11.1.2. Il matrimonio segreto di Francesca Pagliaro (1790)

Paolo Odoardi e Francesca Pagliaro

Vicenda più affollata e tesa quella che si svolge a Belluno[1], che vede coinvolta una coppia di sposi avversata da un’intera famiglia. Paolo Odoardi, orfano, diciottenne, aveva scelto di sposare, per amore, una sua cameriera, Francesca Pagliaro, proveniente da Cison e da poco in servizio presso la sua casa. La giovane età dello sposo e la superiorità della sua estrazione sociale avevano reso opportuno un matrimonio segreto. Qualche mese dopo, venuta a conoscenza dell’accaduto, la famiglia di Paolo ebbe una reazione durissima: i fratelli e lo zio tanto tormentarono il ragazzo da costringerlo a rendere pubblico il matrimonio, in modo da poterlo impugnare ed invalidare. E, prendendo a pretesto alcune irregolarità commesse in totale, e dimostrabile, buona fede dal parroco e dal cancelliere vescovile, non si rivolgono alla curia, ma alle autorità secolari. Franceschi legge le carte, studia il caso e risponde convinto già in apertura del consulto enunciando subito la perfetta regolarità dell’unione; assai agevolmente dimostra poi la strumentalità del ricorso, di fronte alla quale consiglia al tribunale di valutare la possibilità di un severo ammonimento ai ricorrenti, giunti consapevolmente all’alta magistratura con ragioni totalmente infondate.

“Serenissimo Principe

Ill.mi ed ecc.mi sig. Capi dell’eccelso Consiglio di Dieci

1790 16 agosto

Il matrimonio segreto seguito in Belluno con mandato di mons. vescovo diretto a quel parroco sacrista don Antonio Maria Sammartini fra il giovane Paolo Antonio Odoardi e Francesca Pagliaro quanto alle solennità prescritte dalla Chiesa e dalle pubbliche leggi non esibisce all’intendimento nostro difetto alcuno sostanziale, il qual meriti la censura, e nemmeno la riflessione di VV.EE. Dalli documenti inserti nei medesimi ricorsi viene assicurato il concorso dei requisiti necessari per riconoscerlo valido e celebrato secondo il cattolico rito. Esiste il mandato speciale dell’ordinario diocesano in data 16 aprile decorso, come si usa nei matrimoni segreti, o sian di coscienza, e fu contratto nel giorno seguente del 17 col debito proferimento del mutuo consenso dei coniugi, colla presenza del parroco delegato e con l’intervento dei due testimoni voluti dai sacri canoni. La differenza della condizione e l’età al quanto verde dello sposo, che appena conta gli anni dieciotto e non è soggetto alla paterna potestà per la morte del genitore, ha generata una fervida commozione degli animi nei due fratelli maggiori e nel zio procuratore della famiglia per abbandonarsi ai consigli forensi e dar mano a più tentativi contro questo legami. Si cominciò dall’impetrare ordini avogareschi per far palese ciò che aveva il sigillo della segretezza, si obbligò il giovane al ritiro e al silenzio colla elezione di un procurator criminale, che, unito ai congiunti, parli a talento ed operi nell’assunto, si proseguì coll’ottenere dal prelato la pubblicazione del matrimonio e si andò più innanzi col produrre le querimonie loro al tribunale di VV.EE. contro il parroco, contro il cancellier vescovile e contro il vescovo ancora.

Nei due memoriali prodotti il parroco è imputato di aver rilasciate due fedi diverse di questo matrimonio, il cancelliere vescovile di aver data mano all’alterazione delle due carte e il vescovo di aver segnato il mandato, o sia il decreto permissivo, dopo che erasi celebrato il matrimonio. Quando anche però fosse vere queste imputazioni, sarebbero bensì degne di considerazione, ma non toglierebbero perciò niente alla sostanza e validità del sagramento. In oltre nemmeno le prove del fatto corrispondono all’intento dei ricorrenti.

Le due fedi rilasciate dal parroco, l’una in data 6 maggio e l’altra 19 maggio 1790, concordano perfettamente nel giorno dello sposalizio, nei nomi degli sposi, in quelli dei testimoni, nella presenza del parroco, nel mutuo consenso degli sposi e nel luogo dove fu celebrato. Questi sono li requisiti essenziali da esprimersi nei registri matrimoniali, e siccome li matrimoni segreti non vengono descritti nei libri comuni, perché non sarebbero più segreti, così li parrochi, o gli altri sacerdoti, ai quali è delegata la facoltà, sogliono scrivere sopra li mandati stessi della loro commissione, ovvero con memoria di proprio pugno l’esecuzione prestata, e, con forma di cedula sigillata, li restituiscono in mano de vescovi, o de lor cancellieri, né tali carte si aprono mai, se non ad istanza dei medesimi coniugi, o per qualche altro effetto di giustizia. Il sommo pontefice Benedetto XIV, nella bolla Satis nobis dell’anno 1741, desiderò che gli ordinari istituissero anche li registri segreti e ne dettagliò le discipline. Il patriarca di Venezia le adottò e fece proprie in un suo editto primo settembre del 1764, dato nelle stampe. Questo metodo, per quanto a sé spettava, comparisce tenuto dal parroco Sammartini nel proposto caso, avendo consegnata nella cancelleria ecclesiastica, insieme colla restituzione del mandato vescovile, anche la debita nota del matrimonio effettuato.

