che sii letta a’ suoi piedi, e questo acciò io possa con qualche brevità riparare all’urgentissimo bisogno e necessità in che m’attrovo, la qual gratia si come riconoscerò per solo effetto di pia e singolar benignità, così sarò sempre tenuta pregar il Signore per la felice esaltatione di questa Santissima Repubblica. Gratiae

1611, …maggio

Che alla suddetta supplicatione rispondano i Visdomini alla Farina…

ASV, Collegio, Risposte di dentro, b. 14 (1615-1617 m. v.), cc. 40-52-53-60.

4) In questo caso, la zia degli eredi, ancora minorenni, chiede di rifiutare a loro nome l’eredità fedecommissaria.

● Serenissimo Prencipe,

Mancò di vita l’anno 1605 il quondam messer Odorico Robobelli, et lasciò doppo se due figliuoli, l’uno in età d’anni quattro in circa, nominato, Bernardin, et l’altro di mesi sei chiamato Zuane; non havendo possuto, ne potranno mai goder beni di fortuna paterni, essendo morto in lacrimabile stato di miseria, ma solamente una poca rendita di beni a essi figliuoli lasciata dalla pia ordinatione del quondam D. Odorico loro avo paterno, sottoposti a perpetuo, et strettissimo, fideicommisso, situati nella villa dil Carpene, sotto Campo San Piero, li quali essendo nell’infantia al tempo della morte, et consequentemente senza cognitione delle publiche dispositioni, non hanno perciò rifiutato li beni paterni, et acciochè sia adempita la legge in tal materia disponente, con la quale non intese mai la publica providenza pregiudicare a’ pupilli, Però io Cecilia Robobella sua ameda [= zia, dal latino amita], come tutrice di esse creature, anco in età pupillare essistenti, la supplico farmi degna della Sua gratia, ch’io possa non ostante il spirar del tempo, servatis servandis rifiutar in nome loro essa heredità, si come in casi simili, si è la Serenità Vostra compiacciuta gratiar altri, alla quale humilmente m’inchino. Gratiae

1615 a’ 14 Maggio

Che alla sopradetta supplicatione rispondano li Signori tre Savi sopra i Conti [che dal 1513 avevano facoltà di accettare le rinunce delle eredità da parte degli eredi necessari, v. Da Mosto], et ben informati delle cose in essa contenute, visto, servato et considerato quanto si deve, dicano la loro opinione con giuramento e sottoscrittione di man propria giusta la forma della legge.

5) Questa invece è una vera e propria richiesta di sostegno economico, a guisa di risarcimento per aver perso la dote in occasione della morte violenta del marito, valoroso milite della Serenissima. Il tono della lettera, e gli argomenti che ne suffragano le motivazioni, mettono in risalto come le donne maritate avessero dei poteri di rivendicazione di non poco conto; così come, il numero delle magistrature tirate in ballo dalla delibera della Signoria posta in calce denota come il governo marciano non trascurasse affatto simili problematiche, quasi che la preservazione degli equilibri socio-politici della Repubblica non potesse prescindere da un costante atteggiamento di apertura e disponibilità verso i suoi sudditi, anche quelli socialmente più “deboli” come le donne.

● Serenissimo Principe,

Dall’anno 1577 mese di luglio principio, con grandissima divotione te fedeltà Giacomo Viventi di Friul, vassallo et servo di Vostra Serenità, ha servito, sì come da publiche attestationi di rapresentanti publici et Ecc.mi Generali appare, in diverse fortezze et città, sì come saria Zara, Pago, Novegradi, Arbe, Veglia et Corfù, et nel Regno di Candia, che ciò apparirono da esse patenti havendogli dimostrato con ogni prontezza et honorevolezza per satisfar non solo al debito che teniva nell’obedir a’ Capitani, Colonelli, Governatori, Generali et altri publici Rappresentanti, non ad altro fine se non perché fosse conosciuta la viva devotione et obedientia che prestava a’ publici suoi rapresentanti, che poi da Vostra Serenità fosse non solo riconosciuta la viva sua fede come anco li suoi figlioli qualli mentre restassero in vitta potessero essercitare con istesso modo et maniera di fedeltà verso voi Prencipe Serenissimo. Ma che dirò io povera et infelice Vittoria, relita (=vedova?) del ditto strenuo Capitano Giacomo Viventi et figliola del fu Capitano Cesare di Bianchi, pur tanto benemerito per le sue fedelissime servitù che il detto quondam mio padre passò da questa all’altra vitta il mese di Genaro 1614 mentre servendo Vostra Serenità de età d’anni 80, alla qual doglia a me tanto acerba pocho doppo mi sopragionse appresso detta aflittione l’acidente et improvisa morte l’istesso mese di Genaro del Capitan Giacomo Viventi mio marito, havendomi lasciato sei figliuoli: tre mascoli et tre femine in pupillare età, eccetto uno che di anni 14 principiava a’ servir anco lui per soldato, et in questa infelice passatta della morte violenta del detto mio marito ho perso quasi tutta la mia dotte onde che non sapria con che maniera potermi sovenire et socorrere se non con l’aiuto della Serenità Vostra. Onde, Principe Serenissimo, vengo a’ suoi piedi come fece Maria Madalena a’ piedi di Giesù Cristo, suplicandola che come informata della devotione et obedienza di esso mio marito qual non puoté mancare per la Comminatione espressa dal Clarissimo Signor Conte di Pago di andar ove comandava sua Signoria Clarissima, per tanto genuflessa suplichiamo noi tutti Vittoria madre, et Nicolò figliolo primo appresso le altre cinque creaturine commiserando il stato et condition nostra, et alli meriti del marito, et padre morto et antenati, li qualli non habbiamo mai havuto benefitio né gratia di alcuna sorta come dalla fede appare, si degni di concedermi un’aspettativa di un officio o’ fontaria (?) così drento come fori doppo li altre, da esser posto in nome di uno di essi miei figliuoli per sustentatione mia et di detta mia numerosa famiglia, et fin tanto che venirà il tempo dell’adempimento di essa gratia assignarmi ducati quindese al mese, overo quanto parerà a Vostra Serenità, per sustentamento di me et di essa mia numerosa famiglia, accioché con questo mezo habbia occasione di nutrire essi figliuoli, quali poi saranno per servir in tutte le occorenze con la vitta et robba istessa Vostra Serenità, et humilmente prostrati a’ terra se gli inchiniamo. Gratiae.

1615, a’ 31 Maggio

Che alla sopradetta suplicatione rispondano li Presidenti della Quarantia Criminal deputati sopra li Offici, et ben informati delle cose in essa contenute, visto, servato et considerato quanto si deve, dicano la loro opinione con giuramento e sottoscrittione di man propria iuxta la forma delle leggi.

