11.1.4. Sui rapimenti, 1791 (ratti)

Il ratto

La prossima, densissima e fine scrittura [1] ha per argomento un fenomeno antico e diffuso presso popoli e culture diversi: il rapimento delle donne. L’elemento che fa da sfondo a queste vicende è sempre e comunque il valore dell’onore delle donne, intimamente legato a quello degli uomini appartenenti allo stesso gruppo parentale: padri, mariti, fratelli, figli. Al di là della considerazione che si poteva o meno avere per la condizione e l’intelligenza femminile, appropriarsi di una donna con la violenza significava violare l’intera famiglia nella sfera più intima dei propri valori. Era la donna, l’elemento mobile delle famiglie, che permetteva di stringere alleanze, attraverso il matrimonio, ed era ancora la donna che assicurava non solo la generazione dei figli, ma anche la purezza del loro sangue. La criminalizzazione del ratto, in uno sguardo fugace sul lungo periodo, era già presente nelle leggi dell’antica Grecia; parallelamente all’affermarsi dell’idea di matrimonio come alleanza, la questione ratto è poi rintracciabile negli statuti cittadini ed in giurisprudenza, sin dal Medioevo. All’iniziativa delle autorità secolari si accompagnò poi la graduale definizione del sacramento matrimoniale ad opera della Chiesa, culminata nel Concilio di Trento. Sin dall’antichità, comunque, in alternativa a pene afflittive più o meno gravi, al ratto si doveva riparare con il matrimonio. La connotazione di reato non era posseduta però solo dal rapimento violento, ma anche da quello volontario, o fuga consensuale, senza vittima apparente, ma allo scopo di contrarre un matrimonio voluto, o promesso. Nella previsione di questo caso, chiaramente, è espressa la preoccupazione per scelte matrimoniali contrarie alla volontà della famiglia [2] , ma il “consenso della donna al proprio rapimento era questione dalle implicazioni sociali così profonde” [3] che vennero elaborate dai criminalisti le tesi più diverse sull’applicabilità della pena. Diverse, d’altronde, erano pure la reazioni delle famiglie al rapimento, anche se, generalmente, la consuetudinaria indicava la strada del compromesso e della mediazione che portava al matrimonio riparatore tra rapitore e rapita, che era previsto e permesso nel diritto canonico [4] . La scelta di far condannare il rapitore, infatti, non solo avrebbe lasciato alla donna rapita poche possibilità di contrarre un altro matrimonio, ma anche rinfocolato lo scandalo. Alla condanna si ricorreva come extrema ratio, ad esempio quando la mésalliance non era proprio accettabile. Ovvio che, in tutti i casi, l’autorità giudiziaria si trovava di fronte a dilemmi di non facile soluzione, tra previsioni normative e pratiche sociali tendenzialmente compositive.

Nella Repubblica, il particolare diritto veneto, che attribuiva ai precedenti giudiziari una funzione di orientamento per i giudici, complicò le cose ancor di più. La prima legge a condannare il ratto, infatti, sembra uscita tardi, emanata dal Consiglio dei X nel 1560, ma, come ricorda Franceschi nel suo fine consulto, questa pratica si puniva da tempo ed era addirittura nelle previsioni della promissione ducale dal XIII secolo. Soffermandosi poi sulle disposizioni del Senato e del Maggior Consiglio, il consultore passa a raccontare episodi di ratto avvenuti nella Terra Ferma e nella Dominante e le pene applicate, ricorda la Prattica Criminale del Priori, che anche per il ratto autorizzava l’uccisione diretta del reo colto in flagrante. Il ricordo del Priori ha un significato particolare: il cancelliere, infatti, sebbene in relazione al ratto evidenziasse la necessità di valutare attentamente le circostanze caso per caso – ovvero condizione sociale, economica, età, volontà della famiglia, onestà della donna – prendeva anche le distanze dalla linea compositiva tenuta dalla Chiesa, che permetteva il matrimonio riparatore, sostenendo invece una misura rigidamente punitiva.