Sembrano per altro dissimili le due fedi del parroco in altri accessori di minore importanza, forse perché essendo richieste dalla parte interessata prima che fosse aperta e pubblicata la sua cedola, egli bonariamente le trasse dalle prime note, o sian minute presso di sé  rimaste. Avendole per avventura duplicate, e venendo forse stimolato con qualche importunità, non è irragionevole l’abbaglio preso nel giorno 6 di maggio di trarre il primo attestato dalla prima sua abbozzatura, o sia minuta, e di aver poscia trascritto il secondo nel giorno 19 maggio dall’altra più corretta ed esatta, la qual si conforma interamente all’autografo che stava colle solite formalità sigillato e custodito, e che si pubblicò in vigore del decreto vescovile 9 giugno passato sulle istanze del medesimo sposo e di un suo fratello. Il confronto tra le due fedi contiene la differenza, che in fronte della prima non si fa menzione del mandato vescovile e che si dice provata nella curia episcopale di Belluno la libertà di ambedue probata in hac episcopali curia utriusque libertate; quando la seconda, ed anche l’autografo, dicono sciolti dalla consueta legge delle tre pubblicazioni: a consueta trium pubblicatiorum lege soluti. Il parroco, osservando la dispensa dalle tre pubblicazioni concessa dal vescovo, nello stendere il primo abbozzo suppose ciò, che è di costante pratica dalle curie, vale a dire, che alla dispensa fossero precedute le prove dello stato libero dei contraenti, non appartenendo alla sua inspezione altro ufficio che quello semplice di eseguire il mandato dell’ecclesiastico superiore. Sino a qual grado le prove medesime siano state ricevute nella curia, egli non è tenuto a rispondere, perché il sacro Concilio di Trento rimette soltanto alla prudenza e giudizio dell’ordinario la piena facoltà di dispensare dalle pubblicazioni. Quindi è facile persuadersi di quanto poca importanza sia la differenza dell’espressioni; che egli non è colpevole di falso, e che non ha commesso alterazioni di carte sacre, mentre nell’uno e nell’altro modo di esprimersi, il parroco ubbidisce e si riferisce sempre agli ordini della curia sull’articolo della libertà. Di più, egli avverte in fine che quelle fedi sono tratte dalle sue particolari memorie, e non dai libri della chiesa, o dal registro consegnato alla curia. E’ pertanto sempre attendibile nella sana giurisprudenza la sola copia corrispondente all’autografo e le altre provenienti da altri fonti si riguardano per inattendibili e nulle.

La querimonia contro il cancellier vescovile ha due parti. L’una è l’imputazione di abusi e d’intelligenze col parroco sulla forma dell’estesa e sul giorno della consegna della cedola sigillata. Tutto si deduce da sospetto e da sottili induzioni, le quali mancano di sodo fondamento e non risultano giuridicamente provate nemmeno dalle risposte del reggimento di Belluno 21 luglio decorso, cessando così il motivo di farne riflesso alcuno. L’altra parte sembra ancora più leggera di questa, perché si accusa il cancelliere di aver esposto, con costituto 30 maggio, sopra le lettere avogaresche che non esistevano in sua cancellaria le carte richieste, ma solo una cedola presentata dal parroco li 18 aprile decorso. Obbligato egli allora alla severità del segreto, e non essendo in sua facoltà di far uso alcuno delle cognizioni relative a questo affare senza mancar alla fede del proprio ufficio, non gli era permesso di concepir altra risposta. Il non vedersi poi inoltrate le indagini per quella via, e l’aver preso li medesimi ricorrenti savio partito di rivolgere le loro istanze al prelato per la pubblicazione della cedola indicata, giustificano a sufficienza la cauta e necessaria condotta tenuta dal ministro vescovile. La imputazione finalmente data al vescovo di aver segnato il suo mandato, o sia decreto, fuori di tempo, e che questo, al momento degli sponsali, non esistesse, si ravvisa destituta affatto di ogni prova legale e fuori ancora d’ogni ragionevole presunzione. In una parola non somministrano questi ricorsi materia degna dell’autorità del tribunale per quanto si affaccia alla brevità dei nostri lumi, non potendo divenir soggetto di sua correzione se non cio che risulta in vero grave e comprovato difetto. In tali circostanze, e per queste divotissime considerazioni, sarà dalla maturità di VV.EE. il conoscere sino a qual segno abusivo di coltiva oggidì e s’inoltra dall’accortezza forense l’industria dei ricorsi per multiplicare le controversie matrimoniali. Comanderà pure se opportuno fosse il passo di far sapere ai ricorrenti, colla voce del pubblico rappresentante, che restano licenziati i loro memoriali 25 luglio passato e 7 agosto corrente, ammonendoli insieme di prender nell’avvenire misure più riverenti e più fondate prima di presentar somiglianti richiami. Grazie”.