L’istesso facciano li Avogadori di Comun.

Il medesimo facciano li Proveditori in Cecca, Revisori et Regolatori delle Intrade Publiche, et Conservatori dei depositi…

6) Qui di seguito è riportata un’altra richiesta di aiuto economico da parte di una vedova; l’elemento più significativo è forse che, oltre a un più generale sostegno, la donna rivendica l’importanza dell’incarico pubblico del marito, funzionario (o forse addirittura provveditore) della Zecca, e come tale ruolo l’habbia costretto a fare delle spese e dei sacrifici i cui frutti dovrebbero di diritto essere goduti dalle figlie (in questo consiste il reclamo di “una delle tre case deputate già per il carico dell’affinar l’oro”, ambito la cui gestione era stata evidentemente di pertinenza del marito): l’esaltazione dei meriti militari di altri membri della famiglia (come il suocero) e l’accentuamento della condizione di difficoltà in cui la supplicante si trova per dover provvedere a cinque figlie in età da marito, sono fattori ricorrenti anche in altre suppliche, tesi a sollecitare la pietà e la benevolenza tradizionalmente attribuite alla Repubblica, oltre che a porre in risalto la valenza “meritocratica” che i sudditi attribuiscono alla devozione e ai servigi ad essa resi.

● Serenissimo Principe,

L’inveterata consuetudine della Serenità Vostra di soccorrer le miserie de’ suoi poveri cittadini da’ quali ella sia stata fedelmente servita, da’ confidenza a’ me povera moglie del quondam Nicolò Saler di ricorrer humilmente a’ piedi suoi nelle mie estreme miserie e calamità, per riceverne qualche aiuto. È molto ben noto alla Ser.tà Vra la servitù del quondam messer Nicolò Saler mio marito, il quale per spatio di quarant’anni l’ha servita nella sua Cecca, in molti et importantissimi carichi, con somma fedeltà et utilità del publico, per la quale servitù ha perso molte utilità, e gl’è stata o totalmente causata o almeno accelerata la morte. Gl’è similmente nota la servitù de’ suoi antenati e specialmente de messer Nicolò suo avo, il quale in occasione della guerra essendo mandato per portar munitioni a’ soldati fu’ preso e fatto schiavo con grandissimo danno della persona et della casa. Io mi ritrovo aggravata di cinque figliuole tutte in età da marito, caricha di debbiti e di miseria bastanti a’ mover le lacrime sino a’ miei nemici. Onde con ogni reverenza supplico la Ser.tà Vra che se non bastano i meriti predetti, per la solita sua pietà e carità si degni soccorrer a’ miei bisogni, e sarebbe conveniente soccorso, se si compiacesse conceder in nome di dette mie figliole durante la sua vita una delle tre Case deputate già per il carico dell’affinar l’oro, la quale è vacante, essendone state concesse due a’ messer Zuanne Premuda, al quale è stato conferito il partito dell’oro, vacato per la morte del detto mio marito; da questo niuno riceve danno, et io riceverò sommo sollevamento, massime essendo la casa mia aggravata per le spese ch’egli ha fatto per il detto partito dell’oro. Delle quali, essendo prevenuto dalla morte, non ha potuto completamente rimborsarle; per il che m’offerisco insieme con le povere mie figliole pregar sua Divina Maestà per la felicità della Ser.tà Vostra e di questa Eccelsa Repubblica.

1615, Adì 2 Zugno

Che alla sopradetta suplicatione rispondano li Proveditori in Cecca, e ben informati delle cose in essa contenute, visto, servato e considerato quanto si deve, dicano la loro opinione con giuramento e sottoscrittione di man propria secondo la forma delle leggi, potendo por nota sopra la risposta del luoco et nome della supplicante rimandando il tutto sotto sigillo in mano di uno dei secretari della Signoria per uno dei suoi ministri. ..

7) La seguente supplica è di indubbia rilevanza riguardo alle doti. In essa infatti la supplicante chiede con una certa insistenza, pur velata da un misto di disperazione e insofferenza, il reintegro della sua intera dote, sottrattagli per errore alla confisca dei beni del marito, che a quanto pare ha subito una condanna di bando; la donna lamenta di aver più volte interpellato le magistrature della repubblica, ma nondimeno esse, pur avendo riconosciuto i suoi diritti e inoltre pur essendosi mostrati pietosi dinnanzi a un atto di pignoramento emanato dopo che ella si era inevitabilmente indebitata, hanno deliberato di rendergliene solo due terzi. E’ probabile che la quota trattenuta sia una sorta di compensazione della clemenza mostrata, tuttavia la supplicante ritiene questo balzello profondamente ingiusto, tanto che essa richiama “i privilegi che statuiscono tutte le leggi alle dotti delle povere donne”, cercando ovviamente di mostrarsi degna di comprensione e compassione.

· Serenissimo Prencipe,

Del 1583. 9. Agosto da’ miei tutori io infelicissima Caterina Contesello fui data in moglie al quondam Piero Bernardini, e del 1608 . . . [= c’era indicazione precisa della data, ora non comprensibile]restando essule il detto mio marito, con confiscatione de beni furono dal fisco non solo tolti li beni di lui, ma quelli della mia povera dotte ancora, e, benché fossero fondi dotali, convenne a’ me misera donna destituita, abbandonata da ogn’uno, carica del peso de figliuoli maschi, e femine, in età puerile, et infante, girar i palazzi per contendere le mie sostanze, che non pativano dubietà alcuna per essere antiquissime della mia casa , et assegnatemi da tant’anni per la mia poca dotte. E così doppo essermi afflitta, et indebitata, finalmente fu’ terminato ch’io havessi la mia dotte sì, ma con questa miseranda, et a’ me rovinosa clausola, con detrattione, e perdita del terzo di essa; e se bene del 1609 a’ dì 6 Decembre li medesimi signori, che fecero la sentenza, giudicarono che mi fosse levato un sequestro d’i frutti di quell’anno, e se bene, mossi a’ pietà, fino al presente giorno non hanno fatta essecutione alcuna, pure la necessità in ch’io mi trovo con la numerosa famiglia mia mi fa temere che non si venga a’ la rigida essecutione; e però ricorro a’ ripararmi sotto lo scudo della clemenza della Serenità Vostra, la quale con la bilancia della sua giusta benignità ponderando l’innocenza mia, i privilegi che statuiscono tutte le leggi alle dotti delle povere donne , e ‘l considerare che vivo io, et il marito è morto, se però si può dir vita questa mia così angosciosa, che più tosto è un ritratto, et una idea della morte, e che io vivente habbia a’ perdere la terza parte di quei fondi dotali che devono restar sostegno mio, e della mia infelice casa; E quando, Serenissimo Prencipe, l’anteditte ragioni non siino bastevoli a’ farmi impetrare dalla Ser.tà Vra la conservatione libera del terzo della mia dotte, io la supplico per l’amor di Dio, il quale non ha’ attione per più accetta quanto quella della Carità che si soministra a’ povere donne, e più a’ misere vedove cariche di famiglia, come son’io, che genuflessa mi getto a’ piedi della Ser.tà Vra, e piena di speranza di dover trovar nella presente gratia, che con humilissima instanza io ricerco che non mi sii levato il terzo della mia dotte, pur troppo scemata, e consumata da’ interusurii di livelli convenutimi fare per recuperarla, spero dico di trovar quella pietà ch’è solita d’usare la Ser.tà Vra verso i suoi servi, e sudditi, che perciò ragionevolmente le da’ la’ fama del più clemente e glorioso Prencipe del mondo. Et io co’ miei figliuoli e figlie porgeremo continue preghiere a’ Dio Sig. per la’ conservatione, e sublimatione, di felici successi di Vra Ser.tà.