Franceschi non scorda nemmeno un significativo accenno all’iniziale differenza di riguardo, in termini di autorità giudiziaria competente, tra i casi di coinvolgimento delle famiglie nobili e quelli riguardanti il popolino, gli uni considerati dal tribunale dei X, gli altri lasciati alla giustizia locale. Il suo lungo excursus, tra il caso presente, occorrente in Vicenza, il ricordo di episodi passati, il ricorso alle leggi della Repubblica e agli statuti locali, è infine funzionale alla dimostrazione che in dottrina e giurisprudenza erano già compresi le diverse fattispecie del reato ed i possibili esiti al suo verificarsi. Il consiglio ai Dieci è pertanto di non aggiungere nuove disposizioni a quelle già esistenti, specie in un momento così delicato per la questione matrimoniale. Riguardo a quest’ultimo punto, va sottolineato infine che, forse per la prima volta, Franceschi – a ricordo di una tesi già vista sulla responsabilità dell’inesperienza giovanile nel fallimento dei matrimoni – trova nel nuovo contegno sociale anche dei lati positivi: la possibilità di una frequentazione tra sessi più aperta e libera, invero, rendendo meno feroce il cuore degli uomini, aveva infatti diminuito la frequenza di pratiche assai deprecabili, tra queste, il rapimento delle donne.

Le preoccupazioni delle autorità vicentine

“Serenissimo Principe

Ill.mi ed ecc.mi sig.ri Capi dell’eccelso Consiglio di Dieci

1791 21 ottobre

Il combinato zelo di sette parrochi sottoscritti in un medesimo memoriale diretto al loro ordinario diocesano di Vicenza, la pastorale sollecitudine del prelato nel secondarlo con lettera al n.u. rappresentante corredata da alcuni documenti inserti, il dispaccio finalmente del medesimo rappresentante 7 settembre passato, invocano dall’autorità di VV.EE. qualche robusta provvidenza contro li ratti o abduzioni di giovani dalla casa dei propri genitori o parenti alle case degli abduttori, ovvero ad altre da questi assegnate e prescelte. La pietà di quei buoni ecclesiastici sembra contemplare lo spirituale riparo agl’inconvenienti in una maggiore attività di pene temporali, e l’attenzione del n.u. rappresentante, dopo molti riflessi dubbietà sopra questo argomento, che sempre vacilla nella passioni e negl’interessi degli uomini, si concentra nella domanda d’instruzioni e di facoltà per l’amministrazione della giustizia. Noi pertanto eseguendo la ossequiata commissione ingiuntaci d’informare ci troviamo costituiti nella precisa necessità di sottoporre colla possibile chiarezza alle più mature considerazioni di VV.EE. prima il fatto e poscia le leggi.

Quanto al fatto, da nessuna di queste carte viene riferito nemmeno un caso dei tanti che, nel memoriale dei parrochi, si esagerano per giornalieri e frequenti, non uno nella lettera di mons.r r.mo vescovo, il quale in faccia della pubblica rappresentanza, li asserisce da qualche anno impuniti, non uno nel dispaccio del medesimo rappresentante, che avrebbe potuto almeno sostener l’asserzione col catalogo delle querele e delle denuncie recate al Maleficio, ovvero a quel consolato nell’ultimo decennio. Tutto viene asserito comulativamente in termini vaghi e generici, e, sulla fede ci così fatte asserzioni, si vorrebbe condotto il sovrano ad una legislazione di particolare severità per la diocesi di Vicenza, a concessione di maggiori e speciali facoltà nella procedura criminale, ovvero ad una la qual si estende anche fuori di quel territorio. Se questo sia fondamento bastante per impegnare la pubblica potestà e dignità ad arricchire di novelli poteri la curia pretoria e di una nuova legge il solo codice vicentino, se sia conveniente estenderla alle altre provincie le quali, contente dei vecchi regolamenti, vivono silenziose e tranquille sopra tal punto, se abbia ad instituirsi una tabella distinta delle colpe e dei castighi, come pare desiderarsi dal zelante rettore per sua instruzione, se la giunta di pene afflittive per trascorsi ed errori, causati per lo più da umana imbecillità, da ricchi affetti e da privati interessi, possa generare nell’universale qualche turbamento, se la sola minaccia dei castighi induca sempre l’effetto di reprimere le malizie e di migliorare li costumi degli uomini, e se una provvidenza complessiva di robuste discipline, e di metodi nuovi per l’esercizio della giustizia locale, fosse per avere conseguenze di lesione ai privilegi e statuti delle provincie, o d’impensato gravame ai sudditi, ovvero di aumento ai profitti delle cancellerie, sono tutti argomenti superiori alle nostre viste e riserbanti unicamente ai lumi sapientissimi e prudentissimi di VV.EE.

