10.1 Dimensioni del sacro e dimensioni del profano

Questo saggio affronta il tema degli archivi parrocchiali (e dei registri canonici) o, per meglio dire, la diversa percezione tramite cui essi sono visti nella seconda metà del Settecento.

Claudio Povolo , Dimensioni del sacro e dimensioni del profano. I registri canonici tra istituzioni ecclesiastiche e secolari nella seconda metà del Settecento , in Archivi e cittadino. Genesi e sviluppo degli attuali sistemi di gestione degli archivi. Atti della giornata di studio – Chioggia, 8 febbraio 1997, Venezia 1999, pp. 39-72.

Di un archivio generale a Venezia

Il 18 dicembre 1787 uno sconosciuto sacerdote veneziano, don Francesco Marangoni, presentò alla suprema magistratura del Collegio una supplica in cui, convinto “dall’amore della società”, si offriva di esporre un piano da lui ideato per ovviare agli abusi ed inconvenienti che, così di frequente, avvenivano nella delicata materia del “giro dei capitali” pubblici e privati affidati alle competenze dei Provveditori in zecca [1] .

Il progetto, assai articolato, si avviava con un proemio altisonante, che rivelava comunque come i suoi obbiettivi andassero ben al dì là degli intendimenti esplicitati nella supplica:

Gli uomini costituiti in società abbisognano specialmente di norme sicure regolanti li tre stati principali della loro vita, Nascita, Matrimonio, Decadenza, come quelli dai quali derivano li principali argomenti sia dei loro diritti e delle respettive loro azioni, sia della perseverazione dei loro possessi e dell’esaurimento dei loro aspiri.

Il carattere di legittimità che ha tanta influenza nelle convenzioni sociali, tanto per verificare il diritto alle successioni de’ morti e de’ fideicommissi, quanto per dar loro facoltà di aspirare agli uffizi principali, civili e militari ed ecclesiastici, non può essere comprovato certamente che dal matrimonio de’ genitori, legittimo e fatto colle canoniche discipline, admesso anche dalla potestà secolare e dal registro del loro battesimo, che è quanto a dire della prova della loro nascita e della loro legittimità, dal che si vede quanto gelosa cura esser debba per l’interesse del suddito e per gli oggetti del sovrano la nozione sicura dei documenti comprovanti questi due primi stati.

Nè meno significante è il terzo che fa prova della morte degli uomini, come quello che apre il caso alla realizzazione degli aspiri, alla consecuzione de’ beni, alla verificazione dei diritti ed alle tante altre materie affette a questa eccelentissima magistratura, che sarebbero perpetuamente contrastate da un oscuro pironismo se da altre fonti che dalla nota esistente nei pubblici libri a ciò destinati ritraer si dovessero, massime per gli absenti, ai quali mancar potrebbe, costituiti in estranie contrade, persin la prova sussidiaria e dispendiosa de’ testimoni.

Rilevata l’importanza sociale dei registri canonici, il Marangoni, premurosamente, tracciava quindi un loro breve ma significativo excursus storico:

Riconosciuta l’importanza di questi tre articoli per la marcata loro influenza in tutti gli affari concernenti la vita sociale, nel XV secolo (tempo in cui la gerarchia ecclesiastica non si attrovava soggetta a disciplina alcuna secolare, ma si diriggeva da sè a metodo delle canoniche prescrizioni) [2] fu dal sacro Concilio di Trento stabilito che dai respettivi vescovi e prelati venisse ordinato e comandato a’ parrochi e rettori delle chiese, a quali spetta l’amministrazione de’ sacramenti, che con tutta diligenza e cura tener dovessero esatta nota e registro dei matrimoni e battesimi e fossero diligentemente custoditi come documenti importanti al bene della nazione. Non mancò ugualmente la sovrana autorità di provvedere per le annotazioni de’ morti, ordinando che da parrochi fosse tenuto esatto registro dele medesime, non che la gelosa conservazione di tali documenti della privata sicurezza, affinché in ogni tempo all’uopo non mancasse ai ricorrenti, come per presidio de’ loro interessi, la copia delle annotazioni di battesimi, matrimoni e mortori che loro fosse per occorrere.

I provvedimenti adottati dal Concilio di Trento – proseguiva in maniera incalzante il supplicante – erano stati di singolare importanza, ma fallirono proprio nel raggiungimento di quell’obbiettivo che egli aveva indicato come primario. Lo si poteva ben scorgere nelle stesse settanta parrocchie veneziane, in cui, un po’ a causa della trascuratezza e degli abusi dei parroci, un po’ per la fatalità delle cose, molti di questi documenti erano stati smarriti nel corso del tempo. Tale dispersione era innanzitutto andata a discapito delle numerose persone che per loro interesse si trovavano nella necessità di disporre di copia delle registrazioni canoniche che, per i più svariati motivi, li riguardavano direttamente. Senza contare poi, continuava il Marangoni, che gli stessi registri canonici non erano provvisti di indici in grado di facilitare la ricerca e la consultazione.

A soffrire di questi inconvenienti non erano comunque solo le singole persone, ma anche le istituzioni pubbliche preposte all’amministrazione dei capitali: esse dovevano infatti consultare di frequente i registri canonici per verificare la fondatezza di pretese e diritti vari.

Per risolvere la delicata questione don Francesco Marangoni non nascondeva di disporre di una vera e propria carta nella manica: in un piano dettagliato egli espose quanto gli era venuto in mente per porre finalmente ordine nei settanta archivi parrocchiali sparsi per la città, senza per questo sfiorare minimamente sia la giurisdizione ecclesiastica che quella secolare e, tanto più, recare offesa alle prescrizioni canoniche.

Il suo piano veniva suddiviso in una serie articolata di punti. Si trattava, in primo luogo, di costituire un archivio generale che avrebbe dovuto raccogliere tutti i registri canonici esistenti e conservati negli archivi delle settanta parrocchie veneziane.

Di anno in anno vi sarebbero inoltre confluite le registrazioni che, via via, i parroci, com’era loro compito, sarebbero andati aggiornando [3] . Il Collegio avrebbe dovuto assegnare un luogo predisposto ad accogliere tale archivio, nonché nominare un deputato incaricato di dirigerlo sotto la sua sovrintendenza.

Una volta confluiti nell’archivio generale, i registri canonici delle settanta parrocchie avrebbero dovuto essere disposti secondo serie cronologiche e provvisti di un inventano, una copia del quale sarebbe stata destinata allo stesso Collegio [4] .

Terminata la sistemazione e il riordino dell’archivio generale, sarebbe stato compito esclusivo del deputato prescelto rilasciare e controfirmare le copie delle registrazioni richieste dai diversi ricorrenti. Ovviamente tutto ciò avrebbe comportato una ricompensa (che il Marangoni faceva dipendere dalla datazione delle registrazioni) per colui che si fosse assunto tale gravoso onere [5] . Inoltre i parroci avrebbero dovuto procedere alle loro consuete registrazioni su appositi registri che, di anno in anno, il deputato avrebbe loro fornito «a tutte sue spese» [6] .