1615, 2 Luglio

Che alla sopradetta suplicatione rispondano li Proveditori in Cecca, e ben informati delle cose in essa contenute, visto, servato e considerato quanto si deve, dicano la loro opinione con giuramento e sottoscrittione di man propria iuxta la forma delle leggi.

L’istesso facciano li Revisori e Regolatori delle intrade publiche, e i Conservatori del deposito…

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(a cura di Alessandra Sambo)

I conflitti a livello familiare, preferiscono in linea di principio soluzioni interne alla propria struttura sociale – e quindi anche culturale e giuridica. Generalmente perciò sono gli stessi statuti ed eventualmente le consuetudini locali a prevederne gestioni stragiudiziali (ma nel caso veneziano anche infragiudiziali, in quanto il compromesso more veneto prevede un’approvazione conclusiva da parte del magistrato che lo rende inappellabile), affinché esso rimanga chiuso nella sfera del privato, evitando che la sua rappresentazione sia drammatizzata pubblicamente nelle aule dei tribunali.

Questo ci racconta la legge, ma le carte spesso rivelano tutt’altra realtà nella società del Seicento, dilaniata da fortissimi stravolgimenti socioeconomici e che incontra sempre più difficoltà a ricomporre i conflitti attraverso forme di mediazione.

Le rappresentazioni offerte dalle suppliche offrono uno spaccato di dinamiche familiari e delle scelte procedurali più che risoluzioni tramite un intervento del sovrano, piuttosto sordo a interporsi autoritativamente, nonostante tulle le leggi in materia di delegazioni citino espressamente nelle casistiche questa tipologia. La soluzione interventista sembra comunque praticata in modo maggiore sul lato veneziano, in linea con la politica in materia di delegazioni praticata dal legislatore, che va gradualmente separando le tipologie cui concedere questa grazia, riducendole per la Dominante ai familiari e poi alla sola povertà.

una eredità al maschile

Nel caso dei Finazzi – Luchini vedremo addirittura favorita l’opzione paterna.

Isabetta Rocca aveva ereditato dal padre, mercante di panni, metà patrimonio, l’altra metà essendo andata al suo unico figlio maschio Piero; alla sua morte il patrimonio, composto appunto dall’eredità paterna e dalla dote, diventa luogo del contendere tra i due maschi da una parte (Antonio Finazzi, il marito sopravvissutole, e Piero, il figlio) e la figlia femmina Bianca, sposatasi nel frattempo con il medico Domenico Luchini: Antonio pretenderebbe l’usufrutto dei beni della moglie e quindi l’eredità al figlio maschio, ma Bianca reclama la metà dell’eredità della madre, come disposto dal testamento di questa e come poi le viene confermato anche da comandamenti di capi della quarantia [1] , anche se poi lamenta di non riuscire a entrarne in possesso, poiché padre e fratello avrebbero sempre operato senza chiedere mai il suo consenso, anzi secondo ilprincipio che lei non avesse «alcuna ragione né attione». Piero, sottoposto alla patria potestà, fa sentenziare a legge il testamento Rocca, pretendendo come superstite tutto il residuo, ma muore mentre si discuteva finalmente l’appello in quarantia e tutti beni si trovano nelle mani del padre; così Bianca, temendo egli nasconda degli effetti, fa bollare dei beni e inizia una nuova causa con lui mentre suo marito, non contento di quanto verrebbe a ricevere (e forse stanco di non vedere saldati i crediti), fa causa al suocero anche per un credito dotale. Da notare che è il padre, che ora si trova con parte dei beni sotto sequestro cautelativo, a rivolgersi alla Signoria per ottenere la delegazione.

delegazione concessa (6.0.0); Antonio Finazzi, in causa con Domenico Luchini, medico, a nome della moglie Bianca Finazzi di Antonio ; chiede superior o conservatori delle leggi; concesso « conservatori delle leggi salve le cose giudicate dalli consegli come dalli capi di essi con appellatione solita ai consegli».

ASV, Collegio, Notatorio, reg. 96, c. 116r e fz. 307, 1638, 15 dicembre.

supplica presentata per d. Bernardo Rigola con 3 processi segnati;originale in ASV, Collegio, Presentazioni, fz. 613, s.d. (copia) ma 1638, 23 agosto.

Hebbi dalla madonna Isabetta mia consorte due figlioli, l’uno maschio, nominato Piero, che poi morì, l’altra, nominata Bianca, che si copulò in matrimonio col signor Domenico Luchini, medico.

Doppo la morte della mia consorte, la quale oltre la propria dote fu herede per la mettà del q. signor d. Battista Rocca, fu suo padre, essendo herede dell’altra metà il detto mio figlio, suggerita la sudetta mia figliola dal marito, presa occasione da un giudicio seguito a suo favore nell’eccellentissimo conseglio di quarantia civil vecchia contra di me, che m’escluse dall’usufrutto ch’io pretendevo nelli beni di mia consorte per il suo testamento, passò ai comandamenti per li capi di quarantia, tanto contra di me quanto contra il detto mio figliolo, per conseguir la mettà di quanto aspettava alla q. sua madre, il che consistendo, oltre la dotte che fu ducati 2.021 nella quarta parte della heredità del detto Rocca, che era administrata dal signor mio figliolo, bisognava che fusse purificata da legati e debiti, essendovi anco de debiti cattivi e degli effetti in essere, di che tutto a lei toccava la sua portione. Fu principiata contesa da esso mio figliolo, durante la quale, venuto egli a morte, era tanto il desiderio di mio genero di travagliarmi che vuolse ridurmi in litte sopra l’heredità di mio figliolo, se bene sino all’eccellentissimo conseglio di quarantia rimase di tutti li voti perdente.