Rispetto alle leggi premetteremo che tanto dai professori di quella scienza che si chiama dei casi, quanto dai ministri dei malefici, si confonde facilmente il ratto colla seduzione, colla fuga e con altre azioni di semplice incontinenza, se hanno circostanze riferibili alla quiete ed all’onore delle famiglie. Ma le leggi civili e le consuetudini dello stato, quando non trovano specificato l’ingrediente della violenza nelle denuncie, o querele, non sogliono accordar certo luogo alla procedura del ratto, e distinguono saggiamente il vero ratto e la violenta abduzione dalla seduzione e tresca amorosa. La violenza nel ratto fatta alla volontà della donna forma il soggetto della criminalità, la qual, in proporzione dei mezzi usati nel commetterla e secondo la qualità del rapitore e della rapita, stabilisce il caso più o meno grave, siccome lo stabilisce in tutti gli altri casi delle donne oneste violate con la forza. Ma la seduzione e la fuga di una figlia, senza sua resistenza, domanda molte avvertenze, poiché può avere cause ree e tal volta ancora cause giustificate. Le ree sono tutte quelle che procedono dagl’inganni, e dalle male arti impiegate dal seduttore, il quale in proporzione del fatto può essere corretto ad arbitrio del giudice e deve compensare il danno e l’ingiuria. Le giustificate poi sono il cattivo trattamento domestico, l’età della figlia superiore agli anni ventiquattro, la negativa o la deficienza della dote, la necessità di usare delle azioni sue civili, il sottrarsi da qualche pericolo e simili, che rendono giustificato il ritiro dalla casa paterna, o dei congiunti, o dei tutori. Perciò a nessuno di tali casi devesi applicare nella sana giurisprudenza l’odiato nome ed il carattere di ratto propriamente detto.

Il vero ratto, secondo la disposizione del gius comune, assoggettava il colpevole sino alla pena dell’ultimo supplizio. Ricordano gli scrittori le leggi credute di Solone e di Dracone date agli antichi Greci, le quali obbligavano il rapitore all’alternativa di sposare la donna rapita o di espiare colla morte il suo mancamento. Li Romani, a principio bisognosi di popolare la nascente città, non furono assai delicati sopra questo oggetto ed il ratto più celebre fu quello delle Sabine, che generò una guerra e terminò in una perfetta amistà fra le due nazioni. Poscia in Roma si fecero leggi di qualche efficacia in punizione della violenza, e nei più bassi tempi nel codice Teodosiano sono state raccolta le costituzioni di più imperatori contro questo delitto. Nel serenissimo Domino della Repubblica li misfatti di questo genere spettano alle giudicature ordinarie delle provincie suddite, che prendono dalle circostanze particolari dei successi la norma dei loro giudizi. Nell’età presente, la sociale facilità del conversare, congiunta alla mollezza del vivere, sebbene ha fatta apertura ad altri disordini, ha però estinti molti dei vecchi, avendo reso meno feroce il cuore degli uomini, meno insidiati li chiostri delle sacre vergini, e meno frequenti ancora le occasioni del violento rapimento delle donne, quale si contemplò dalle leggi.