Don Francesco Marangoni concludeva infine la sua supplica riassumendo gli effetti positivi che sarebbero derivati dall’approvazione del suo progetto:

Sciolto l’importante argomento dal pericolo degli accidenti fortuiti, delle negligenze, dei smarrimenti, delle falsificazioni di fedi e sigilli in più casi occorse, ed anzi assoggettato ad una generale legislazione, presidiato dalla vigile autorità di questo eccelentissimo magistrato, offre un perenne conforto alla suddita tranquillità. Restan per esso levati tanti disturbi agli uomini, incerti della parrocchia in cui esistono le annotazioni della lor nascita e non sono più condannati a vagare per 70 contrade in traccia del documento tanto necessario per li propri interessi, sempre oppressi dall’incertezza di rinvenirlo. Sono esenti dall’usare le strade precarie verso de’ sagrestani, che con istento possono distraersi dalle loro altre occupazioni per donare ai ricorrenti un lungo periodo di tempo onde vogliere le carte de’ libri, non assistiti specialmente da veruna scorta alfabetica, numerica, temporaria, la cui deficienza loro talvolta sottrae fatalmente dall’occhio l’annotazione che cercano .

Ma, più di tutto, il Marangoni intendeva ancora sottolineare come l’attuazione di questo archivio generale sarebbe risultata tanto utile quanto necessaria all’attività delle magistrature secolari, senza per questo intaccare le tradizionali e consolidate competenze ecclesiastiche:

Sono liberati li ministri dell’altare da queste cure troppo pesanti che li distraggono dalle altre loro sacre occupazioni e dal pericolo d’essere soggetti a riparo della propria innocenza ad esami e processi, come è accaduto a vari; ed una materia che è tutta laica ne’ suoi effetti resta per sempre incassata come è di dovere sotto le sole discipline della potestà secolare, materia che così configurata, stabilita e disciplinata offre mille argomenti di facilità e sicurezza alle ricerche degli uomini e della pubblica e privata tranquillità.

E, come si è detto di sopra, rimanendo sempre illese le canoniche prescrizioni ed intatti que’ diritti che spettano alla potestà ecclesiastica e secolare, resterà come presentemente in potere del parroco il registrare le fedi de’ battesimi e matrimoni, in potere della potestà ecclesiastica il regolare con decreto di sua eccellenza reverendissima monsignor patriarca quegli errori che fossero occorsi in qualche fede di battesimo e similmente in potere della secolare il regolare con terminazione del magistrato eccelentissimo alla sanità quegli successi nelle fedi de’ morti, non intendendosi con questo di menomamente offendere tali respettive potestà e mansioni, ma solo di puramente raccogliere, assicurare e nella loro identità mantenere e dispensare tali fedi a sicurezza del pubblico e privato interesse [7] .

Il 22 dicembre 1787 la Consulta del Collegio trasmise ai Provveditori in Zecca la supplica e il piano di don Francesco Marangoni, richiedendo loro un parere in merito. Il 5 aprile 1788 i Provveditori risposero con una lunga ed argomentata informazione, intervenendo accuratamente sui vari punti esposti e sollevati dal supplicante. A loro giudizio la proposta meritava indubbiamente di essere presa in considerazione, e non solo per gli evidenti vantaggi che ne avrebbe tratto il giro dei capitali sottoposto alla loro giurisdizione:

Tutti gli altri stati della vita civile sono egualmente regolati e dipendono dai documenti medesimi. Gli aspiri degli uomini agli uffizi, alle cariche, in una sola parola ali propri respettivi stabilimenti, le questioni civili sui testamenti, l’azione sulle eredità intestate, sulle pretese dotali, la serie degli autori delle famiglie, la derivazione dei viventi, la successione nelle facoltà fideicommisse, li titoli delli primogeniti e maggiori, li più vicini o lontani diritti negli agnazioni e cognazioni, li diversi gradi di ascendenti, discendenti e trasversali, le prove di nobiltà, le legalità dei matrimoni, la legittimità della prole, dipendono affatto da questi essenziali documenti, che soli contrassegnano le azioni e le pretese dei particolari, li requisiti degli aspiranti a qualunque si sia miglioramento di condizione in questa vita civile e la essenza e la sicurezza delle famiglie e de’ loro patrimoni [8] .

I provveditori in Zecca evidenziavano dunque, sinteticamente ma con efficacia, gli indubbi vantaggi che sarebbero derivati dall’istituzione dell’archivio generale dei registri canonici veneziani. In verità sembrava loro che le ricompense previste dal supplicante per il rilascio di copie delle registrazioni fossero oltremodo eccessive, anche se comunque si trattava di un costo che i richiedenti avrebbero potuto sostenere ugualmente, considerando il risparmio di tempo che essi avrebbero ottenuto evitando di affidarsi alla volonterosa ma lenta azione dei parroci e dei sacrestani.

Un dubbio, un’esitazione si insinuavano però nell’informazione dei Provveditori, che pure per il resto non nascondevano la loro simpatia e il loro interesse per l’istituzione di un archivio generale. Come si poteva infatti accogliere tale progetto senza ledere diritti e pretese ormai consolidati? Per questo aspetto essi preferivano non pronunciarsi e sarebbe convenuto richiedere il parere di una persona esperta in una disciplina così complessa:

non possiamo dissimulare a vostre eccellenze la trepidazione in cui siamo che forse la di lui verificazione [del progetto] portar possa una qualche ferita all’ecclesiastica autorità incaricata dall’ecumenico Concilio tridentino ad osservar con diligenza la custodia del Libro de’ matrimoni e di quello de’ battezzati e sopra questo invochiamo la sapienza dell’eccelentissimo Senato a voler commettere le relative informazioni ai Consultori in jure, dalla cui messe principalmente può dipendere l’intrinseca conoscenza di una tal delicata parte di questo progetto e similmente suggerire quali esser potrebbero i mezzi perchè combinati restino con la esecuzione di questo piano anche i diritti di monsignor patriarca, dovendosi conservar illesa, per divoto sentimento nostro, al Magistrato eccelentissimo alla sanità l’antica diligentemente esercitata facoltativa in proposito degli equivoci che succedessero per le fedi de’ morti [9] .

Con le necessarie cautele ed attenzioni, cercando di non intaccare diritti ormai acquisiti, il progetto poteva infine essere accolto: questa era in sostanza la risposta data dai Provveditori in zecca alla suprema magistratura veneziana che aveva sollecitato il loro parere.

La parola ora passava ai consultori in iure. E così, 11 30 maggio 1788, la Consulta decise di affidarsi ad una persona dell’esperienza e dell’intelligenza di Piero Franceschi.

Dal sacro al profano

L’introduzione dei registri canonici di battesimo, matrimonio e sepoltura, avviata in maniera sistematica dai decreti tridentini, rappresentò il punto d’incontro di due tendenze che, pur manifestando già da tempo palesi segni di reciproca contaminazione, avrebbero alla lunga rivelato la loro insormontabile inconciliabilità [10] .

La nozione di sacramentalità, sottesa agli eventi di battesimo, matrimonio e sepoltura, che la Chiesa aveva accolto facendosene interprete, aveva rappresentato per secoli una visione del sacro che contrassegnava l’intera società e i suoi vincoli, fondati sui valori della parentela e dell’amicizia [11] . La nascita, il matrimonio e la morte di ogni individuo erano stati percepiti alla luce dei riti che sancivano la costante interrelazione tra passato e presente, tra il mondo materiale e quello spirituale [12] . Partecipe e testimone di questi riti, la comunità tutta si costituiva garante del rispetto dei valori consuetudinari e della loro trasmissione alle generazioni successive [13] .

La normativa matrimoniale che teologi e canonisti elaborarono nel XII-XIII secolo, e che poi confluì nella più sistematica formalizzazione istituzionale sancita dal Concilio di Trento [14] , esprimeva le tensioni inevitabilmente originatesi nell’ambito di eventi che si collocavano negli spazi, non sempre conciliabili, del sacro e del profano, della passione e dell’interesse. Nascita, matrimonio e morte, difatti, ridefinivano costantemente alleanze, amicizie, parentele: ed i riti sociali che come il battesimo, gli sponsali e la sepoltura ne attestavano la legittimità, ribadivano pure l’aura di sacralità loro sottesa.