Sdegnato poi della perdita, non è stato mai possibile per qualsisia partito propostoli in voce né in scrittura che si sia voluto condure a ricever la sua giusta portione de effetti, debiti et danni, come è di ragione, tenendo per la quarta parte a lui spettante, bollate anco le altre tre quarte parti, essendoli massime successo che per essecutione del spazzo, che successe a suo favore per la via de commandamento de capi di quarantia, con estremo rigore che io gli paghi in contanti ducati 2000, oltre li altri che haveva havuti, salve le mie ragioni per agiustare li conti, per il che fate, non havendo io denari pronti, furono venduti parte delli panni bollati, con danno considerabile.

Hora, quando credevo che dovesse acquitarsi e fa li conti come si conveniva, egli, presa un’altra strada, col pretesto di credito dotale della q. mia consorte, che se farà li conti come si deve, resta del tutto sodisfatta, mi ha tolto per la via dell’offitio del proprio con deposito che era in cecca et, nutrendo pensieri di tenermi in perpetui travagli, fidato nella mia debolezza et vecchiezza, et tenendomi oppresso ancora con li bolli con quali mi impedisce valermi del mio, spera che io debba ridurmi a suoi indebiti dissegni, dovendo in diversi luoghi rispetto alla diversità degli atti contendere et, se vorò che si agiustino li conti come è dovere, bisognerà anche che passi oltre li capi di quarantia e proprio, anco in altri magistrati; la debolezza delle mie fortune non lo porta, la mia età non me lo concede … chiedo superiori o conservatori delle leggi con solita appellatione a Consegli.

risposta presentata insieme con processo di cc. 102 scritte e non, 2 conti e un bilanzo segnati; tutti in parte et partibus.

ASV, Coll., Pres., fz. 613, 1638, 5 ottobre.

Incredibile et in conseguenza inaspettata è stata la supplicta posta alla Serenità vostra per d. Antonio Finazzi contra di me Bianca, sua unica povera figliola, consorte dell’eccellente signor Domenico Luchini medico, al quale, sebene io ogni tempo ho prestato il debito ossequio et riverenza, onde dovea naturalmente et piamente da esso sperare più tosto sollevatione et soccorso che esser indebitamente travagliata et molestata, havendomi fatto consumare con intrichi, inviluppi et estraordinarie cavillationi, inventate da chi ha procurato, et tuttavia procura di soggerirlo e fomentarlo in Palazzo, quanto ho con tante vittorie fin hora conseguito, se persevera con oggetto pieno et amplo di nuove liti, ancorché con esso non vi sia più causa, restando solo che si adempito a quanto è stato con deffinitivi giudici deciso et terminato a favor mio.

Fu beneficata la q. Isabetta mia madre dal già Battista Rocha, mercante de panni suo padre, insieme con Pietro, fu mio fratello, della sua facoltà, quale fu riferito con estraordinari disvantaggi e basse stime esser solamente ducati 26.448, se bene era in assai maggior somma.

Mancò di vita anco essa mia madre, la quale essendo beneficata della metà del residuo paterni, et patrona della sua dote, ha instituito herede detto Pietro et me suoi figlioli, onde restò esso mio fratello con tre quarte parti dell’heredità Rocha et della dote materna per metà, et a me spettava la quarta parte con l’altra mità di dote, et sebene dette ragioni erano in me pervenute fino l’anno 1631 che spirò essa mia madre, tuttavia retennero sempre detto padre et figliolo il mio, negotiando et disponendo a lor modo del tutto senza mio assenso, anzi hanno sempre preteso, dando erroneo senso alle ordinationi sudette, che io non havessi alcuna ragione né attione, onde havendo fin sotto 28 magio 1632 fatta sententia a legge sopra il testamento di essa q. mia madre, fu inteso da esso mio padre di tagliarla con interdetto annotato nell’offitio di petition, dove, doppo molti struscii in contraditorio è seguito giuditio in mio favor.

Ha voluto per maggiormente giustificare l’ingiustitia de suoi pensieri appellarsi et nell’eccellentissimo conseglio di quarantia civil vecchia seguì largamente il laudo cum sequutis 9 april 1633, et, mentre speravo la debita essecutione, ha voluto che detto Pietro mio fratello sottoposto alla patria sua potestà facesse sententia a legge sopra il testamento di esso Rocha, pretendendo come superstite tutto il residuo. Essendo con essa comparsi davanti l’illustrissimi capi del eccellentissimo conseglio civil vecchio dove haveva prima esso mio padre, doppo triplicati condamenti, stante il laudo sudetto, fattigli, negato assolutamente di haver cosa alcuna da presentare, et poi mio fratello da lui soggerito et fomentato ha richiesto la revocatione, la quale se havese havuto effetto come collusoriamente tentorno, sarebbero stati vani et delusorii tutti li giuditii a favor mio seguiti, ma scoperto dalla giustitia il concerto inventato et malamente essercitato in danno, se havessero potuto di me povera figliola e sorella, senza compatire il stato mio, né della numerosa et innocente mia filiatione, contra le ordinationi testamentarie chiare et espresse e sacrosanti giuditii, sotto 8 giugno 1635 furno confirmanti li commandamenti.

Non terminorno però li strussii, sebene da esso mio fratello furno scritti in banco a conto del mio havere tre volte ducati 1.300, et perché mancò di vita detto Pietro, onde tutto l’importantissimo havere restò nella potestà assoluta di esso mio padre il quale, in luogo di sodisfare attualmente il restante mio havere, come dalli libri, bilanci et giudicii consta, presentò note machinate et delusorie, con le quali dispensava li capitali in modo tale che hebbi giusta causa di temere di ogni male, et spetialmente che fossero transportati li effetti, onde per ordine delli signori capi dell’eccellentissimo conseglio ho ottenuto bollo sopra la volta n. 7 dove si ritrovavano molti panni per cautelarmi; il qual mio padre sebene era grossissimo debitore rispetto a quello del mio haveva nelle mani, si oppose et doppo molte termini et dilationi; seguì in contraditorio confirmatione di esso bollo a favor mio con admissione delle mie scritture continenti che fossero da lui esborsati o presentati ducati 2.000 per parte da esser a me liberamente dati et che tutto il negotiato con ogni accidente successo era stato per conto suo, non havendomi mai chiamato o notificata, anzi sempre preteso che io non havessi raggion né attione alcuna, come per li atti seguiti appare.