Le massime e le leggi venete dei primi tempi furono più temperate di quelle del gius comune; le altre, emanate dopo gli acquisti della Terra Ferma, non usarono maggiore severità, e le ultime parlano assai poco di questo delitto, senza discostarsi dallo spirito delle precedenti. Resta bensì alla prudenza del tribunale eccelso raccomandata l’autorevole cura di rimetter la pace, che per qualunque motivo restasse turbata nelle famiglie nobili, ma le altre differenze e le risse fra le persone di condizione inferiore vennero lasciate alla naturale competenza dei giudici ordinari in ogni paese. A certo statuto 1195 8 aprile fatto dal serenissimo doge Enrico Dandolo, nella promissione del maleficio pubblicata nel 1232 7 giugno, si aggiunsero soltanto ammende gravi, ma pecuniarie, contro chi avesse osato di violare con la forza alcuna donna e le afflittive si restrinsero alla perdita degli occhi, quando non fosse data la soddisfazione in denaro. Che se le cose non fossero manifeste, né provate, si rimette la pena all’arbitrio del giudice. La stessa legge del serenissimo Maggior Consiglio 1288 27 settembre inibitiva del prendere due mogli, non contiene altra pena che pecuniaria, comminando la carcere di un anno nel solo caso di pagamento non soddisfatto.

Nel 1413 o 1414 3 luglio, tempi delle conquiste maggiori in Terra Ferma, l’ecc.mo Senato promulgò una taglia di lire cento contro li rapitori delle femmine e contro gli altri, banditi dai rettori in perpetuo. Ma il decreto fu poco dopo rivocato dall’altro 1438 13 luglio, che prescrisse ai rettori stessi di procedere e condannare secondo la forma degli statuti ed ordini municipali dei luoghi. Nei casi per altro di gravissime circostanze ricorrono al medesimo, ovvero a questo eccelso Consiglio, perché vengano assunti o per la concessione di autorità maggiore della ordinaria nel punire i delinquenti. Quindi è che nel 1457 29 giugno fu condannato da esso ecc.mo Senato Palmerio dal Sesso, nobile di Vicenza, che aveva sedotta la madre, rapita una figlia di anni dieci, promessa ad altri, e condotta fuori dello stato per darla ad Ugolino suo figlio. Nello stesso anno 1457 8 agosto condannò egli pure in sei mesi di carcere e lire cinquanta cadauno li due patrizi Antonio Priuli ed Angelo de Mezzo per esser entrati nella casa di due femmine a Santo Antonino, ed averne condotta una con forza, mentre fuggiva, all’osteria della Simia in Rialto, dover per tutta la notte la trassero alle loro voglie. Si legge ancora la delegazione 1478 13 marzo da lui fattasi al rettore di Feltre, con facoltà di bandire definitivamente e poner taglia contro certo Toffolo de’ Baltei, rapitore e violatore di una vergine, a cui aveva tagliata una orecchia e date percosse con la frusta. Somigliante delegazione, con accrescimento di facoltà, fece al rappresentante di Padova 1487 10 gennaro per lo ratto violento di due sorelle, commesso da quattro persone per l’innanzi bandite. Un’altra delegazione seguì nel 1531 6 maggio a Vicenza per un altro ratto di due ricche sorelle nubili, eseguito da una compagnia di circa venti persone ignote.

Per la Dominante si promulgò la legge 1520 10 giugno del serenissimo Maggior Consiglio, la qual, distinguendo i casi delle querele, in tale proposito permise bensì agli Avogadori, Signori di Notte e Capi dei Sestieri di accettar quelle delle donne violate per forza, suggestione, fraude, ovvero inganno, nella generalità dei quali termini potrebbe comprendersi ancora il ratto. Ma volle però che fossero tutte mandate ai fori competenti per far le prove legali, rimettendole al giudizio di quei magistrati senza far menzione di pene. Una parte 1574 15 aprile di questo eccelso Consiglio colla giunta si trova trasmessa nelle odierne inserte di Vicenza e citata anche dal giureconsulto Lorenzo Priori nella sua Pratica Criminale, perché possano esser presi in flagranti crimine li rei di alcuni delitti particolari, fra i quali si annoverano lo sforzo, il ratto e la violenza, così nella roba come nella vita. A questa legge, che favorisce le sole retenzioni, il Priori ne congiunge altre tre 1578 24 luglio e 24 settembre, e 1580 20 maggio, che, senza certa specificazione del loro contenuto, applica al ratto, concludendo però che il giudice si governi e giudici secondo la sua coscienza, dopo aver bene considerate le circostanze.