Quella normativa però, tesa, dapprima, a definire con termini più puntuali le caratteristiche essenziali dell’unione matrimoniale e, poi, le sue precise forme esteriori, rivelava pure la preoccupazione di circoscrivere fenomeni dirompenti che incidevano direttamente sulla sfera materiale e patrimoniale della vita familiare e che non erano più interamente contenibili in quei valori sacrali di cui la vita della comunità cristiana era ancora contrassegnata [15] .

Le registrazioni parrocchiali di battesimo, matrimonio e sepoltura decretate dal Concilio di Trento [16] continuarono ad attestare il valore sacramentale dei fondamentali eventi biologici e sociali, ma sancendo l’esigenza di formalizzarne la memoria per iscritto, affidandola alla capillare azione dei parroci, indirettamente indicarono pure il loro indiscutibile valore materiale e patrimoniale, rivelatore di una società ormai orientata a prediligere il richiamo della ricchezza a quello dello status e dell’onore. Ad impedire che le due dimensioni del sacro e del profano si scindessero definitivamente, spogliando quegli eventi biologici materiali della loro pregnanza sacrale, stava l’azione, ancora determinante, svolta dalla Chiesa nell’interpretare e impersonificare tradizioni, riti e gerarchie sociali, di cui essa stessa era l’espressione più significativa [17] .

A ben vedere la normativa matrimoniale e le stesse disposizioni relative ai registri canonici, racchiudevano una contraddizione che alla lunga non avrebbe tardato a manifestarsi in maniera appariscente. Accogliendo una pluralità di istanze che provenivano da contesti sociali e politici notevolmente variegati, la Chiesa aveva apposto (ed imposto), in modo più deciso e marcato, il sigillo delle sue istituzioni a pratiche sociali di cui, essa stessa, era stata parte integrante e fedele interprete. Le norme tridentine, volte a risolvere tensioni non facilmente conciliabili, avevano difatti sancito la piena configurazione istituzionale di eventi biologici che sino ad allora avevano trovato piena legittimità in ritualità dotate di una forte valenza sacra- mentale. Ma così facendo essa aveva pure accettato che inevitabilmente si avviasse una frattura, che via via si sarebbe sempre più approfondita, nell’ambito della dimensione sociale del sacro [18] , svelando pure le tensioni ormai inconciliabili tra una gerarchia dell’onore e una gerarchia della ricchezza [19] .

I registri canonici di battesimo, matrimonio e sepoltura, che in origine dovevano attestare l’esistenza e la validità del sacramento impartito dall’istituzione ecclesiastica, finirono alla lunga per assumere una diversa e più complessa identità. Riflesso di contraddizioni non risolte dai decreti tridentini, questi registri finirono difatti per essere percepiti non più o non solo nella loro originaria funzione sacramentale, ma come una sorta di archivio genealogico in costante formazione e in grado, tramite i dati biologici che esso poteva costantemente fornire, di costituire una vera e propria memoria scritta attestante indirettamente diritti, pretese giuridiche, legittimità. Una doppia dimensione, dunque, che con lo scorrere del tempo l’identità sacramentale delle registrazioni canoniche avrebbe faticato sempre più a nascondere [20] .

A rendere più evidenti le contraddizioni insite nelle disposizioni tridentine contribuirono molteplici fattori: le trasformazioni della società cetuale, l’esigenza di una diversa certezza del diritto soprattutto per quanto concerneva i diritti di proprietà e di successione; ed infine, non ultimo, quell’erosione del sacro che le nuove entità statuali, a partire dal ’5-’600 condussero, su più piani conflittuali, nei confronti delle tradizionali prerogative ecclesiastiche.

Pur affidati alla costante cura dei parroci, e comunque espressione dell’azione sacramentale filtrata dalle istituzioni ecclesiastiche, i registri canonici finirono per costituire un punto di riferimento essenziale di quell’attività giurisdizionale ed amministrativa che le nuove entità statuali, nel corso dell’età moderna, andarono dispiegando in molti settori della vita sociale. Istanze di ordine fiscale, militare e demografico indussero infatti le autorità politiche centrali ad avvalersi della collaborazione dei parroci e delle informazioni fornite dai registri canonici. Tale attenzione, dapprima sporadica, divenne via via sempre più costante, rivelando l’apporto ormai indispensabile svolto da registrazioni, percepite essenzialmente nella loro rilevanza sociale, statistica e demografica. Sbocco inevitabile della crescita dell’apparato amministrativo dello stato e delle funzioni da esso svolte in molti settori della vita sociale, fu la creazione dei moderni registri di stato civile, che in periodo napoleonico si affiancarono alle antiche registrazioni canoniche, rivelando come la trascrizione della memoria dei fondamentali eventi della vita biologica si fosse scissa dall’antica identità sacramentale per qualificare un rapporto diverso tra individui ed autorità politiche.

Non più attestazioni di battesimi, matrimoni (nella loro accezione sacramentale) e sepolture, ma di nascite, matrimoni (nella loro rilevanza civile) e morti, le registrazioni di stato civile riflettevano solo apparentemente l’evento biologico di cui dovevano trasmettere la memoria. Se difatti le registrazioni canoniche erano espressione di una società cetuale (pure in fase di intensa trasformazione) in cui la qualifica sacramentale sottendeva il ruolo determinante svolto dall’onore e dalle relazioni di parentela (rispetto all’individuo), le registrazioni di stato civile manifestavano indubbiamente le nuove istanze ideologiche di una società borghese i cui capisaldi erano costituiti dall’autorità del capo del nucleo familiare (generalmente maschile) [21] e da una nozione di famiglia non più intesa come gruppo e lignaggio, ma cellula fondamentale di un organismo statuale impostato gerarchicamente e dotato di forti valori simbolici collettivi [22] .

Il parere di un uomo prudente

Assimilabile, di certo, agli esponenti di quell’élite che quasi ovunque in Europa, pur non occupando direttamente cariche politiche ed istituzionali di rilievo, svolsero nel corso del Settecento un ruolo di indubbio rilievo nell’ambito degli ormai consolidati poteri monarchici [23] , Piero Franceschi riflesse con la sua attività, il suo pensiero e, ancor più, la sua contraddittoria riflessione critica, su temi via via divenuti oggetto di animate discussioni e assai spesso di controverse scelte di campo, Piero Franceschi, si diceva, riflesse la complessità e i tratti culturali di un’organizzazione statuale al cui vertice, con le sue prerogative e l’assoluto predominio, era posto un ceto dirigente patrizio [24] . Dapprima segretario illustre e prestigioso e, poi, consultore non meno autorevole, dotato di indubbie conoscenze giuridiche e storiche, oltre che di una rara finezza critica, il Franceschi intervenne in alcune delle più rilevanti questioni politiche che animarono la vita istituzionale veneziana nella seconda metà del Settecento [25] .

Impegnato in quegli anni a prestare la sua attività consultiva in scelte e decisioni ben più impegnative e rilevanti, il Franceschi non mancò tuttavia, anche di fronte alla richiesta di fornire un parere sul progetto di don Francesco Marangoni, di stilare un consulto ricco di informazioni storiche e politicamente penetrante [26] .