Non contento di tanti subterfugii et cavillationi, sotto li 2 febraro 1635 s’appellò di esso atto alli signori capi del conseglio di quarantia civil nova, dove in contraditorio fu da essi tutti tre concordi licentiato.

Infine pretese di poner in dubbio il vero et real senso delle mie scritture admesse nell’antecedente giuditio et con suoi intitolati errori ma più tosto imposture voleva contravenire alle cose decise et terminate, diminuendo il mio giusto haver, opponendosi di nuovo anco alli ducati 2.000 che per parte furono deffinitivamente giudicati aspettarmi, et sotto li 14 magio 1636 è similmente nato nuovo atto in contraditorio a favor mio di tutti tre li eccellentissimi capi civil vecchia et, persistenndo nella sua dura impietà, s’appellò alli cappi del conseglio civil novo, il 13 genaro susseguente è stata levata la suspensione et mentre io debbo conseguire certamente il restante con la medesima auttorità et giustitia et essendo diventata con molte spese ad atti di vadimono nell’offitio del proprio et pagamento dotale sopra delli panni, già a instantia mia nella volta bollati et da lui in scritture espresamente dichiarite che sopra essi possa pagarmi della dote materna già anni otto debitami per metà, si è ultimamente risoluto di supplicare alla Serenità vostra per altri litiggii salve però le cose giudicate, le quali sicome quanto alla cognitione contengano il tutto, così circa l’essecutione resto creditrice del privilegiato credito della dote materna, esendo divenuta a pagamenti dotali, detratti legati come in essi, che non patiscono né possono patire alcuna oppositione, constando da pubbliche carte il mio giusto havere et quanto alla dimissoria si come in parte sono stato doppo molti litiggii pagato con l’auttorità e giustitia delli eccellentissimi signori capi per debita essecutione del giudicio di laudo del conseglio a mio favor seguito risolte tutte le fallaci sue pretensioni, così sarà continuato per sodisfattione del restante mio credito del capitale, rittenuto per il corso di molti anni, a suo modo negotiato e disposto senza alcun mio utile, con evidente danno nel tempo che apretio l’importante facoltà di esso q. mio avo dette mercantie a bassissimo pretio et importante avantaggio suo.

Però insto devotamente che sia esso mio padre licentiato per non esser in conseguentia più da esso travagliata, molestata et indebitamente consumata.

accordi prematrimoniali degenerati

Olimpia Pedretti racconta nelle sue suppliche una storia complessa, in cui emerge, in parte involontariamente rappresentato dalla supplicante, un intreccio di ruoli e di soprusi familiari e sociali, nel quale le figure femmininili, attive o passive che siano, risultano comunque soffocate e perdenti: Mattio Arrighi, di Salò, voleva sposare sua nipote Chiara, figlia unica, per impadronirsi della dote, dell’eredità materna e di quella futura familiare, cercando addirittura di rapirla, invano però, visto che viene allontanata per tempo. Il padre di Chiara riesce però ad avere il figlio maschio dalla seconda moglie e lei non è più un’ereditiera appetibile come prima e la nonna, convinta che non si voglia maritarla per mantenere il controllo sui suoi beni, si dà da fare per sistemarla, facendosi addirittura convincere da Mattio a fargli donazione con l’impegno iscritto a considerarla nulla nel caso lui non sposasse la ragazza. Nel frattempo Chiara viene accasata altrove ma Mattio ormai si è impadronito di quella scrittura … e insieme pure dei beni di Olimpia. Alla prima supplica, in cui la donna chiede delegazione all’avogaria di Comun (che ha una giurisdizione più spiccatamente penale, e comunque specialistica sui casi misti), ignorata dalla Signoria, ne segue però un’altra, che racconta una violenza più manifesta: informato dell’azione intrapresa da Olimpia, Mattio le avrebbe apparecchiato un’insidiosa trappola, chiedendole, alla presenza di sua gente, notizie sull’azione da lei intrapresa presso la Signoria e lei, per timore di ritorsioni, avrebbe negato tutto. Arrighi negherà, definendosi persona quieta e proponendo il foro di Salò, vicino ad ambedue i contendenti, o in alternativa Verona, ma rifiutando la trattazione a Brescia, essendo i suoi «avversari apparentati con case potentissime e nobilissime»; la Signoria questa volta accoglie l’appello di aiuto di Olimpia e sceglie una soluzione intermedia, concedendo la delegazione, non a Salò chiaramente sotto l’influenza dell’Arrighi, ma al podestà di Verona con corte pretoria, inappellabile negli articoli, con il placet però della donna. Un’annotazione a margine però fa immaginare altri sviluppi, visto che interviene l’Avogaria, ordinando per due volte la sospensione della terminazione.

delegazione concessa (5.0.1); Olimpia Pedretti, in causa con Mattio Arrighi di Salò; chiede avogadori di Comun, quindi ottiene, su proposta dell’avversario, cui poi concorda, il podestà di Verona con corte pretoria inappellabile negli articoli.

ASV, Collegio, Notatorio, reg. 96, c. 67r e fz. 305, 1638, 9 agosto.

supplica, 1638, 26 marzo (copia: c. n 12).