Ricorda pur questo autore il bando capitale pubblicato in Vicenza (forse al suo tempo) contro un Poggiana, per aver colla forza rapito una villanella. Nel 1681 venne ricercata al Governo(?) dal cardinal Boncompagni una citella fuggita da Bologna con un giovane imputato di averla sedotta e condotta a Rovigo, dove il vetturino dopo essere stato custodito in carcere per alcuni giorni fu licenziato, e quanto al resto si è creduto opportuno di rispondere sotto li 2 agosto al sig.r cardinale, che si trovavano già dati gli ordini migliori dei quali era capace quel caso. Non mancano esempi, anche recenti, di giovani richieste, fermate e concesse agli esteri principi per la fuga e per l’abduzione senza sapersi che alcuno degli operatori del trascorso fosse obbligato a condanne perpetue o capitali. Omettendo le sovrane leggi, che nei matrimoni prescrivono le solennità della Chiesa ordinate dal sacro Concilio di Trento, sta definito nel vecchio statuto di Vicenza con chiarezza e con precisione il vero ratto e l’abduzione violenta, contro il qual delitto nel rigoroso vivere di quei tempi si legge comminata per fino la pena della testa. Per le abduzioni poi volontarie e di consenso della donna, ma senza la volontà dei suoi congiunti, si stabilisce nel medesimo la condanna pecuniaria di trecento libbre de’ piccoli e la pena di carcere. Questo documento è noto così all’illustre prelato come all’attento rappresentante in quella città, mentre si legge nelle inserte di Vicenza, per lo che non sembra affacciarsi il bisogno di più robusto riparo, ma di regola prudente nel farsene uso dal giusdicente locale. Anche l’altro documento trasmesso delle costituzioni sinodali di quella diocesi per li mezzi di assicurare la libertà del consenso nei matrimoni delle fanciulle rapite, o fuggite, si riconosce analogo alle canoniche e temperate disposizioni del tridentino, sicché il zelante prelato altresì ha la regola propria da seguitare nei ricorsi dei parrochi diocesani.

Che se il pubblico rettore abbisognasse per avventura in qualche emergenza di facoltà maggiori della sua ordinaria, potrebbero VV.EE. incaricarlo di esporre con esattezza di volta in volta li casi degni di tale straordinario soccorso, come si pratica negli altri malefici, per dipender in seguito dalle sagge disposizioni dell’eccelso tribunale, che saprà adattarle con sapienti misure alla differenza delle circostanze, senza omettere la considerazione solita usarsi verso gli statuti municipali e li consolati delle suddite città. All’alto discernimento in fine di VV.EE. non sarà per isfuggire il riflesso che, nel tumulto delle umane passioni, una provvidenza di nuovo aspetto potrebbe forse non corrispondere ai pubblici oggetti e farsi pesante alle sublimi loro occupazioni, accresciute in ora pur troppo dalla frequenza dei dissidi matrimoniali. Avendo le leggi e consuetudini criminali dello stato abbastanza provveduto contro li ratti e le seduzioni, sembra mancare soltanto oggidì una cura migliore nei padri di famiglia, per la buona educazione e custodia dei propri figli, onde con l’esempio e con le instruzioni tenerli costanti nella subordinazione e nel retto sentiero di una vita disciplinata e virtuosa. Grazie”.


[1] ASVe, Consultori, f. 286, 21 ottobre 1791

[2] Cfr. V. Cesco, Il rapimento a fine di matrimonio, in L’amministrazione della giustizia penale nella repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), II, Sommacampagna 2004, p. 353

[3] Ibid.

[4] La posizione della Chiesa emersa durante il Concilio di Trento in relazione al ratto fu di compromesso: il rapimento venne considerato un impedimento al matrimonio, ma solo fino a che la donna fosse rimasta in balia del rapitore; quando, liberata e sicura, avesse deciso di sposarlo, il matrimonio si sarebbe potuto celebrare. Da un lato, quindi, veniva salvaguardata l’importanza del consenso, dall’altro la pratica del rapimento non veniva totalmente condannata.