Nel richiamo esplicito alla situazione finanziaria e alla conseguente competenza dei Provveditori in Zecca, formulato nella supplica e nel piano, Piero Franceschi coglieva da subito la strumentalità di un progetto che aveva altresì ben altre ambizioni e finalità:

Lo stato civile degli uomini, l’interesse comune delle famiglie e il buon ordine della società non è circoscritto al solo giro dei capitali in zecca, nè agli abitanti della Dominante. La ragione delle successioni, dell’eredità e dei contratti si estende a tutti i beni e a tutti i possessori e commercianti entro il Veneto dominio e nei pubblici depositi non si comprendono solo i capitali dei soli veneti, ma dei forestieri ancora. L’asse generale delle sostanze nazionali è di gran lunga superiore a quello dei capitali investiti e le differenti azioni dei proprietari, eredi e creditori sono subordinate alla giurisdizione molteplice di più magistrati, rappresentanti e altri giudici stabiliti dalle leggi .

Nella complessa e variegata situazione giurisdizionale ed istituzionale il Franceschi individuava dunque una difficoltà insormontabile alla realizzazione del progetto. La storia stessa dei registri canonici stava ad attestare la consolidata competenza ecclesiastica in tale materia. Egli ricordava come già in un antico concilio, quello di Soissons, tenutosi nell’anno 853, si fosse previsto l’obbligo per i vescovi e i curati di tenere alcune di queste registrazioni. E del resto già ben prima del Consilio di Trento, le cui direttive nel 1564 furono accolte solennemente nella Repubblica, in molte città tale pratica si era avviata da tempo immemorabile [27] .

Come si poteva, ora, con l’istituzione di un ipotetico archivio generale, affidato a persone prezzolate, poco pratiche, e scarsamente affidabili [28] , porre fine ad una consolidata tradizione, senza evitare errori, abusi e scorrettezze? Senza considerare che, sottratti i registri alle parrocchie e riposti in un unico archivio, il religioso direttore e i suoi collaboratori sarebbero divenuti gli arbitri di «un’arcana amministrazione» e avrebbero potuto facilmente sovrapporre «all’amore della società anche l’amore del guadagno» [29] .

Piero Franceschi giungeva infine ad affrontare quelli che potevano essere considerati come i nodi di fondo di tutta la questione e che, esaminati con attenzione, non potevano consigliare che la bocciatura del progetto.

Il Concilio di Trento non aveva ordinato solo la tenuta dei registri canonici, ma anche la loro custodia da parte dei parroci.

Costituzioni patriarcali e sinodi diocesani avevano più volte ribadito le direttive conciliari, ordinando che le registrazioni di sepoltura, battesimo e matrimonio fossero tenute in maniera uniforme e regolare. Una materia, dunque, di esclusiva competenza delle autorità ecclesiastiche [30] . E questo tanto più nella Repubblica di Venezia, in cui alcune magistrature come l’Avogaria di comun e gli Esecutori contro la bestemmia avevano solo facoltà, su richiesta, di controllare se erano state apportate manomissioni o cancellazioni nei registri.

Non bisognava comunque ignorare che nella Dominante il Consiglio dei dieci estendeva la sua autorità su alcuni aspetti disciplinari concernenti le chiese patriarcali. E che alcune altre chiese erano soggette al regio patronato del Doge. Come si sarebbe potuto interferire, osservava infine il Franceschi, in così importanti e consolidati diritti? Considerando la situazione complessa e multiforme da lui delineata, il consultore veneziano vedeva nell’istituzione dell’archivio generale più inconvenienti e rischi che vantaggi. L’importanza che i registri canonici avevano ormai assunto in ogni aspetto della vita sociale era tale, considerando gli assetti istituzionali e giurisdizionali esistenti, da consiglia- re di lasciar stare le cose così com’erano:

Gli attestati de’ piovani, dei sacristani, e degli economi in vacanza delle parrocchie, tratti da questi libri sin ora hanno avuto il corso legale in tutti li rapporti della vita cristiana e civile. Servono di regola in molti articoli del governo spirituale e della disciplina ecclesiastica, nè senza qualche ribrezzo sarebbe veduta la firma novella di un’altra mano. Hanno pur luogo nelle prove di nobiltà, nelle questioni giudiciarie, nelle procedure criminali, nella distribuzione degli offizi, negli interessi delle famiglie e nell’esazione degli stipendi e di altre pubbliche beneficienze…

Il diritto di questi libri è riguardato dai parrochi con tal gelosia che difficilmente lo accordano alle chiese filiali e si tengono attenti per registrare sino le morti dei frati e delle monache, non avendo in ciò mai riconosciute nemmeno l’esenzioni del clero regolare.

Quando poi fossero posti fuori della giurisdizione ecclesiastica pretenderebbero gli ecclesiastici di esser fuori di responsabilità ed occorrendo regolazioni per qualche errore o per altro motivo che avviene di frequente le due potestà non si trovarebbero sempre in un facile e pronto concerto .

Richiesto di un parere, Piero Franceschi non aveva dunque nascosto le sue perplessità, se non la sua avversione, nei confronti di un’innovazione che avrebbe scosso il delicato e traballante assetto istituzionale veneziano [31] . Convinzione sua era che il potere secolare, lungi dall’introdurre novità e dall’estendere la sua giurisdizione, non potesse ormai fare a meno del sostegno e dell’azione delle autorità ecclesiastiche. Ad esse era meglio affidarsi in una materia che pure indubbiamente rivelava costantemente le sue implicazioni e le sue connessioni con il pulsare della vita sociale e l’attività delle magistrature secolari. Il compito di alcune di queste, come l’Avogaria di comun e gli Esecutori contro la bestemmia, consisteva semmai nel controllarne l’operato e nel porre rimedio ad eventuali abusi ed ingiustizie [32] .

Esaminato il consulto di Piero Franceschi, il 16 agosto 1788 il Senato veneziano decise di respingere il progetto di don Francesco Marangoni, ordinando inoltre che nella materia inerente l’archiviazione e l’utilizzo dei registri parrocchiali non fosse introdotta alcuna innovazione «se prima non si saranno ricevute le informazioni unite o separate de’ consultori».

Si concludeva così una vicenda che, al di là dei suoi esiti, era stata comunque rivelatrice della nuova sensibilità sociale e politica tramite cui si percepivano le tradizionali registrazioni di battesimo, matrimonio e sepoltura. Non più intese come mera espressione di atti sacramentali celebrati od amministrati dalla Chiesa, le registrazioni canoniche, per senso comune, erano ormai considerate testimonianza diretta ed inequivocabile di eventi biologi che come la nascita, il matrimonio e la morte scandivano le tappe fondamentali della vita umana e, conseguentemente, svolgevano un ruolo importante nella trasmissione di una memoria scritta e della sua rilevanza sul piano sociale ed istituzionale.

La proposta azzardata ed interessata di don Francesco Marangoni nasceva da questo contesto e da questa nuova sensibilità. La sua incongruenza, come si può ben rilevare dalle osservazioni di Piero Franceschi, derivava dalle connessioni, ancora molto forti e strette, che la società cetuale manteneva tra autorità secolari ed autorità ecclesiastiche, tra lo spazio del sacro e quello del profano, tra una gerarchia dell’onore e una gerarchia della ricchezza. Il suo superamento, prima ancora che dall’istituzione di un archivio generale (espressione, tutto sommato, del tentativo di una mediazione, forse impossibile, tra quei valori contrastanti), avrebbe dovuto essere scandito da una nuova consapevolezza politica volta a sottolineare il ruolo delle istituzioni statuali e la loro interconnessione con le trasformazioni sociali in atto.