Pretese il signor Mathio Arrighi da Salò di haver in moglie Chiara figlia unica del signor Bortolamio Moncelese dottore e della q. Giustina figliola di me Olimpia Pedretti , humilissima serva di vostra Serenità; eccitato dal desiderio di conseguire col mezo di questo matrimonio una faccoltà di 50.000 et più ducati consistente nei beni paterni e nella dote materna, oltre quello che poteva essa figliola haver da me al tempo della mia morte, tutto spettandosi a lei per naturale successione et perché non potè haver mai il consenso del padre alieno totalmente dalla sua persona, pensò sotto finto pretesto di parlar con esso padre di altri affari d’introdursi un giorno nella sua casa in Maderno, come fece col seguito di molti huomini armati per levargliela violentemente di casa, proffessando esso signor Mathio ambitione di caporioni in quel paese et essendo anco per dar ricapito a banditi stato condannato dalla giustitia dell’eccellentissimo signor provveditor Zorzi generale in Terraferma, ma non le riuscì il dissegno perché il padre, insospettito, prima che darle adito nella sua casa mandò la figliola in salvo. Perdute pertanto le speranze di conseguir il suo intento mentre anco in questo tempo al signor dottor Moncelese padre sopraditto era nato un figliolo maschio dalla seconda moglie stata per lunghi anni sterile, pensò di approfittarsi per altra via et però avendo fatto insinuare alle mie orrecchie per mezo de suoi dependenti, et in particolare di un Gio.Batta Polonino altre volte marangone ma hora avanzato in fortuna col mezo de suoi mali impieghi notorii a tutto il paese, che il padre fugiva tute l’occasioni e partiti di maritar essa figliola per godere della dote materna et che quando io havessi voluto unirmi seco haveria fatto di modo che detta figliola saria stata maritata nella sua persona, io, bramosa di vedere essa figliola collocata, mi lasciai come povera vecchia con facilità persuadere ad adherire alle sue insinuationi, le quali furono da essi coperte con tanta sagacità che fui indotta anco sotto pretesto di facilitare il matrimonio a far al detto signor Mathio una donatione, per condurmi all’effetto della quale mostrando il signor Mathio di non voler con questa mia impadronirsi del mio ma di procedere meco con ogni termine di sincerità mi fece una scrittura privata, con la quale dechiarò et protestò di non esser per ricevere mai alcun frutto de mia donatione quando non fosse seguito il matrimonio ma di tenerla per nulla et invalida totalmente. Intanto il padre maritò la figliola in altro soggetto onde, cadute tutte le speranze al signor Mathio et volendo lui assicurarsi nel fondamento della donatione, mi ha levata la scrittura di mano, cosiché essendo io povera donna vedova et vecchia restata privata di quella cautione che sola mi fece rissolvere alla donatione, mi veggo condotta nell’insidia et nella necessità di haver donato le mie proprie sostanze a chi non ho mai conosciuto, et non ho mai havuto occasione di conoscere, non che di benefficiare, con danno de miei proprii naturali heredi et con inganno troppo notorio et manifesto et perché io povera vecchia non posso ressistere alla potenza del soggetto autorevole son ricorsa all’offitio illustrissimo dell’avogaria et ho impetrato mandato penale et fattigli intimare acciò detta scrittura insidiosamente rapinatami sia presentata nella concelleria per cautione delle mia raggioni, ma vedendo che l’avversario poderoso in luogo di obedire si prepara a farmi una rabiosa lite, supplico humilemente la Serenità vostra in questo fatto pieno di tante insidie et violenze delegar il giuditio di detta donatione fidutiariamente estortami agl’illustrissimi avogadori di Comun col’appellatione agl’eccellentissimi consigli, perché son sicura che a quel prudentissimo et giustissimo magistrato non mi sarà mancato di breve et giusta espeditione. Gratie.

altra supplica.

originale in ASV, Collegio, Presentazioni, fz. 613, 1638, 15 giugno (copia: c. n. 22; ad c. 43) intimata a Zambattista Borsa.

Non cessano le insidie del signor Mattio Arrighi contra la libertà di me Olimpia Pedretti perché, havendo veduto esso signor che io ho fatto ricorso a piedi suoi con mia humilissima supplicatione, rappresentante il sucesso diabolico dell’estorta donatione, rapita da me povera donna col mezo dell’ingano di quella scritura di cautione, che puoi mi è stata insidiosamente levata dalle mani nel modo che sarà pienamente dimostrato, ha pensato pur tergiversare o divertire gli effetti della pia protettione di vostra Serenità da me implorati, di estorquere anco in questi ultimo giorno dalla mia bocca parole che rendessero in dubio l’operatione et il ricorso fatto alla sua giustitia dal signor Andrea Zanetti, mio abiatico con mia legittima procura, imperòche, havendomi osservata che mi trovavo nella chiesa del comune di Moscoline a messa, se condusse alla detta chiesa et, aspettato il fine della messa, mi fece chiamar fuori di essa chiesa et, circondatami con molti huomini armati di archibusi, me interpellò, con termine minacievole et altiero, s’io havevo dato ordine che fusse presentata a piedi di vostra Serenità la predetta mia humilissima supplicatione et, havendo io hauto gran timore della mia vita, se confessavo la verità del fatto, povera donna in età cadente, circovenuta da questa insidiosa maniera, dissi che non havevo datto ordine alcuno e negai il tutto, giudicando che questa negativa extragiuditiaria non potesse pregiudicarmi in conto alcuno, ma, intendendo che signor Mattio procura rilevarla con esami de testimoni et di quali istessi che erano con lui a spalleggiar sì fatta attione, ho voluto con nuova procura et commissione non solo ratificar tutto l’operato di detto signor Zanetti mio abiatico et procurator il predetto ricorso, ma rappresentarne humilmente alla grandezza sua questo nuovo emergente, dal quale sono sicura che vostra Serenità non tanto comprenderà il modo insidioso naturale e proprio dell’animo del detto signor Arrighi, ma la superba e fiera sua natura, che ardise contraponersi anco con queste forme tiranniche et odiose a chi ricorre a piedi del nostro clemetissimo et giustissimo Principe.

risposta presentata da Giambattista Borsa per Mattio, intimata a Bernardin Giustachini, nominibus quibus interest , di Olimpia. 1638, 16 luglio (n. 47).

Tant’oltre s’avanza il desiderio ch’hanno il signor Andrea Zanetti et il signor dottor Monsilico et altri con essi collegati di soperchiar me Mattia Arrighi che girando et volgendo a loro vogla la signora Olimpia Pedretta le sugeriscono et da essa estorquono dechiarationi e procure comepiù complisse a loro inordinati voleri rappresentando poi in scrittura quanto alli fatti et descrivendo me Mattio predetto per caporione con altri attributi impropriamente spressi della mia persona. Soin io cettadino quieto et modesto della terra di Salò non superiore ad essa Olimia. Preffonderà ella all’incontro di parenti et diffensori tutti di ricchezze et di sapere colmi quanto ogni altro . Trattasi da una donatione legalissima et solennissima che si procura infringier sotto pretesto di controscrittura che mai fu fatta et è mera inventione et calunnia, la causa è pura civile. Onde con stupore vedo che di essa si dimanda delegatione all’offitio illustrissimo dell’avogaria pur come di causa civile conl’appellatione al consiglio. Rendomi sicuro che vostra Serenità non permettera che noi poveri ambi eguali senz’alcuna causa siamo ridotti a litigar in questa città con dispendio et consumo nostro; onde perciò mi devo accertar di esser licentiato, tuttavia se essi signori miei adversarii han pur gusto che fuori di Salò et del nostro foro ordinario sii espedite le nostre controversie, è giusto che ciò segua con minor incommodo che sii possibile et in città ad ambi noi parti più vicina. Non posso proponer Bressa poiché in quella città sono essi miei adversarii apparentati con case potentissime et nobilissime et perciò non mi sarà sicuro il conferirmi in quella patria, onde quando così pari a vostra Serenità non dissentirò che la causa predetta non sii dellegata all’illustrissimo signor podestà di Verona con la corte pretoria et con l’appellatione al’eccelentissimo consiglio di quaranta civil nova ove con minor dispendio de si possibile siino le nostre controversie spedite. … ma se vogliono fuori del foro di Salò, è giusto che io segua con minor incommodo che sii possibile et in città ad ambi noi parti più vicina: non Brescia perché li avversari sono apparentati con case potentissime e nobilissime, non dissento Verona con corte pretoria et appellatione al conseglio della quarantia civil nova.

l’ereditiera contesa

Il ruolo femminile nella famiglia di origine come figlia, madre e quindi vedova, come pure di moglie, viene ben descritto in questa vicenda, dove i retroscena economici dimostrano comunque di rappresentare un elemento dominante.