Difficile credere che tutto questo potesse realizzarsi in una società intensamente pregna dei valori dell’onore e della distinzione di ceto. Più difficile, ancora, ritenere che questo potesse, quantomeno avviarsi se non realizzarsi, in una società come quella veneta, dominata da un ceto dirigente patrizio non in grado di mettere in discussione il proprio predominio, e comunque non predisposta (per antica consuetudine) ad accogliere un diverso assetto istituzionale [33] .

I problemi indirettamente sollevati dal piano presentato da don Francesco Marangoni serpeggiavano comunque ormai in ogni parte d’Europa e anche un sistema politico come quello veneziano non avrebbe potuto ignorarli.

Una storia penosa

Marianna Leffim era nata in Austria, nel distretto di Salisburgo. Aveva conosciuto Francesco Righettini, soldato delle truppe imperiali, che nel 1781 l’aveva convinta a trasferirsi in territorio veneto per ivi sposarsi con lui. Il matrimonio era avvenuto a Pontebba Veneta, da poco oltrepassati i confini, alla presenza dei suoi stessi genitori e di due paesani che avevano funto da testimoni. Con sé aveva portato le regolari fedi di libertà e di buoni costumi.

Ella non l’avrebbe saputo che alcuni anni dopo, ma quel matrimonio non si era svolto in accordo alle vigenti disposizioni canoniche. D’altronde come potevano anche solo intuire, lei, i genitori e i testimoni, che non conoscevano una parola d’italiano, e tanto meno dilatino, che il religioso chiamato a celebrare il matrimonio non era provvisto della necessaria delega concessa dal parroco del Righettini?

Fatto sta che s’erano trasferiti a Treviso e dal presunto matrimonio erano nati due figli, regolarmente battezzati come prole legittima. Nel 1784 il Righettini aveva rivelato l’inghippo: o per una crisi di coscienza o forse, molto più probabilmente, per evitare possibili complicazioni nella sua successione (e difatti sarebbe morto di li a poco). Non divulgando la loro situazione e d’accordo con il parroco di San Tommaso di Treviso avevano così celebrato un matrimonio segreto [34] per regolarizzare la loro unione.

Dopo la morte del coniuge si era subito acceso un duro conflitto successorio. I nipoti del marito, cogliendo al volo la situazione, avevano avanzato esplicitamente i loro diritti sulla proprietà Righettini. Il loro legale aveva anzi preteso ed ottenuto dalla curia di Treviso che nelle registrazioni di battesimo dei suoi due figli fosse tolta la dicitura eius uxoris, posta accanto al suo nome, ed aggiunta inoltre un’annotazione infamante. I suoi figli avevano in tal modo perduto la loro legittimità [35] .

Aveva così deciso, l’11 agosto 1790, di legalizzare pubblicamente il matrimonio celebrato segretamente con il Righettini. Ma le cose avevano continuato ad andare di male in peggio. E così, infine, su consiglio del suo avvocato s’era rivolta direttamente, con una supplica, ai Capi del Consiglio di dieci, lamentando come con un decreto vescovile si fosse stabilito «assolutamente d’un’illegittimità, ordinando con ardita criminosa oppressione d’un diritto, che solo compete alla sovranità del Principe, l’alterazione della fede di batezzo». Privi della loro legittimità, infatti, i suoi figli non avrebbero potuto succedere all’eredità paterna. Ai Capi, Marianna Leffim chiedeva fosse riconosciuta la sua buona fede e che il suo caso fosse giudicato con equità ed umanità, liberando lei dalla «più grave marca del disonore». Accolta la supplica di Marianna Leffim, i Capi del Consiglio di dieci si rivolsero ancora una volta a Piero Franceschi, sottoponendogli un quesito assai complesso e formulato in termini assai generali:

A quale autorità appartenga il riconoscimento, la verificazione e l’emenda di qualunque disordine o alterazione fosse denunciata o dovesse vindicarsi sui registri battesimali tenuti nelle chiese parrocchiali dello stato e quali siano i modi legali di verificare li diffetti nelli registri medesimi [36] .

Il quesito non era di poco conto, perché investiva direttamente una prerogativa giurisdizionale di indubbio rilievo, e, non troppo nascostamente, intendeva accertare se, in quale misura e con quali strumenti il potere secolare poteva metter mano in una documentazione che, come quella dei registri canonici di battesimo, era non solo redatta ma anche conservata dalla autorità ecclesiastiche.

Piero Franceschi andò subito al nodo del problema. Riassumendo dapprima la storia dei registri canonici e della loro custodia ed archiviazione, egli sottolineò ancora una volta la loro indubbia importanza:

Spesse volte entro questi libri si custodiscono molti riguardi di coscienza o di altri delicatissimi oggetti per la pace ed onore delle famiglie, per lo stato civile degli uomini e per il buon ordine della società universale. Secondo però la natura delle differenti e multiplici sopravvenienze ne hanno assunta e ne assumono vigilante inspezione tanto la Chiesa quanto il Principato…

Per gli interessi temporali questi registri e le copie estratte servono di norma in molti articoli, di legittima o spuria filiazione, di successioni ereditarie, di procedure criminali, di controversie giudiziarie per alimenti, doti, fideicommissi, feudi ed altre civili azioni, nelle prove di nobiltà, civiltà e sudditanza, di età nei pupilli, di capacità ai pubblici ministeri e di altri negozi infiniti che occorrono di frequente nella vita umana.

Per tali motivi e per la «protezione che tengono i principi della ecclesiastica disciplina», sia in Francia che in altri paesi europei erano stati emanati dei provvedimenti sovrani intorno a tale disciplina. Anche nella Repubblica di Venezia, dove pure quasi non esisteva una normativa del genere, era compito di alcune magistrature come l’Avogaria di comun e gli Esecutori contro la bestemmia, intervenire per accertare che non vi fossero irregolarità o per attuare i necessari confronti.

Il Franceschi ricordava il decreto emanato dagli Esecutori contro la bestemmia nel 1773 per impedire che i parroci della Dominante non attestassero la legittimità del battezzato se non previa l’assoluta certezza dell’unione regolare dei genitori o, in caso di dubbio, della sua attestazione fornita da una fede di matrimonio. L’Avogaria di comun, inoltre, esaminava spesso i registri di battesimo nelle prove di accertamento della nobiltà, della cittadinanza e sudditanza. Il consultore ricordava comunque come il Senato, alcuni anni prima, avesse respinto il progetto di istituire un archivio generale.

Il Consiglio di dieci era intervenuto in più di un’occasione per annullare o modificare discutibili decisioni dell’autorità ecclesiastica, ma, come il consultore sottolineava, si era trattato di casi molto particolari [37] . Pur non esprimendolo apertamente, egli sembrava piuttosto perplesso nei confronti di interferenze troppo palesi nei confronti della giurisdizione ecclesiastica. Non esisteva difatti una legge che prevedesse l’esplicita intromissione delle autorità secolari in tale delicata materia. C’era bensì stato un provvedimento emanato dal maggior Consiglio nel lontano 1628, in cui si concedeva autorità al Consiglio dei dieci di procedere contro coloro che avessero contraffatto documenti concernenti l’interesse della Signoria. Ma Piero Franceschi, lasciando trapelare le sue perplessità, non dimostrava di credere molto alla possibilità della sua applicazione nei confronti dei registri canonici.

In realtà, continuava il Franceschi, erano le caratteristiche dei ricorsi e delle istanze privati ad individuare se fosse più opportuno adire il foro secolare piuttosto di quello ecclesiastico. E perciò anche i registri battesimali, così importanti per attestare diritti e pretese, potevano essere sottoposti alla giurisdizione secolare se si fosse accertata «una colpevole alterazione».

Riassumendo il suo pensiero e rispondendo esplicitamente al quesito postogli, Piero Franceschi infine osservava:

Il primo punto della ossequiata proposizione, contemplando generalmente qualunque disordine o alterazione denunciata, non ci permette di riguardare il quesito se non nel linguaggio e nell’aspetto di criminalità. Quando però il caso di alterazione e falsificazione in questi registri avesse circostanze criminose, il giudice al quale fosse prodotta la denuncia o la querela si troverebbe nella stessa facoltà di procedere all’emenda e vindicazione, come suoi procedere nelle altre colpe di falso e di portarle ancora all’autorità dell’eccelso Consiglio se lo richiedesse la gravità del delitto o la condizione del reo, ovvero quella dei complici, o la violenta oppressione del suddito.

Rispetto al secondo punto dei modi legali di verificar li difetti che s’imputassero introdotti in essi libri, noi crediamo esser questi medesimi dei processi e dei confronti coi quali nello stile di ogni curia si rilevano e si verificano le viziature, le mutilazioni e le giunte commesse in qualunque altra carta e protocollo. Senza far precedere la cognizione del fatto non può verun giudice prender misure per emendano e punirlo; ed ogni altro modo sarebbe troppo compendioso e deviarebbe dalle regole necessarie per conoscere la verità nell’amministrazione della giustizia.

Piero Franceschi riteneva dunque, assai pragmaticamente, che la via giudiziaria, valutando caso per caso, fosse quella più indicata per legittimare un’intromissione delle magistrature secolari nella giurisdizione che le autorità ecclesiastiche esercitavano nella disciplina dei registri canonici. Solo in tale direzione era altresì prevedibile un intervento della potestà secolare per accertare l’esistenza di eventuali disordini o alterazioni della documentazione. Seguendo la linea di estrema prudenza, già espressa nel precedente consulto sull’archivio generale, egli faceva dunque capire come fossero inopportune generiche posizioni di principio e qualsiasi velleità nei confronti della sfera giurisdizionale ecclesiastica. E’ probabile che se la vicenda di Marianna Leffim gli fosse stata sottoposta insieme al quesito, egli non avrebbe modificato il suo pensiero, pur consigliando un intervento del Consiglio dei dieci volto a riaffermare la tradizionale equità della giustizia veneziana [38] .

La storia si ripete

Piero Franceschi continuò a stilare i suoi consulti sino alla caduta della Repubblica. Intrisi di una profonda vena di pessimismo, i suoi ultimi scritti segnano l’amara consapevolezza di un uomo che, al volger quasi della sua vita, percepiva l’ormai imminente catastrofe del sistema politico di cui pure era stato fedele, ma anche critico, interprete. Lucido nel cogliere l’inesorabilità della fine e, contraddittoriamente, pure certo che se qualcosa si fosse intrapreso per arrestarla non si sarebbe che aggravata la situazione, le sue riflessioni danno il meglio di se stesse quando sfociano in un’aspra critica nei confronti di una società troppo spesso propensa, per mero interesse o vano orgoglio, ad adire le vie istituzionali al fine di sollecitare interventi che avrebbero finito per ledere diritti e sentimenti dell’individuo [39] .

La questione dei registri canonici era comunque destinata ad avere altri, significativi, strascichi, costringendo Piero Franceschi ad occuparsene nell’ultimo, ormai breve, frammento di vita della Repubblica.

A sollecitare l’intervento delle supreme magistrature veneziane, nel gennaio 1795, era nientedimeno che la città di Bergamo. I deputati della città, irretiti ed allarmati dagli incendi e dai disordini avvenuti in alcune parrocchie, supplicarono il Senato di approvare un provvedimento che il consiglio cittadino aveva deliberato nel dicembre precedente. Meno ambizioso del progetto presentato nel 1787, il provvedimento adottato dal consiglio bergamasco mirava a costituire un archivio entro cui, di anno in anno, i parroci avrebbero dovuto depositare copia dei registri canonici da loro compilati, con un relativo ordine alfabetico per cognome [40] .

Richiesto di commentare il progetto, Piero Franceschi, ancora una volta, non colse, nelle proposizioni formulate, i vantaggi che si sarebbero raggiunti qualora esso fosse stato accolto e approvato, rilevando piuttosto come

spesse volte entro questi libri si registrano memorie segrete e si custodiscono molti riguardi di coscienza e di altri delicatissimi oggetti che interessano la pace ed onore delle famiglie, lo stato civile degli uomini ed il buon ordine della società universale.

Le parrocchie della diocesi bergamasca oltrepassavano il numero di 330: non si trattava dunque di un’impresa da poco. Inoltre la pena prevista dai deputati cittadini nei confronti dei parroci disubbidienti costituiva una palese violazione della legge emanata dal Maggior Consiglio nel 1628, la quale riservava al Consiglio di dieci il compito di perseguire ogni abuso in tale materia. Era opportuno non suscitare inquietudini e commozioni in una provincia di confine.

Ripercorrendo, ancora una volta, la storia dei registri canonici, Piero Franceschi non nascondeva infine la sua profonda diffidenza nei confronti di un progetto che sembrava aver tratto ispirazione dall’esempio francese, che però non aveva certamente dato buona prova di sé. L’iniziativa del consiglio bergamasco era comunque non chiara e probabilmente – egli non aveva esitazione ad esplicitarlo – «vi sarà il suo disegno coperto e l’oggetto più vero non uscirebbe alla luce se non dopo ottenuta in massima l’istituzione».

Al di là di ogni valutazione specifica, continuava infine il consultore, il progetto era da respingere per considerazioni di ordine più generale:

l’esempio delle novità che ora si medita d’introdurre in Bergamo si farebbe valere ancora nelle altre diocesi, dove li vescovi e li parrochi non lascierebbero di far sentire le loro inquietudini, forse ancora qualche grado di resistenza. In Venezia fu tentato il progetto d’instituire lo spoglio de’ libri parrocchiali e di fame un archivio destinato a tal oggetto. Ma col decreto 1788 16 agosto…il progetto stesso fu rigettato e vietata ogni innovazione in tale argomento col farne registro nel capitolare dell’eccelentissimo Collegio e con incarico speciale ai consultori d’informare. Ciò che non fu permesso nella capitale ci ammaestra che molto meno sia pubblica intenzione di permettersi altrove.

Con il drastico giudizio di Piero Franceschi si concludeva così il nuovo tentativo di regolamentare una materia ritenuta ormai di vitale importanza nella vita sociale e istituzionale di fine Settecento. Le valutazioni negative di Piero Franceschi muovevano, come già si è osservato, dalla consapevolezza degli effetti negativi, se non devastanti, che riforme di tale portata avrebbero procurato sull’ormai esanime corpo della Repubblica.

Di lì a qualche anno le innovazioni introdotte dal regime napoleonico in tutta Europa avrebbero però dimostrato come il problema, già affiorato nel corso del Settecento, fosse ormai divenuto di vitale importanza e, superando lo scoglio dei contrastati rapporti con le istituzioni ecclesiastiche, sarebbe stato compito del nuovo stato borghese assumersi l’onere e il compito di registrare gli eventi più significativi della vita dell’uomo, definito, anche se con una certa prosopopea, non più suddito ma cittadino.

Oltrepassata la soglia del nuovo secolo, era così giunto il momento, rimasto a lungo sotteso, dei registri di stato civile: una nuova identità, non più sacramentale, ma probabilmente solo apparentemente più vicina al dato biologico, veniva assegnata agli eventi di nascita, morte e matrimonio [41] .