Ipolita Stella era stata maritata giovanissima al gentiluomo bresciano Cruola Calzaveglia da cui aveva avuta un’unica figlia, Corona, rimasta, alla morte del padre, erede di una cospicua fortuna; racconta che, ritornata vedova nella casa paterna, data la giovane età si era ritrovata totalmente sottoposta all’autorità del padre, che in breve tempo aveva concluso per lei un nuovo matrimonio, lasciandole però educare la figlioletta «sicuro che non poteva d’alcun altro nella sia età infantile né con maggior carità né con più sicurezza esser allevata che dalla propria madre»; morto però il padre dopo una decina di anni, il cognato di Ipolita, Camillo Bargnan, aveva preteso di allevare lui la nipotina e lei si era trovata a dover accondiscendere «per aderire alla volontà et authorità» del suo secondo marito. Rimasta però nuovamente vedova, vuole riprendere Corona con sè, ma sua sorella (lei insinua però su pressione «di persone potenti» che aspirano al controllo delle considerevoli facoltà della ragazza) ottiene dalle autorità bresciane che la nipote le sia affidata, benché, essendo la madre ormai vedova, in base agli statuti aspetterebbe a quella l’educazione della figlioletta; la potenza degli avversari è tale da lasciare Ippolita priva di avvocati e così si rivolge alla Signoria per ottenere il trasferimento del caso a Venezia, ma la supplica non verrà discussa dalla Signoria, per cui la causa resterà nel luogo e nelle condizioni ordinarie, senza andar a incidere sui forti interessi locali.

supplica di Ipolita Stella, in causa con Olimpia Bargnana, presentata per Giambattista Borsa; chiede superior o conservatori delle leggi.

ASV, Collegio, Presentazioni, fz. 613, 1638, 16 gennaio m.v.

Non resta alle povere donne afflitte et sconsolate altro riffugio doppo l’omnipotente Iddio che il ricorrere a piedi della Serenità vostra sicure dover partir consolate, pertanto con questa confidanza io Hipolita stella ricorro a piedi della Serenità vostra rappresentandogli che, essendo statta maritata nel già signor Cruola Calzaveglia, gentilhomo Bresciano fidelissimo servo et suddeto di vostra sublimità, ne hebbi una unica figliola per nome Corona, da me come tale teneramente amata, et, essendo restata vedova et la figliola herede delle sostanze paterne, convenni sostener gravissime liti contra molti che pretendevano privarla delle sostanze paterne sotto pretesto de fedecommesso, et perché io pure mi ritrovavo in età giovenile sottoposta all’authorità del padre, allhora vivente, obedendo a suoi comandi fui da lui di novo maritata doppo il corso di anni due in circa nel signor Petro Pomarale, humilissimo servo pure di vostra Serenità, et mi fu nientedimeno lasciata l’educatione di detta Corona, figliola unica del primo matrimonio, sicuri che io non poteva d’alcun altro nella sia età infantile né con maggior carità né con più sicurezza esser allevata che dalla propria madre, nell’educatione della quale ho continuati per il spatio di anni dieci in circa, benché fosse passata al secondo matrimonio con il medesimo signor Pomarale.

Doppo il quale tempo, essendo passato ad altra vita il signor Bortholamio Stella dottor mio padre, venne in pensiero al signor Camillo Bargnan, marito della signora Olimpia mia sorella (non so con quali fini), di voler lui l’educatione di detta mia figliola, al che io condesesi per aderire alla volontà et authorità del signor Pomarale mio marito.

Hora sono restata di novo vedova per la morte del secondo marito, essendomi statta consignata la propria figliola per esser da me allevata, non potendo in ciò poner minima difficoltà, stando il mio stato vedovile et essendo sua madre; mentre pensavo di non dover ricever più circa di ciò altro disturbo, esso che, sotto il nome della sudetta signora Olimpia Bargnana mia sorella, ma per ad instantia d’altri et di persone potenti, mi vien fatto mandato da parte dell’illustrissimo signor podestà nostro che io debba consignarli la detta Corona mia filia, sopra il quale mandato, mentre io penso di diffendermi et far conoscer che a me, essendo vedova, per dispositione di nostri statuti s’aspetta l’educatione di detta mia figliola, provo una disaventura grandissima di non ritrovar nella città di Brescia avocatti che mi vogliano diffendere, escusandosi parte di luoro di esser parente et parte essendo diffensori di detta mia sorella et per altri importantissimi rispetti che saranno in voce rappresentati alla Serenità vostra, aspirando molti alle facoltà di detta mia figliola che sono di molta consideratione.

Costituita pertanto in queste angoscie, non so a chi poter ricorrere con sicurezza di dover restar sollevata che all’incomparabil pietà di vostra sublimità, qual non permise mai che alcuno, et in particolare una povera vedova, restasse oppressa, suplicandola delegar tutto questo negotio concernente l’educatione di detta mia figliola in questa serenissima città, overo all’illustrissimi signori superiori overo all’illustrissimi signori conservatori delle leggi,con l’appellatione ordinarie all’eccellentissimo conseglio di quarantia civil nova, dove senza alcun rispetto o sospetto et senza alcuna altra dependenza io potrò liberamente esser diffesa et protetta et sarà administrata quella giustitia che è propria di un tanto prencipe et io restando con la mia anima di questa dellegatione sollevata pregarò ….