Le nuove spinte sociali avrebbero comunque tardato ancora molto a ricevere un’adeguata risposta istituzionale. I registri di stato civile napoleonici, affidati ad un personale laico, spesso non preparato o poco propenso a svolgere questa funzione, non fecero buona prova. E, di li a poco, il successivo governo austriaco pensò bene di affidare la tenuta dei registri di stato civile agli stessi parroci.

Perché lo stato assumesse definitivamente su di sé tale compito si sarebbe dovuto attendere la nascita del nuovo stato unitario italiano. E dal 1866, di seguito a quanto già era stato istituito nelle altre regioni italiane, anche nel Veneto ogni comune ebbe il compito di registrare le nascite, i matrimoni e le morti avvenuti nell’ambito della loro circoscrizione.

Era ormai passato molto tempo da quando Piero Franceschi aveva redatto i suoi consulti sui registri canonici. La debole adesione che, almeno per alcuni decenni, il matrimonio civile incontrò in molte regioni italiane (e, non ultimo, nel Veneto) sembrò, tutto sommato, confermare il suo profondo pessimismo nei confronti di qualsiasi innovazione avesse potuto incrinare la solidità della tradizione e la forte presa che ancora le istituzioni ecclesiastiche esercitavano nei confronti della società [42] .

Anche in tale occasione la decisa volontà delle istituzioni statuali di imporre una politica religiosa innovativa e radicalmente in contrasto con la vischiosità delle consuetudini si rivelò oltremodo difficile, se non in più di un caso velleitaria. Molti matrimoni continuarono ad essere celebrati con il solo rito religioso, e non solo per sottrarre i figli all’iscrizione anagrafica (e alla coscrizione militare), o per eludere limiti ed obblighi imposti dalle leggi dello stato [43] .

Ancora agli inizi di questo secolo, ed oltre, il rapporto controverso tra la dimensione del sacro e la dimensione del profano, tra una nozione sacramentale e civile degli eventi fondamentali della vita umana era ben lungi dall’esser risolto. I registri di Stato civile avrebbero infine imposto una diversa e, in un certo senso, superiore legittimità giuridica, ma la tenace (ed ancor esistente) presenza dei registri canonici stava (e sta) ad attestare come le complesse relazioni tra istituzioni ecclesiastiche e istituzioni secolari, nonostante gli ormai molteplici e sin troppo evidenti segni di una loro complementarità, non avessero ancora definito con chiarezza l’identità della soglia che, attraverso i riti di iniziazione, immette l’individuo nella comunità di appartenenza.


[1] La supplica, il progetto e il parere dei Provveditori in zecca sono allegati al consulto di Piero Franceschi del 21 luglio 1788, cfr. Archivio di Stato di Venezia (=ASV), Consultori in iure , b. 284, alla data. Il supplicante si definiva «primo prete titolato della chiesa parrocchiale di San Biagio di Castello». Non è da escludere che la sua iniziativa si fosse avviata con il parere favorevole di alcuni dei patrizi che avevano ricoperto o ancora ricoprivano la carica di provveditori in zecca

[2] Il Marangoni ovviamente intendeva riferirsi al secolo XVI.

[3] «Instituire un archivio generale in cui, colli metodi che appresso si anderanno denunziando, raccolti restino tutti li registri de’ battesimi, matrimoni e morti che in presente esistono sparsi nelle 70 parrochie della Dominante ed in cui d’anno in anno accolar debbano tutti li registri in avvenire come deposito di tanto essenziali gloriosi documenti», Ibidem.

[4] «che in questo luogo richiamati, come si è detto, tutti i registri esistenti nelle 70 parrocchie della Dominante disposti esser debbano per serie d’anni, con duplice esatto inventano, uno da conservarsi nell’archivio, l’altro da rassegnarsi a questo eccelentissimo magistrato a perpetua sicurezza di questo sacro deposito; . . .che al momento del ricever li registri stessi, sia preciso suo debito di riscontrarli per serie d’epoche, di numeri e di cartadura, facendo con tali avvertenze di fatto in un libro a ciò destinato le opportune annotazioni, da esser firmato dal parroco e dallo stesso archivista a reciproca cauzione», Ibidem.

[5] «Per quelle che fossero d’un’epoca recente, cioè entro gli anni 50, sia fissata la corrisponsione per sua mercedi di soldi dodeci per ogni copia, e soldi ventiquattro per quelle ascendessero gli anni 50 predetti inclusivamente fino agli anni 100, e così successivamente.. .», Ibidem.

[6] A scanso di equivoci il Marangoni aggiungeva però che «le copie che occorressero entro l’anno, ritraibili dai registri ancora non consegnati ed esistenti nelle respettive sagrestie, sian fatte dai respettivi parrochi o sagrestani, munite del solito sigillo delle parrochie, salvo sempre (perchè aver possano carattere di legalità) il debito di presentarle al deputato, onde restino da lui legalizzate e munite anche del pubblico sigillo di San Marco», Ibidem.

[7] Come ricompensa per il piano da lui sottoposto alle pubbliche istituzioni il Marangoni non chiedeva «se non che d’esser scelto esso, suo compagno e loro eredi per il periodo d’anni trenta successivi, colla sovrana sua approvazione, per deputato, colla mercede soltanto delle relative utilità, disponibile sempre in seguito tal carico dalla pubblica autorità, sicuro però il ricordante suddetto di non demeritare, realizzando col fatto tutte le sue meditazioni il pubblico sovrano clementissimo compatimento», Ibidem.

[8] Come esempio, che pure aveva rivelato effetti positivi, i provveditori indicavano quello dell’archivio notarile: «a farci però sperare una probabile utilità nell’esibito progetto e lusingare la nostra persuasione, s’aggiunge l’esempio del provvidamente instituito archivio delle scritture dei notai morti, che raccogliendo monumenti egualmente interessanti fu, con buon successo e con effetto corrispondente felice alla sua instituzione, eretto in altri tempi e gode in presente con essenzialissima utilità del suddito la pubblica protezione», Ibidem . Come avrebbe fatto notare Piero Franceschi (cfr. infra ) ben difficilmente l’archivio dei notai defunti poteva però essere accostato a quello proposto da don Francesco Marangoni.

[9] In un punto successivo della loro informazione, i Provveditori aggiungevano inoltre che «nell’adottare la massima, qualora fosse essa in grado d’incontrare la sovrana approvazione, converebbe aver in mira la rispettabile giurisdizione di Sua Serenità per le altre due parrocchie di San Marco e San Giovanni di Rialto, da esso Serenissimo Principe dipendenti, colle intelligenze che fossero giudicate le più convenienti, onde nel piano generale non vi sia per esser obice alcuno che ne difficulti la immaginata riduzione», Ibidem.

[10] Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Paolo Prodi sull’enuclearsi, nel corso dell’età moderna, di una nozione giuridica di famiglia inserita in una sfera che possiamo definire privatistica. Tale processo fu reso possibile proprio dall’affermazione di entità statuali che indebolirono la fisionomia politica dei potenti lignaggi e gruppi di parentela

[11] Come è stato notato da Jean-Louis Flandrin «la dottrina cristiana del matrimonio risultava solo parzialmente dai precetti evangelici e dall’insegnamento degli apostoli. Essa ha derivato molto dalle morali antiche, dalle leggi e dai costumi delle società precristiane; e si accordava troppo bene con le strutture economiche, sociali e mentali dell’Occidente medievale per non essere debitrice nei loro confronti. Non a caso, quando quelle strutture si sono disgregate, tra il XVIII e il XX secolo, anche la visione cristiana del matrimonio si è profondamente modificata. Nemmeno la legislazione regia si spiega semplicemente con il capriccio del principe: essa tendeva a mantenere quel potere dei genitori sui matrimonio dei loro figli, tradizionale fin dall’antichità, ma che il diritto canonico, secondo le famiglie, non garantiva a sufficienza», cfr. J. Flandrin , Amori contadini. Amore e sessualità nelle campagne, nella Francia dal XVI al XIX secolo , Milano 1980 (Paris 1975).