un duro suocero

Quest’ultima vicenda potrebbe essere presentata anche come un classico stereotipo del paterfamilias, ma sarebbe una lettura riduttiva: Cornelia Terzi nel 1630 sposa Horatio, portando in dote 10.400 lire, la maggior parte già pagate e ora ancora in mano del suocero. Ma, racconta, la coppia, appena iniziata la convivenza nella casa del suocero, si trova là in uno stato di dipendenza economica talmente rigido che verrebbe lesinato loro perfino vitto e vestiario; allontanarsi dal tetto paterno riescono ad ottenere gli alimenti solo per vie legali. Cornelia purtoppo rimane in breve vedova e non può, secondo gli statuti di Valle, per il primo anno di lutto pretendere la restituzione della dote ma la sola somministrazione degli alimenti, così deve nuovamente andare davanti al giudice per ottenerli dal suocero; questi però approfitta di una visita di Cornelia alla propria famiglia materna per impedirle di rientrare poi nella casa del marito. La domanda di delegazione non viene però fondata su questi soprusi, quanto piuttosto nel prosieguo della scrittura, in cui si narrano le successive disavventure giudiziali: non riuscendo ad ottenere la restituzione della dote ricorre al foro civile, ma il suocero continua a opporsi, dapprima non riconoscendo perfino l’autenticità delle ricevute dal figlio, quindi pretendendo che la causa sia decisa da consiglio di savio, procrastinando così la conclusione all’infinito. Ed è solo per questo motivo che Cornelia chiede e ottiene i rettori di Brescia, addirittura come giudici inappellabili.

delegazione concessa (6.0.0)in assenza dell’avversario; d. Cornelia Terzi, in causa con Giambattista Federici di Valcamonica; chiede rettori di Brescia con corte inappellabili negli articoli e nel merito.

ASV, Collegio, Notatorio, reg. 96, c. 113r e fz. 307, 1638, 6 dicembre.

supplica presentata da Cornelio Bracco.1638, 22 novembre.

Non comparve mai ai piedi di vostra Serenità … il più afflitto e sconsolato di me Cornelia Terzi, la quale a quest’hora mi sarei datta in preda alla disperatione quando non fossi sta trattenuta da una ferma credenza di restar sollevata dalla pietà et indeficienta clemenza di vostra Serenità, avanti la quale prostrata con lagrime di sangue li rappresento come, fu l’anno 1630, fui per mia disaventura maritata nel signor Horatio, figliolo del signor Giambattista Federici di Valcamonica, havendo promesso in dote al detto mio marito lire 10.400, la maggior parte de quali sono anco sta pagate et in gran parte pervenute alle mani del signor mio socero.

Tradotta che io fui alla casa del marito, che insieme col padre se ne viveva, incontrassimo poi ambi giugali durezze di tal sorte che, non puotendo sopportare i mali trattamenti di esso signor Giambattista, quale ricusava in fino di somministrarci le cose necessarie al vitto e vestito, fummo però astretti partirsi dalla sua casa, ottenuta prima sententia a nostro favore, con la quale restò condannato ad assignare al filgiolo certa portion de beni per nostro alimento. Morse l’anno 1633 il povero signor Horatio mio marito, né potendo io, per la forma di statuti di Valle, dimandar dentro dell’anno del lutto la restitution della mia dotte, ma solo l’alimento, anco sopra di questi io misera donna ho convenuto litigare con detto signor mio socero, qual ricusava prestarmeli, et perché dalla giustitia fu condannato a pagarmi per questa causa scudi 45, egli perciò, sdegnato a tempo ch’io mi fossi trasferita alla casa di mio padre per ivi dimorare qualche giorno, entrò de facto et propria autorità, con manifesta violenza, nella casa del q. mio marito, ove pur io habitavo, rompendo le porte et vietandomi il mio ritorno ch’io entrassi in casa, per lo che anco fu formato processo acciò fosse restituito lo spoglio.

Qui non terminano le mie sciagure, serenissimo Principe, ma ne seguitano di maggior. Imperoché nel fine dell’anno 1633, havendo io fatto instanza ad esso signor mio socero per la restitution della mia dote, mostrandosi egli tutto alieno e renitente, convenni ricorrere alla giustitia per farlo condannare; a così giusta instanza accerimamente si oppose, dando di mano a quanti cavilli possono mai esser inventati da ogni sagace litigante per raccomandar la causa all’eternità, quali per esser infiniti non si registrano a scrittura ma in voce saranno riferiti a vostra Serenità, basti per hora ch’egli si è condotto insino a negare le ricevute formate di pugno proprio dal signor Horatio mio marito et suo figliolo, basti dire ch’egli ha fatto atti collusorii con la signora Hippolita sua figliola, da lui medesimo poscia confessati per falsi, basti per ultimo che egli habbia voluto che causa così privileggiata sia decisa di consiglio di savio, non ad altro oggetto se non perché non si finisse.

Seguita final sententia, è stata interposta appellatione e la causa è devoluta ad un eccellente dottore della città di Brescia, inanzi del quale quando si dovesse litigare al sicuro scorreriano li anni e anni prima che ne vedessi il fine, poiché le sole allegationi in iure, essibitioni de dubii, con le loro ressolutioni et altre forme proprie del conseglio di savio, portano seco li anni continui.

Onde, per liberarmi da queste miserie … supplico delegarmi per giudici … cum toto negotio et tanto sopra la cognitione quanto sopra l’essecutione gl’illustrissimi rettori di Brescia inappellabilmente nell’ordine e nel merito overo, quando il mio adversario se sentisse aggravato, inappellabilmente quanto agli articoli e con appellatione nel merito alli Consegli.

eredità (poco) al femminile

Benché ambedue i testatori nominino come eredi finali delle femmine, la contesa per la gestione dei beni si svolge non solo per ragioni formali tra tutori e commissari.

Il suocero di Giambattista Scarpi, Martin Olmo di Zara, aveva vincolato i suoi beni a un fedecommesso sul figlio maschio Salvatore, con la clausola però che, in assenza di prole, dovessero passare alla figlia femina e alla sua discendenza; Salvatore si era sposato con Marina Uticensi morendo però senza figli, per cui il fedecommesso avrebbe dovuto trasferirsi nel figlio di Cecilia, Alessandro; ma per l’esistenza di un testamento di Salvatore, nel quale veniva creata erede universale la moglie, gli zii materni di questa, due religiosi ma persone «auttorevoli et facinorose» con forti agganci nell’ambiente giurisperitale locale, si sono impossessati dei beni, che continuano a non restituire mantenendo in piedi un contenzioso giudiziario. Nonostante uno degli zii di Marina abbia dichiarato davanti a un notaio che l’eredità spetta ad Alessandro, essendo però ancora da dedurre a favore di Marina legittima e tribellianica, le parti avevano eletto un arbitro, il quale riconosce e definisce il credito a favore di Alessandro, obbligando i commissari a consegnare i beni; Giambattista, per preservare gli interessi del figlio ha così provocato il sequestro di beni ma, poiché nei fori ordinari la causa non sarebbe risolvibile se non in tempi lunghissimi, vista l’entità notevole delle cifre in discussione, prova inutilmente a insistere con una nuova richiesta di delegazione al collegio dei XX savi del senato.