[12] Attraverso il rito, come si è notato, «viene stabilito, nei limiti della realtà di questo mondo, un contatto con una realtà che oltrepassa questo mondo. L’atto rituale è legato ad una struttura simbolica, attraverso la quale si realizza un passaggio… Il rito si situa al livello del sacro vissuto e possiede un suo senso… A partire da un atto iniziale, ripetuto attraverso il rituale, l’azione dell’uomo si riveste di una dimensione nuova…», cfr. J. Ries , I riti di iniziazione e il sacro , in I riti di iniziazione , a cura di J. Ries, Milano 1989 (Louvain-la-Neuve 1986). Clifford Geert.z mette in evidenza come il rito attesti costantemente le verità religiose e le loro direttive: «In un rituale, il mondo com’è vissuto e il mondo com’è immaginato, fusi insieme sotto l’azione di un solo complesso di forme simboliche, si rivelano essere lo stesso mondo…; qualunque ruolo abbia, o non abbia, l’intervento divino nella creazione della fede — e non sta allo scienziato pronunciarsi in un senso o nell’altro in tale materia — è fuori dal contesto degli atti concreti di osservanza religiosa — almeno all’inizio — che emerge la convinzione religiosa sul piano umano», cfr. C. Geertz , Interpretazioni di culture , Bologna 1987 (New York 1973), p. 169.

[13] Per questi aspetti cfr. J. Bossy , L’occidente cristiano. 1400-1700, Torino 1983 (Oxford 1985). Lo studioso anglosassone ha scritto pagine significative sui riti del battesimo, matrimonio e morte, e sulla loro interrelazione con i legami di parentela ed amicizia. Nel medioevo si stabilisce un nesso stretto tra l’ingresso del bambino nella comunità dei cristiani, tramite il battesimo, e il padrinato. Quest’ultimo istituto costituiva «un tributo al vigore e alla raffinatezza della teologia simbolica laica, un attestato della determinazione con la quale si intendeva garantire che una volta varcate le acque del battesimo il bambino venisse accolto da una parentela in Cristo capace di sostituire i parenti naturali dai quali lo avevano allontanato i riti della rigenerazione… I rapporti naturali del bambino venivano ripristinati attraverso il principio della compaternitas , in base al quale il padrino diveniva parente non soltanto del figlioccio, ma anche della sua famiglia naturale…», Ibidem , p. 19

[14] Sulla normativa matrimoniale medievale e tridentina cfr. J. Gaudemet , I l matrimonio in occidente , Torino 1989 (Paris 1987).

[15] Esaminando le visite pastorali di diverse diocesi italiane, Peter Burke ha notato come le domande rivolte dai vescovi ai parroci diventino più varie e complesse, soffermandosi in particolare sullo stato della popolazione, cfr. P. Burke , Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna , Bari 1988 (Cambridge 1987).

[16] Per una storia dettagliata dell’origine dei registri canonici cfr. H. Jedin , Le origini dei registri parrocchiali e il Concilio di Trento , in Il Concilio di Trento , 4 (1943), pp. 323-336.

[17] Sono pienamente condivisibili le osservazioni di Angelo Torre sul significato da attribuire alle pratiche devozionali in ambito comunitario: «Non siamo di fronte a una religione popolare — e informale — sempre sui punto di essere schiacciata da una religione colta — e istituzionale —, comunque intenta a esercitare il proprio controllo sui comportamenti e sulle attitudini religiose locali. La vera matrice del rinnovamento sembra risiedere nel dialogo fra specialisti e fedeli, fra autorità episcopali e abitanti dei villaggi: le une alla ricerca di interlocutori su cui poter affermare la propria autorità, gli altri disposti ad accettarla in cambio del riconoscimento della legittimità in ambito locale. Le proposte devozionali e organizzative degli specialisti sono perciò accolte e adottate sulla base di istanze endogene, raccogliendo stimoli selettivi ed eterodiretti, anche se non necessariamente manipolatori», cfr. A. Torre , Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régim e, Venezia 1995, p. 344. In questa direzione andrebbe pure esaminata la posizione bifronte del basso clero, in particolare dei parroci di campagna, rappresentanti terminali della gerarchia ecclesiastica, ma anche di una comunità la cui vita è profondamente scandita dalle pratiche religiose, cfr. per un piccolo esempio nel Veneto del ’6-’700, C. Povolo , Valdilonte. La contrada di Geltrude e Matteo , Vicenza 1996.

[18] Cfr. per la nozione di sacralità contesa tra stato e Chiesa J. Bossy , L’occidente… cit., pp. 180 e sgg. dedicate alle migrazioni del sacro.

[19] Ovviamente queste osservazioni riportano direttamente alle possibili definizioni e ai ruoli della Chiesa e dello stato. Un primo significativo tentativo di definire e contestualizzare l’istituzione Chiesa sin dalla sua origine, configurandola sostanzialmente come una corporazione di chierici tesa, soprattutto tramite la normativa matrimoniale, ad imbrigliare e controllare le pratiche successorie si ha in J. Goody , Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente, Bari 1995 (Cambridge 1983). Se si può concordare con A. Torre che le categorie di chierici e di laici costituiscono immagini ritualizzate di un unico processo «di creazione di potere attraverso la produzione di atti e di risorse sottratti o sottraibili alla sfera comune», è comunque un dato di fatto, riscontrabile nelle pratiche conflittuali di antico regime, come i rapporti tra stato e Chiesa siano ben lungi dal suggerire (come osserva lo stesso A. Torre , Il consumo di devozioni.. cit., p. 346) «l’esistenza di un unico processo di costruzione della legittimità», oppure che questi stessi rapporti «che appaiono a prima vista ispirati alla diffidenza e alla competizione, sono invece fondati sulla complementarietà e sul sostegno reciproco: poteri laici e poteri ecclesiastici si riferiscono a momenti diversi della pratica religiosa, e li cristallizzano in istituzioni distinte…». Tale ipotesi sottovaluta, a mio giudizio, la scissione che sul piano simbolico avviene tra la dimensione del sacro e quella del profano. La dimensione del sacro, inizialmente fusa intimamente a quella dell’onore, e rappresentata per secoli dalle istituzioni ecclesiastiche, entra poi in conflitto sostanziale con una visione della società che, pur incline a muoversi all’interno di una cornice cetuale, apre prospettive entro cui si inseriscono ceti emergenti i cui riferimenti ideologici e culturali sono tratti dal discorso politico delle nascenti monarchie. Tale processo, evidentemente, fu maggiormente sensibile laddove l’emergere della ricchezza e la mobilità sociale incrinarono i tradizionali assetti sociali, cfr. per alcuni aspetti della questione J. Casey , La famiglia nella storia , Bari 1991 (Oxford 1989); C. Povolo , Il processo Guarnirei , Buje-Capodistria, 1771, Capodistria 1996.

[20] Cfr., in particolare per l’istituto matrimoniale, A. Burguière, F. Lébrun , Il prete, il principe e la famiglia , in Storia universale della famiglia , II , Milano 198